martedì 31 marzo 2015

[...]

È Antonio Socci (Libero, 29.3.2015), e non è tutto.
Sciacallaggio, senza dubbio, e senza il benché minimo cenno al fatto che Andreas Lubitz fosse cattolico. Certo, fosse stato musulmano, il pezzo sarebbe venuto meglio.
Dinanzi a quanto ci fa orrore sentiamo l’istintivo bisogno di tenercene a distanza, fuggendolo, se ci è troppo d’accanto. Quando però l’orrore nasce da quanto ci è assai prossimo, la fuga impone come l’abbandono di qualcosa che a torto o a ragione pensavamo ci appartenesse, e che d’un tratto ci appare estraneo. Lì torna utile immaginarlo come contaminato, e il primo esempio che mi viene in mente è quello del piede che con orrore scopriamo ci stia andando in gangrena: per salvarci siamo costretti ad accettare ci sia amputato, perdita comprensibilmente dolorosa ma altrettanto comprensibilmente necessaria, che però assumiamo come scelta di separarci da qualcosa che già non sentiamo più nostro, ma del Clostridium perfrigens.
Le cose stanno messe un po’ diversamente quando il corpo è quello sociale e l’orrore nasce dal constatare che chi fino a ieri abbiamo considerato simile a noi, in realtà, non lo sia affatto: stanno messe un po’ diversamente perché quello sociale è corpo solo in modo figurato (è solo una figura retorica, infatti, a ridarcelo come organismo) ed è nostro con molta confusione circa la titolarità dell’appartenenza (dovremmo, eventualmente, essere noi ad appartenergli, ma un’altra figura retorica, la metonimia, troppo spesso riesce a darci l’illusione che esso ci appartenga: concepirlo come vorremmo fosse, dunque, ce lo ridà come proiezione del nostro corpo).
Direi che sia per questo che la scoperta che il nostro vicino di casa è un mostro che nel frigo colleziona teste di bambini sia destinata a darci tanto più orrore quanto più l’abbiamo percepito simile a noi, cosa possibile solo se l’attenzione che gli abbiamo potuto dedicare era giocoforza limitata al poco che egli ci mostrava di se stesso, ma nello stesso tempo ci sembrava potesse bastare ad assumerlo come nostro proiettato. In altri termini, ci vuol poco per inorridire all’idea di un terrorista salafita che si faccia saltare in aria in una moschea yemenita, ma ce ne vuole assai di meno per inorridire all’idea di un copilota tedesco che mandi un aerobus imbottito di passeggeri a sfracellarsi contro una montagna francese: l’orrore sarà tanto maggiore quanto minore sarà la distanza che immaginavo esistesse tra me e l’autore della strage. 
Centocinquanta morti in entrambi i casi, ma solitamente io vado in aereo, non in moschea, e poi Andreas Lubitz mi somiglia molto di più rispetto a quel cazzo d’un Mohamed o di un Alì di cui non so neanche il cognome: sempre gangrena è, ma quando il piede è mio, consentirete, l’orrore sarà più intenso. Per la stessa ragione, le atrocità commesse in Iraq da un foreign fighter che viene da Verona mi turberanno assai di più di quelle commesse da uno che viene da Londra, e ancor di più di quelle commesse da uno che viene da Tunisi. Direi che, quando le ragioni che motivano una strage hanno preso le mosse da un universo che ritengo estraneo al mio, l’orrore mi turba, ma non mi dà troppi problemi. Quando, al contrario, l’autore della strage è uno che fino a ieri avrei detto mio fratello, non mi basta sapere che fosse folle: ho bisogno di appioppargli una gangrena metafisica.   

