venerdì 20 settembre 2013

Premessa a due o tre dozzine di post


Una trentina d’anni fa, quando Karol Wojtyla cominciava a mietere successi da popstar coi suoi tour intercontinentali, e la macchina mediatica che doveva rappresentarci il «ritorno del sacro» era già a pieno regime, un giornalista, José María Javierre, chiese a un politico, Alfonso Guerra González, quale fosse la sua opinione riguardo alla grande simpatia che Giovanni Paolo II andava raccogliendo ovunque, anche tra i non credenti, e all’onda di entusiasmo che un papa come quello andava sollevando in seno a una Chiesa fin lì arroccata in difesa, quasi rassegnata a subire i micidiali colpi della secolarizzazione che le venivano inferti ormai da decenni. La risposta fu che non ci fosse alcun motivo di stupirsene, perché in Vaticano – disse – non mancavano «persone straordinariamente furbe»: «Giocano con tutte le carte in mano – aggiunse – e sono disposti a utilizzare qualsiasi mezzo per difendere i propri privilegi, in grado di salire su qualsiasi treno, senza farsi troppi scrupoli». Non starebbero lì da due millenni, potrebbe essere la chiusa, se non avessero fatto del cinismo, dell’ipocrisia e dell’opportunismo una categoria dello spirito. D’altronde la consegna era stata chiara fin dall’inizio: «Siate candidi come colombe e astuti come serpenti» (Mt 10, 16).
Traggo questo scorcio d’intervista dal capitolo finale di un libro che mi pare di aver già citato in una o due occasioni, La larga marcha de la Iglesia (1985), pubblicato in Italia una dozzina d’anni dopo da Jaka Book col titolo Momenti cruciali nella storia della Chiesa (1996), di cui è autore Juan María Laboa, più apologeta che storico, che così commenta le crude affermazioni di Alfonso Guerra González: «Significa disconoscere la presenza continua in seno alla Chiesa di uno sforzo e di una ricerca laboriosa di un mondo più giusto e fraterno, l’esistenza di innumerevoli persone che lavorano e si fanno in quattro per gli altri, la vita di milioni di persone semplici la cui unica luce e speranza si riassumono nel Vangelo e nella Chiesa».
Si tratta di un argomento che è speso quasi solo in difesa fin dai tempi della Lettera a Diogneto, dunque da ben prima che la Chiesa cumulasse privilegi in una posizione egemone sul piano politico e su quello culturale: le accuse che le erano mosse, nei primi secoli, si limitavano a quella di essere una forza eversiva, come in realtà era davvero, per quanto facesse voto di obbedienza al potere temporale che comunque, diceva Paolo, viene da Dio (Rm 13, 1-6). Allora come oggi, si tratta di un argomento che ha qualche indubbia efficacia per chi voglia limitarsi a guardare la Chiesa in superficie, per ciò che mostra al mondo, soprattutto al mondo che la guarda con sospetto. D’altra parte, non sarà sfuggito il cortocircuito nella difesa di Juan María Laboa, che è una rielaborazione: è «in seno alla Chiesa» – dice – che «luce e speranza» trovano insieme il mezzo e il fine, sicché «farsi in quattro per gli altri» torna utile a quella che in senso lato è l’economia della Chiesa stessa, e cioè la salvezza eterna del popolo di Dio. Se questa strumentalità del «farsi in quattro per gli altri» è apparsa sempre più frequentemente come la ragione sociale della Chiesa è perché gli attacchi che le sono stati mossi sono diventati sempre più frequenti, e tuttavia torna costante il richiamo al fatto che non è una ong, e che il prossimo altro non è che immagine di Dio, che la carità altro non è che la contropartita della verità: le opere di misericordia corporale sono la capsula che riveste quelle di misericordia spirituale, il samaritano ti soccorre per reclutarti.
Tutto sommato, il mondo è solo l’occasione che la Chiesa sente le sia stata data per traversare il tempo, e proprio perciò il volume di Laboa è prezioso: delinea un atteggiamento (trattandosi di un’istituzione che si dà statuto di comunità organica, potremmo parlare di un istinto) che condiziona lungo i secoli la natura del rapporto tra Chiesa e mondo di là da ogni specifica contingenza storica. Senza scendere nel dettaglio, e affidandoci alla sintesi offertaci dalla simbologia cristiana, la Chiesa si sente barca, il mare in cui naviga è il tempo terreno, e il mondo è l’onda che solca, ora favorevole, ora avversa. Quando le è favorevole, è il momento di spiegare le vele: la verità di cui si sente depositaria e custode pretende statuto di legge che mettere in discussione sente come offesa. Quando le onde si fanno alte e si frangono sulle sue murate, facendola oscillare pericolosamente, le vele vengono ammainate: è il momento della carità.
Va avanti così da sempre: due passi avanti ed uno indietro, ieri, due passi indietro ed uno avanti, oggi. Se ieri serviva a guadagnare posizioni, oggi serve a non perderne troppe. Cinismo, ipocrisia e opportunismo, dicevamo, sono connaturate alla Chiesa: strumenti che hanno natura e funzione analoghe a quelle degli enzimi, la cui sequenza degli aminoacidi è scritta nel dna di cui sono modulatori per la loro stessa sintesi. Durare per durare: il resto – tutto il resto – mero epifenomeno.


