venerdì 3 ottobre 2014

«Si ha ragione di voler avere sempre ragione»



Non si ha ragione se non di qualcuno. È in questa constatazione, ovvia solo quando sia palese il carattere asservente della persuasione, che sta il riconoscimento della natura bellica della retorica, d’altronde in premessa ad ogni sua trattazione sistematica. Anche il folle che parlotta da solo combatte contro un avversario, ancorché immaginario, anche il più duro cammino del saggio verso un’affermazione che egli possa ritenere rettamente argomentata è un farsi largo tra ostilità che hanno una pur aleatoria titolarità in fantasmatiche figure di contraddittori. Non c’è ragionamento, senza che il foro sia campo di battaglia. E non v’è scrittura che ne dia conto, senza che il suo registro sia – più o meno riconoscibilmente – diario militare. Andrebbe scoraggiata, dunque, in chi la nutre, l’idea che la meditazione intima e la discussione pubblica – tra di loro assai più simili di quanto solitamente si pensi – siano officine in cui si costruisce pensiero: si tratta, in realtà, di spazi in cui si consumano duelli, e non è affatto detto che la vittoria premi chi meglio conosca la topica aristotelica o la logica formale, anzi, tutt’altro.
Poco più di un anno fa mi sono già intrattenuto sulla questione (Πολεμική τέχνηMalvino, 27.9.2013), oggi ci ritorno perché in Petit traité à l’usage de ceux qui veulent toujours avoir raison di Georges Picard (Librairie José Corti, 1999; qui in Italia: Archinto, 2002) trovo uno straordinario equivalente di ciò che Il Principe di Niccolò Machiavelli rappresentò per la scienza del governo, a rigettare la tesi che chi dia consigli senza farsi assistere dall’etica, in fondo, e neanche tanto in fondo, sia un moralista che fa dell’ironia. Può valere per L’arte di ottenere ragione in 38 stratagemmi di Arthur Schopenhauer, non per Georges Picard. In questo delizioso libricino non v’è traccia alcuna di biasimo morale per l’uso del più delinquenziale armamentario retorico, anzi, v’è il monito a considerare l’onestà intellettuale un grave handicap: se «è cosa veramente molto naturale et ordinaria desiderare di acquistare; e sempre, quando li uomini lo fanno che possano, saranno laudati, o non biasimati; ma, quando non possono, e vogliono farlo in ogni modo, qui è l’errore et il biasimo» (Il Principe, III), il fine ultimo è la persuasione, cioè la conquista dell’uditorio, ed ogni mezzo si misura sulla capacità di ottenerla, buono solo se efficace, quand’anche sia scorretto: «l’errore et il biasimo» solo nell’inadeguatezza al fine.
Per trovare assennata la lezione di Georges Picard, bisogna considerarne incontestabili le premesse: «si ha ragione di voler avere sempre ragione, non conosco una sola postulazione più attraente e produttiva» (pag. 19); «non è affatto necessario aver ragione per pretendere d’aver ragione» (pag. 31); «soltanto gli ingenui possono credere che le discussioni mirino a risolvere un problema o a chiarire questioni, in realtà la loro unica giustificazione è di mettere alla prova la capacità dei partecipanti nel disarcionare gli avversari» (pag. 41); «una volta liberati dal pregiudizio di credere che occorra possedere una parte di verità per avere ragione, ci si sente più leggeri per affrontare il combattimento» (pag. 45). Ora, se «la polemica non è che la continuazione del duello con altri mezzi», come scrivevo poco più di un anno fa, nel sostenere che l’importante è vincere, Georges Picard scoraggia dal nutrire scrupoli, alla faccia delle candide mammolette che la denunciano come pretesa che rivela malattia mentale, velleità dispotica o entrambe le cose, perché pretendere di aver ragione per il solo fatto di aver ragione è altrettanto folle, né è immune da intento prevaricatore: vantare il diritto di redarguizione sugli argomenti invalidi o erronei, infatti, e per il solo merito di muoversi a proprio agio tra la topica aristotelica e la logica formale, non implica un fine diverso dall’«avvicinare o conquistare il potere e soddisfare l’inclinazione per il dominio materiale, ma anche per imporre al mondo dei valori intellettuali, un’idea di giustizia, una concezione della vita sociale, delle simpatie estetiche» (pag. 27), e pensare di poterne avanzare la pretesa con armi inappropriate a persuadere l’uditorio non dà esito diverso da quello che si ottiene con fallacie inefficaci.