lunedì 30 marzo 2015

Renzi è peggio di Berlusconi

Una frase pronunciata da Landini nel corso del discorso tenuto sabato scorso in Piazza del Popolo ha trovato sintesi giornalistica in un’affermazione sulla quale in molti hanno storto il muso: dopo aver elencato i provvedimenti di natura economica fin qui adottati dall’esecutivo attualmente in carica – i riferimenti erano quasi interamente relativi al cosiddetto Jobs Act – il segretario generale della Fiom-Cgil ha detto che «il governo Renzi sta proseguendo come i governi precedenti Monti e Letta e anche con un peggioramento rispetto al governo Berlusconi», ma la concisione imposta dalle esigenze dello strillo hanno trasformato la frase in «Renzi è peggio di Berlusconi», che è suonata come giudizio complessivo sulla persona del premier, e giudizio assai poco lusinghiero, soprattutto tenuto conto del termine di paragone, sicché in molti hanno storto il muso, anche fra quanti a Renzi non hanno fatto mai sconto di nulla.
Peggio di Berlusconi, insomma, nessuno: «un piazzista piduista con capitali dalle origini molto torbide, che inizia il suo business ungendo amministratori pubblici per vendere case agli enti locali, poi continua legandosi mani e piedi al peggior potere politico e stringendo rapporti con la mafia, quindi fa costruire il suo partito da un mafioso usando il suo capitale e le sue televisioni per andare al governo, continuando intanto un’opera mai interrotta di corruzione ed evasione fiscale, dopo aver corrotto anche un giudice per prendersi una casa editrice non sua, infine trascorrendo l’ultima legislatura di governo a fabbricare leggi incostituzionali per salvare se stesso dai processi [e] questo per tacer del resto, mignotte minorenni incluse», così nel memento di Alessandro Gilioli, che renziano non è, e che nel definire i termini della questione non manca di porre in rilievo la differenza tra quel che Landini ha realmente detto e quel che invece i cronisti gli hanno fatto dire.
Bene, io l’ho già scritto poco più di un mese fa e non ho alcuna difficoltà a ripeterlo: «Renzi è peggio di Berlusconi». A dire il vero, non mi esprimevo proprio in questi termini, ma, visto che la frase nasce orfana e nessuno la vuole, l’adotto io. Ammetto sia bruttina, ma lasciarla indifesa non mi pare giusto. Ed eccomi a difenderla, cominciando dal togliergli le virgolette.
Renzi è peggio di Berlusconi, perché Berlusconi non è ancora morto, ma non sarà mai più pericoloso quanto lo è stato, senza peraltro riuscire a far varare dalla sua maggioranza parlamentare tutte le schifezze di cui fin qui Renzi si è dimostrato capace. Se fosse necessario per azzoppare Renzi, il che al momento non è alle viste, votare Berlusconi esigerebbe uno stomaco foderato d’un pelo alto un palmo, ma, avendocelo, potrebbe anche essere eccitante. Nessuno è peggio di Renzi, perché nessuno – qui e ora – è altrettanto pericoloso, neppure Berlusconi. 

domenica 29 marzo 2015

[...]


Almeno per Der Spiegel, che in Germania non è voce irrilevante, «l’incidente mette fine al mito della sicurezza tedesca»: «Non erano gli altri, quelli cui accadevano le grandi tragedie? Attentati, incidenti con centinaia di morti, catastrofi che accadevano sempre lontano da noi. Da martedì è diverso. Finisce l’illusione che noi siamo più sicuri degli altri finché ci affidiamo a quello che ci fa tedeschi. Una tracotanza che è durata troppo a lungo».
Può darsi che questa riflessione non nasca dallo «Schettinen» che l’altrieri il Giornale sparava in prima pagina, d’altronde lo stesso Der Spiegel, con ammirevole misura, lo ha definito discutibile («fragwürdigen») e inopportuno («unangebracht»), miserabile pan per focaccia («Retourkutsche») per ciò che il settimanale tedesco aveva scritto sulla vicenda della Costa Concordia (*). Una cosa, tuttavia, mi pare degna di nota: sul principio di responsabilità, l’opinione pubblica tedesca ha riflessi assai più nobili della nostra. Si direbbe che lì vi sia popolo, e qui gente.

sabato 28 marzo 2015

[...]

Quando la nave colerà a picco, quelli che oggi lodano il capitano saranno al sicuro su una scialuppa sulla quale non ci sarà posto per chi lo critica. Per alcuni è un posto che si guadagna lodandolo, ma per la gran parte è un posto che spetta per privilegio, del tutto naturale che questi ritengano inutile ogni critica. Le lodi, insomma, stanno al colare a picco come le mosche alla merda.

[...]