4 commenti:

  1. Bè, vede Malvino, io per molti versi sono disilluso come e più di lei nei riguardi della Chiesa cattolica (intesa, sia chiaro, nell'unico senso possibile, realistico e schettamente laico, ossia come struttura gerarchica volta al potere). E naturalmente condivido questo suo avvertimento. Anzi, penso che avvisi come questo suo post, scevri da moralismi propagandistici in un senso o nell'opposto, dovrebbero avere sui giornali e ovunque lo stesso risalto che viene dato ai discorsi "sovversivi" di papa Francesco. Specie in Italia, dove abbiamo un cronico, disperato bisogno di laicità e di capacità laica di combattere la corruzione e il crimine e di mantenere quindi, proprio a questi fini, i piedi per terra.

    In assoluto, però, non penso che abbia una grande utilità per nessuno incalzare la Chiesa quando è intenta ad ammainare le vele e a mantenere dritta e a galla la nave. Questo perché non ritengo affatto che sia poi tanto agevole e automatico il ciclico alternarsi delle decisioni di issare/mollare il pappafico, come e quando. Permanendo nella metafora marinara, io credo che occorra pur sempre un nocchiero che dia di volta in volta quell'ordine. E il nocchiero non è sempre lo stesso, non è sempre parimenti esperto ed accorto, non dà al concetto di "salvare la nave" lo stesso significato dei suoi predecessori/successori. Magari non intende proprio salvarla la nave, o ha idee tutte sue sulla rotta da percorrere o in merito a quale sia lo scopo ultimo della nave, ammesso che possa esisterne uno. Potrebbe essere allora che le svolte cicliche di cui lei parla, che lei inquadra in un percorso noto, dal carattere scontato, quasi noiosamente scontato, richiedano invece uomini particolarmente adatti, di statura insolita, che non stanno sempre lì belli e pronti nell'armamentario da installare sul cassero. Credo, ad esempio, che nel 1958, a molti (forse non ai più) nella Chiesa era manifesto il pesante stato di crisi e di autorevolezza in cui essa versava, ma che pochi, pochissimi, forse una sola persona nella Chiesa avesse idea sul da farsi.

    Ho insomma più prosaicamente l'impressione che la Chiesa abbia gli stessi pregi/difetti e condivida gli stessi incerti di qualsiasi altra organizzazione umana strutturata e che le organizzazioni umane finiscano tutte, più prima che poi, per avere un'unica finalità e conferire un'unica logica al proprio agire, ossia la logica della propria soparavvivenza. E credo anche che ciò che lei rileva per la Chiesa valga anche per lo Stato italiano, la massoneria, i Cavalieri di Malta, il CIO, la mafia, la Pro Vercelli, il Monte dei Paschi, ecc. e che queste organizzazioni abbisognino di cuori e cervelli fuori dal comune per sopravvivere a se stesse nelle tempeste e tornare a rifiorire. Altrimenti scompaiono, come ne sono scomparse e scompaiono un'infinità nel tempo.

    Io non saprei dire - chi del resto potrebbe dirlo? - se ciò dipenda dalla diabolicità o dalla provvidenza che aleggiano intorno a noi intessendo di sé gli umani e il loro mondo, ovvero, in parole povere, se papa Giovanni XXIII fu più strumento di Dio o del secolo maligno. Ma è un fatto che a garantire la sopravvivenza della Chiesa e realizzare la svolta del Concilio Vaticano II non sarebbe bastato un qualsiasi mestierante di mare. Il conclave del 1958 arrivò a due passi dall'eleggere Siri: ma a lei non viene il sospetto che una simile scelta avrebbe potuto da sola determinare il tramonto della Chiesa o almeno il suo definitivo distacco dalla gente? Io ce l'avrei, e ho anche il sospetto che l'elezione di Ratzinger innescò un rischio dello stesso genere, anche se non altrettanto grave.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. E' sull'intendere la Chiesa come struttura gerarchica, guardando la cima della piramide come fosse sospesa sul nulla, che non ci troviamo.

      Elimina
  2. No, non è detto che non ci si possa in una qualche misura ritrovare anche sotto quell'aspetto. D'altra parte non mi pare di aver detto nulla di particolare o di decisivo in merito, fatta sempre salva la possibilità che io possa essermi espresso male, naturalmente.

    RispondiElimina