Potrà sembrare una tautologia, ma ha in sé la forza del più inoppugnabile realismo: la vittoria spetta a chi vince, e la posta in gioco non è proporzionata alla resistenza che l’uditorio oppone alla persuasione, ma alla capacità competitiva dell’avversario, perché, se è vero che voler avere sempre ragione non consente mai di trovare piena soddisfazione, è altrettanto vero che ogni vittoria dà abbrivio alla competizione, come è illustrato dal paradigma del «pallido notaio di provincia […] [che], vedendo crescere il suo ascendente sui compagni di aperitivo, […] [prova a] imporre le sue vedute in materia di politica e di morale [ad una cerchia sempre più ampia che] si trasformerà in club, poi in partito, inarrestabile nel quartiere, più tardi nella città e, un giorno, chissà, nel dipartimento, nell’intero paese» (pag. 28). E qui, a ben vedere, siamo al punto in cui la πολεμική τέχνη assume i caratteri di campagna militare, articolandosi in segmenti di una strategia: è il punto in cui la natura mobile e contraddittoria di ogni uditorio di notevole ampiezza impone uno straordinario controllo di momento e contesto. In altri termini, siamo al livello in cui la persuasione produce un consenso che implica una fidelizzazione. Siamo al discorso politico.
Non importa quanto il sillogismo sia corretto, d’altronde Georges Picard non pretende che lo sia ma che ci persuada, e bisogna ammettere che è estremamente persuasivo: «La politica – dice – è l’arte di far prendere ai cittadini lucciole per lanterne. Visto che in questo mondo ci sono più lucciole che lanterne, è stato ragionevole definire la politica l’arte del possibile. È così che la necessità obbliga i politici in buona fede ad agire al di qua delle loro promesse, mentre quelli in mala fede agiscono in modo opposto. E sono proprio questi ultimi a persuaderci, mentre i primi agiscono considerando la realtà delle cose e l’irrealtà delle menti. Accade che, di solito, i cittadini pretendano l’impossibile in tempi irrealistici. In una società di saggi, i governanti si accontenterebbero di sviluppare i loro programmi senzamai nascondere le lacune […] I saggi ne terrebbero conto senza pretendere interessi di sorta, […] [ma] tanta franchezza sembra azzardata in una moderna società democratica dove gli elettori continuano a credere […] nell’efficacia quasi magica dell’azione pubblica sulla felicità di ciascuno e di tutti. […] Si capisce perché la maggior parte dei dibattiti politici si riducano a semplici esercizi di contabilità sociologica, dove gli argomenti sono scelti in base a ben precise mire elettorali. I partiti non cercano affatto d’aver ragione in assoluto: vogliono piuttosto aver ragione di una ben determinata categoria di votanti» (pagg. 57-59). E qui possiamo aggiungere: categoria in continuo rimodellamento plastico. Con quanto ne consegue sulla scelta degli argomenti e sui modi e i tempi di proporli: la vittoria spetterà a chi vincerà, e toccherà a chi meglio sappia usare mezzi efficaci in un determinato momento, ma inefficaci prima o dopo, e per un lasso di tempo di estensione congrua a farsi stagione. 

[segue]

1 commento:

  1. Sulla prima parte sarei curioso di sapere cosa risponderebbe Giovanni Fontana.

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