Arriva a conclusione una vicenda giudiziaria che fin da subito ha mostrato, con uno dei più dissennati modi di condurre un’indagine, l’incredibile d’una eccezionale mostrificazione degli imputati a fronte di una sconcertante inconsistenza delle prove a loro carico, ma ansa.it osa sparacchiare che la sentenza è a sorpresa. Hanno rubato anni di vita a due ragazzi che un pm si è ostinato a credere non potessero non essere che colpevoli – oggi s’è visto quanto a ragione – e ansa.it si stupisce che la Cassazione lo definisca un furto: «Tra chi immaginava una sentenza definitiva di condanna e chi puntava ad un processo d’appello-ter con annullamento del verdetto della Corte d’assise di secondo grado di Firenze, la Suprema Corte ha scelto una terza via, forse la più difficile». Perché «la più difficile», se quelle che si riteneva essere prove erano in realtà solo gracili stampelle a sostenere una più che zoppicante tesi preconcetta? Neanche si è mai riusciti a dimostrare che Sollecito e Knox fossero sul luogo del delitto, fanculo ai colpevolisti. 

giovedì 26 marzo 2015

Se un giorno me ne venissi con un post del genere

Tenetevi forti, ché sto per darvi un’affascinante lettura de The Comedy of Errors di William Shakespeare. Cominciamo col dire che compie quindici anni il saggio col quale il professor Martino Iuvara cercò di dimostrare che Shakespeare non fosse nato a Stratford-upon-Avon, ma a Messina, e che il suo vero nome fosse Michelangelo Florio Crollalanza, fuggito in Inghilterra per sfuggire alla Santa Inquisizione a causa della sua fede calvinista. Tesi un po’ a cazzo di cane, questo è vero, ma come si spiega che ben 15 delle 37 tragedie shakesperiane sono ambientate in Italia e La Commedia degli Errori proprio in Sicilia? Be’, sia come sia, suppongo non vi saranno sfuggite le analogie che intercorrono tra la poetica di Shakespeare e l’opera pittorica di Giuseppe Albino detto il Sozzo (1550-1611), siciliano pure lui. Vero è che sono analogie d’un esile, ma d’un esile, che manco le definirei analogie, e tuttavia una cosa è indiscutibile: il Bardo e il Sozzo avevano in comune una fastidiosissima allergia alla Parietaria officinalis. Bene, ora qui il discorso si farebbe complesso, sfiancante, perciò, via, lasciamo perdere.

Dite la verità: se un giorno me ne venissi con un post del genere, direste che mi sono bevuto il cervello? Non saprei darvi torto. Bene, sappiate che mi limitavo a parodiare Marco Bona Castellotti (Giordano Bruno non era solo antisemita, ce l’aveva con l’intera tradizioneIl Foglio, 25.3.2015).

«Compie quarant’anni l’interessante saggio di Irving Lavin nel quale è adombrato che la prima versione del “San Matteo con l’angelo” di Caravaggio, già in san Luigi dei Francesi, non venne rifiutata per ragioni di decoro – gambe accavallate, piedi sporchi – come tramandano le fonti storiche, bensì perché la rappresentazione del soggetto nasconderebbe una componente eterodossa. Le lettere scritte in ebraico, che compaiono sul libro tenuto in mano da Matteo (Levi d’Alfeo), corrispondono infatti alla trascrizione della genealogia di Cristo, compiuta nel 1582 da un giudaista protestante d’origine ebraica, Sebastian Münster, e respinta dalla chiesa cattolica. A dire il vero, lo stralcio del testo evidenziato da Caravaggio poteva risultare accettabile tanto agli occhi dei cattolici che dei protestanti, in quanto collimava con la “Vulgata” di san Gerolamo. Ciò non di meno il dipinto fu respinto, facendo precipitare il pittore nello sconforto. Se l’ipotesi di insinuazioni filoprotestanti fosse fondata – il che non è per nulla certo – sarebbe l’indice di un atteggiamento provocatorio dei committenti, forse condiviso dal Merisi».
Stai per parlare dell’antisemitismo di Giordano Bruno e attacchi con una tesi sul Caravaggio che tu stesso affermi d’essere bislacca? Dove mi vuoi portare?
«Due anni prima di quel dipinto caravaggesco, nel 1600, Giordano Bruno era stato arso vivo in Campo de’ Fiori, colpito dall’accusa di eresia. In un importante studio per taluni aspetti condivisibile e per altri no, Argan prospetta alcune analogie fra Bruno e Caravaggio, ma va subito sottolineato che la spiritualità immateriale, esoterica, ermetica, panteista, lulliana, ficiniana e soprattutto gnostica del Nolano è agli antipodi della visione della realtà di Michelangelo Merisi. […] I due muovono da matrici culturali diversissime, essendosi l’uno formato in ambiente napoletano tomista, l’altro in ambiente lombardo borromaico. In conclusione, tra Bruno e Caravaggio i punti di contatto sono assai pochi ».
Perfetto, ma allora perché imbastisci il parallelo? Perché in entrambi c’era l’antisemitismo – ma forse è meglio definirlo antigiudaismo – che a quei tempi era un pregiudizio diffusissimo? Ok, in Giordano Bruno c’era, ma in Caravaggio? Non un cenno.
Va bene, passi per il Caravaggio messo nel corpo dell’articolo per rimpolparlo, ma almeno vogliamo scandagliare nel fondo dell’antigiudaismo bruniano, lì dove sembra dare argomento anche all’attacco «denigratorio che concerne, direttamente o per allusione, Cristo, la chiesa, i santi, in specie san Paolo, e i gesuiti»? No, «il discorso è estremamente complesso e presuppone un affondo nella letteratura bruniana a dir poco sfiancante»Per carità di Dio, sfiancare il Castellotta, mai.

[...]

Vengono rese pubbliche le intercettazioni tra Lupi e Incalza, e Renzi lascia montare l’indignazione pubblica senza battere ciglio, ma intanto fa sapere che, nel caso si arrivi a una mozione di sfiducia individuale, non farà nulla per salvare il culo al ministro, sicché a questi non resta che dimettersi, lasciando così libera una poltrona che torna utile per assestare un colpo alla minoranza interna al suo partito, che continua ad essere divisa, ma non si dà per vinta, anzi, minaccia di rendergli difficile la vita in Parlamento: fa girare voce che al Ministero dei Trasporti e delle Infrastrutture intende mettere Speranza, che spesso è stato critico nei suoi confronti, ma tra gli oppositori è uno dei più morbidi, così, con una sola mossa, ridimensiona l’Ncd nel suo governo, fa uno sfregio agli oppositori interni al Pd e coglie la palla al balzo per tentare di mettere alla Camera un capogruppo di cui si possa fidare.
Grande stratega o volgare maneggione? Uno che s’è formato su L’arte della guerra di Sun Tzu o che ha messo a frutto i mezzucci coi quali il babbo s’è costruito fama di furbo in paese? Tutto sta esclusivamente nell’occhio di chi guarda, ed è per questo – solo per questo – che in tanti, non esclusi i suoi avversari, gli attribuiscono portentose virtù tattiche: oltre a non essere capaci di fare le rivoluzioni, gli italiani non sono capaci neppure di fare le guerre, dunque l’epica della politica è solo una figura retorica. Solo in Italia un inculamorti può passare per grande generale. 

lunedì 23 marzo 2015

Light, diciamo

L’accentramento del potere esecutivo e di quello legislativo nelle mani di un solo uomo – di fatto, ovviamente, perché le forme esigono quel tanto di ipocrisia che è l’omaggio della dittatura alla democrazia – sarebbe già tanto, ma, parliamoci chiaramente, si può lasciare quest’uomo senza il potere giudiziario? Voglio dire: aspirando alla creazione di un Moloch che torni finalmente a dare integrità e pienezza a quel potere che da quel frocio di Montesquieu in poi è malvezzo pretendere diviso in tre, si può lasciare indipendenza e autonomia alla magistratura? Anche qui, sia chiaro, un po’ d’ipocrisia è necessaria, perché mettere Procure e Tribunali alle dirette dipendenze del Presidente del Consiglio sarebbe la soluzione più semplice, ma c’è chi solleverebbe un mucchio di cavilli, e allora occorre che la dittatura conceda un altro omaggio alla democrazia. En passant, sia detto senza peli sulla lingua, ’sta democrazia ci ha rotto il cazzo co’ tutti ’sti omaggi che pretende. Comunque, visto che si nega al Presidente del Consiglio la libertà di scegliersi il pm e il giudice che riterrebbe idonei a questo o a quel processo, ecco una soluzione di ripiego. Light, diciamo. 


Certo, non sarebbe proprio assolutismo, ma bisogna sapersi accontentare: ci sarebbe qualcuno dinanzi al quale verrebbe naturale prostrarsi, questo è l’essenziale.
Di chi è la proposta? Che domande, è di Giuliano Ferrara, che senza un vitello d’oro da adorare non riesce vivere. Sembra idolatria, ma è mistica.

domenica 22 marzo 2015

[...]

Renzi era dell’idea che la Cancellieri avrebbe fatto bene a dimettersi, e non ha cambiato opinione. Non era neppure indagata, ma questo non vuol dire niente, perché le dimissioni – dice – si danno per una motivazione politica o morale, non per un avviso di garanzia. Caso analogo a quello di Lupi, che a differenza della Cancellieri, però, si è dimesso, ma dichiarando di non aver nulla rimproverarsi sul piano morale. È evidente, dunque, che la motivazione debba essere stata di natura politica, e Renzi – dice – la ritiene saggia.
Dando per scontato che sul piano morale non abbiano nulla da rimproverarsi neppure i sottosegretari che erano indagati già prima che entrassero nel suo Governo, né che sullo stesso piano debba rimproverarsi nulla chi ve li ha fatti entrare e lì lascia rimangano, qual è il piano politico sul quale era saggio che Lupi si dimettesse e quelli no? C’è chi lamenta che sia quello sul quale cerca d’imporsi l’odiosa logica dei due pesi e delle due misure, ma in realtà il peso è già uno solo, e una sola è la misura, altrimenti Lupi sarebbe ancora al proprio posto, che non avrebbe mai lasciato se avesse avuto la certezza di un appoggio del Governo su un’eventuale mozione di sfiducia individuale, che Renzi gli ha fatto sapere di non avere alcuna intenzione di assicurargli.
Nessuna contraddizione, dunque, nelle risposte che Renzi dà a De Marchis (la Repubblica, 22.3.2015): saggio è riconoscergli il potere pieno che ha sulla compagine del Governo e sulla maggioranza parlamentare, e le dimissioni di Lupi ne sono il sigillo. In attesa che una riforma elettorale porti in Parlamento una maggioranza di nominati da chi sarà anche alla guida del Governo, e che una riforma costituzionale formalizzi la legittimità dell’accentramento del potere esecutivo e di quello legislativo nelle mani di un solo uomo, si sappia che di fatto è già così, e che quelluomo è lui, se ne faccia una ragione chi lamenta sia in atto una deriva autoritaria, si tolga dalla testa che Renzi possa cadere sulla questione morale, non si illuda di poter cavalcare le inchieste dei magistrati, perché anche quelle può cavalcarle solo lui, quando e se gli pare.
I sottosegretari indagati, dunque, possono – anzi, devono – restare dove stanno: servono a fare bella mostra della protezione politica che Renzi assicura a chi è convinto non abbia altra scelta che essergli fedele, grazie al controllo di una maggioranza parlamentare che è sensibile alla questione morale solo quando è lasciata libera di farlo, in pratica quando a Renzi non torna comodo atteggiarsi a campione di garantismo. Non così per Lupi, perché Lupi non era affidabile come una Barracciu o un Faraone: se non sentiva la questione morale, bastava sentisse quella politica. E lha sentita.
Ha faccia da cretino, Renzi, ma è scaltro. Vende chiacchiere, ma in mezzo sa infilarci il messaggio riservato che vuol mandare a chi deve riceverlo. E continua ad essere evidente che non abbia un chiaro progetto di società, ma è altrettanto evidente che ne abbia uno personale, chiarissimo. E in campo non ci sono oppositori in grado di fermarlo: Salvini, Grillo, Landini sembrano fatti apposta per dargli la maggioranza dei consensi. Non c’è altro da augurarsi che tutto si compia in fretta, accelerando la sua corsa lungo la nota parabola. Ogni resistenza non potrà che renderla più lenta, dunque più lunga, perché di fatto è irresistibile. 

giovedì 19 marzo 2015

La vera posta in gioco

«Se c’è un regime totalitario, totalitario di fatto e di diritto, è il regime della Chiesa, perché l’uomo appartiene totalmente alla Chiesa, deve appartenerle [...] La Chiesa ha veramente il diritto e il dovere di reclamare la totalità del suo potere sugli individui: ogni uomo, tutto intero, appartiene alla Chiesa».
Ciò che stupisce in questo passaggio del discorso che Pio XI tenne il 18 settembre 1938 ai membri della Federazione francese dei sindacati cristiani è che il termine «totalitario» aveva già a quei tempi un’accezione esclusivamente negativa, anzi possiamo dire che da quando si è cominciato ad usarlo – intorno agli anni Venti del Novecento – non ne ha mai avuta una positiva, sicché non si ha regime totalitario che lo rivendichi come attributo qualificante.
A onor del vero, occorre dire che Pio XI non usa il termine dandogli il significato che esso assume in ambito scientifico (se la politica è possibile come scienza), e che c’è modo di capire cosa realmente intendesse dire parlando della Chiesa come di «regime totalitario di fatto e di diritto». Alla rivendicazione, infatti, si arriva in questo modo: «Come lo Stato potrebbe essere veramente totalitario, dare tutto all’individuo e chiedergli tutto? Come potrebbe dare tutto all’individuo per la sua perfezione interiore? […] In questo caso ci sarebbe una grande usurpazione, perché se c’è un regime totalitario, totalitario di fatto e di diritto, ecc.».
È evidente, dunque, che qui «totalitario» sta per ciò che attiene all’interezza di quell’«individuo» al quale è legittimo chiedere tutto in cambio del tutto di cui ha bisogno: un «individuo» che può trovare risposta alle sue necessità materiali e spirituali solo riconoscendo su di sé la piena autorità ed il pieno potere della Chiesa. Il fatto è che anche i regimi totalitari che Pio XI definisce usurpatori avanzano identica pretesa in ordine all’intera gamma dei bisogni umani, sicché resta da capire donde la Chiesa tragga le sue ragioni di legittimità a fronte di tali tentativi di usurpazione.
Un aiuto ci viene da ciò che scrive al cardinale Ildefonso Schuster qualche anno prima: «Per tutto quello che è di competenza dello Stato, secondo il suo proprio fine, la totalità dei soggetti dello Stato, dei cittadini, deve far capo allo Stato, al Regime e da esso dipendere: dunque una totalitarietà, che diremo soggettiva, può certamente attribuirsi allo Stato, al Regime. Non altrettanto può dirsi di una totalitarietà oggettiva, nel senso cioè che la totalità dei cittadini debba far capo allo Stato e da esso (peggio poi nel senso, che da esso solo o principalmente) dipendere per la totalità di quello che è o può divenire necessario per tutta la loro vita anche individuale, domestica, spirituale, soprannaturale».
Tutto può reggere nell’ordine di distinzione che la tradizione ha posto tra «oggettivo» e «soggettivo», se non fosse che i regimi totalitari la stravolgono, immanentizzando il soprannaturale con la promessa del paradiso in terra, così cambiando la prospettiva in cui l’uomo si è mosso per secoli. Posto che all’«individuo» non resti altro che scegliere quale sia il regime totalitario al quale darsi interamente, tra i regimi che abbiamo velleità totalitarie nasce inevitabile la competizione ad accaparrarselo. L’affermazione di Pio XI, dunque, dev’essere contestualizzata in questa sfida: quello nazista e quello comunista non sono contestati come regimi che privano l’uomo di quell’autonomia che d’altronde neanche la Chiesa è disposta a concedergli, ma come concorrenti che non hanno tutte le carte in regola per avanzare una pretesa che legittimamente appartiene solo alla Chiesa.

Era solo una premessa, il lettore paziente mi scuserà se mi è venuta così lunga, ma penso fosse necessario a definire bene i termini della questione che intendo porre, e la questione è la seguente: quando ci sembra di intravvedere nell’islam più fanatizzato la stessa logica dei totalitarismi del XX secolo, come possiamo fargli il torto che gli facciamo nel non riconoscergli una legittimità di pretesa identica a quella avanzata da Pio XI? Anche lì c’è un Dio che rivendica il pieno potere sull’uomo, su tutti gli uomini, unico a potergli veramente «dare tutto» e dunque col pieno potere di «chiedergli tutto». Anche lì c’è chi pretende di esserne il più fedele interprete. Come è possibile, insomma, non capire che la guerra non è tra islam e cristianesimo, ma tra passato e presente, e che la vera posta in gioco, come sempre, è il futuro?

martedì 17 marzo 2015

[...]


… 
per cause climateriche
danzando col Peceuta
lesioni trocanteriche
e accorre il terapeuta


«E c’hai detto, Giulia’?»


Nessuno meglio di Corrado Guzzanti ha colto la topica delle cosiddette battaglie culturali di Giuliano Ferrara e il passaggio che gli dedicò qualche anno fa nei panni di padre Pizzarro (Parla con me – Raitre, 2011) ne illustra il paradigma sul quale è costruito anche il pezzullo che oggi è su Il Foglio, a commento della nota polemica tra Elton John, da un lato, e i titolari del marchio Dolce&Gabbana, dall’altro, e che in sostanza è tutta sull’affermazione contenuta in un’intervista rilasciata da questi ultimi: Domenico Dolce ha detto che «non [lo] convincono quelli che [egli] chiam[a] i figli della chimica, i bambini sintetici».
Chiamarli così è di tutta evidenza un discriminarli, fatto sta che essi sono in tutto simili a quelli procreati grazie a un «atto d’amore», dunque risulta quanto meno problematico affermare che vengano al mondo con un di più o un di meno dovuto al modo in cui sono stati concepiti. A ben vedere, il problema nasce solo dal voler dichiarare inviolabile la norma che allega necessariamente la procreazione ad un particolare «atto d’amore» (con la stessa logica si dovrebbe declassare la relazione tra Dolce e Gabbana a mero commercio sessuale), per poi dover ammettere che è possibile procreare anche violandola, e che il risultato di questa procreazione contro natura è altrettanto naturale.
In altri termini, affermare che «tu nasci e hai un padre e una madre, o almeno dovrebbe essere così», solleva la questione di cosa faccia la differenza tra un bambino che sia nato «così» e uno che non sia nato «così». Sembra non essercene alcuna, ma Domenico Dolce la vede nel fatto che il secondo sarebbe un «figlio della chimica», un «bambino sintetico»: nel rispetto della norma che egli non vorrebbe fosse violata, si tratta di un bambino che non dovrebbe esistere, e tuttavia esiste, sicché occorre che di fatto, se non di diritto, si riconosca il discrimine che lo rende necessariamente diverso. Logica feroce, ma pianamente conseguente. Arcaica, come Elton John l’ha definita trovando un termine felice.
C’è che però Giuliano Ferrara fa un’enorme fatica a fare i conti con le conseguenze di una logica che è in tutto identica a quella di Domenico Dolce: «Hai prodotto un bambino in provetta? – scrive – E che c’entra? Non è mica lui in questione». E invece è proprio lui ad essere in questione, ed è con lui che occorre fare i conti, come con la donna che abortisce quando si parla dellaborto, e Domenico Dolce non si pone alcun problema a farli con i «bambini sintetici», come non se lo pone padre Pizzarro con le donne che abortiscono. Con quanto entrambi ne ricavano, ma li fanno. Giuliano Ferrara non ci riesce, e la questione gli si complica non meno di quanto gli si complica con l’aborto, col voler sostenere che è un omicidio, ma che le donne che abortiscono non sono assassine, e che la legge 194 è responsabile di una vera e propria strage di innocenti, e tuttavia non va abrogata, e che una donna non può essere costretta a portare avanti una gravidanza, però non dovrebbe interromperla.
Si tratta di una malintesa applicazione del principio che distingue tra errore ed errante, tra peccato e peccatore, con l’enorme differenza che l’applicazione corretta del principio non salva dalla condanna chi sbaglia, al più gli concede il perdono, se si pente. Ma come si può pretendere che si penta chi voleva un figlio, non poteva averlo nel rispetto delle norme arcaiche e lo ha ottenuto violandole? In fondo, anche la Chiesa non ha esitato a discriminare come bastardi i figli nati fuori dal matrimonio: il peccato originale era uguale per tutti, ovviamente, ma nel loro caso acquistava una peculiarità tutta speciale, che tornava di grande utilità a ribadire la sacramentalità del matrimonio, poi la misericordia appianava tutto, e un bastardo poteva pure diventare papa, ma intanto da bastardo era servito alla causa. Il fatto è che per concedersi il lusso di questa assurdità occorre avere quella fede che un ateo, anche se devoto, non ha. In Domenico Dolce l’equivalenza è data dal non volere figli. Resta il problema che, come sull’aborto padre Pizzarro, qui è Domenico Dolce ad aver tutto il diritto di chiedergli: «E c’hai detto, Giulia’?».   

lunedì 16 marzo 2015

[...]


Non ho letto integralmente le motivazioni della sentenza che lo scorso 17 dicembre ha condannato in secondo grado Alberto Stasi a 16 anni di reclusione per l’omicidio di Chiara Poggi, sono state depositate oggi, ne ho a disposizione solo gli stralci riportati da ansa.it, che tuttavia non ho alcun motivo di ritenere inattendibili nella sintesi di ciò ha portato i giudici alla convinzione che l’imputato fosse colpevole.
Bene, c’è da trasecolare: «Alberto Stasi – si legge – ha brutalmente ucciso la fidanzata, che evidentemente era diventata, per un motivo rimasto sconosciuto, una presenza pericolosa e scomoda, come tale da eliminare per sempre dalla sua vita di ragazzo “per bene” e studente “modello”, da tutti concordemente apprezzato». Se la costruzione di ogni frase risponde ad una logica, quella che informa questa affermazione è quanto mai bislacca. L’omicidio avrebbe avuto «un motivo rimasto sconosciuto», che tuttavia «evidentemente» è da individuare nel fatto che la vittima fosse diventata per l’assassino «una presenza pericolosa e scomoda», e da cosa trae forza, questo assunto? Semplice: dal fatto che Chiara Poggi è stata ammazzata.
In sostanza, non si sa per quale motivo sia stata ammazzata, ma giacché non può essere stato altri che Alberto Stasi ad ammazzarla – non si aveva sottomano altro imputato a disposizione, dunque chi altri? – il motivo non può essere diverso da quello, perché un altro non reggerebbe altrettanto bene. Da non credere.
Le perplessità finiscono per emergere perfino dal commento dato dalla madre della vittima, che pure definisce la sentenza un «passo importante»: «Non so cosa è successo – dice – ma se c’era un problema tra di loro, era proprio necessario arrivare a toglierle la vita?». Già, perché si deve ritenere che quella fosse la sola soluzione, ammesso e non concesso che «c’era un problema tra di loro», di cui peraltro non cè prova? Nessun dubbio, per i giudici: visto che Chiara Poggi è stata uccisa, non c’era alternativa, almeno per chi sicuramente è l’assassino perché dev’esserlo. Ma per quale motivo Chiara Poggi sarebbe diventata una persona da eliminare? Non si sa, non s’è trovato, ma si può provare a immaginarlo e, dopo averlo immaginato, dargli cogenza, anche senza dargli alcun elemento circostanziale: Chiara Poggi poteva rovinare la reputazione di Alberto Stasi, rivelando la sua passione per la pornografia. E sì che la sentenza attribuisce alla vittima delle «vedute larghe». E poi può darsi che la passione per la pornografia potesse rovinare una reputazione trent’anni fa, ma oggi? Nessuna preoccupazione, a far quadrare quello che non quadra, voilà, s’avanza un’altra ipotesi, tanto cogente quanto indimostrata: il «raptus».
Prove certe che leghino i fatti ad una responsabilità? Non proprio, ma tanti indizi, via, e cucendoli addosso a chi non può non essere colpevole, gli calzano a pennello, ergo...
Ma non era meglio metterlo in galera senza dare motivazioni? 

[...]

Se vogliamo dare un minimo di considerazione agli insegnamenti di Cristo, io ci andrei piano col definire cristiane le vittime degli attentati terroristici di Lahore. Laddove lo fossero allo stesso modo di chi ha pensato giusto vendicarle linciando e bruciando vivi due disgraziati che erano solo sospettati di essere complici degli attentatori, che fine mi fa il Cristo che ripetutamente raccomanda, dal lago Tiberiade all’orto di Getsemani, di non opporre violenza a violenza? Cristiani come Cristo comanda non dovrebbero limitarsi a pregare per i propri nemici? Qui, invece, le cronache parlano di feroci scontri tra manifestanti e polizia, di negozi devastati, di auto in fiamme. Atti poco commendevoli, anche se possiamo spingerci a ritenere comprensibile la reazione, frutto di un’esasperazione che non si fa fatica a compatire, certo, ma così che fine fa la tanto blaterata «differenza cristiana»? Non tanto per darle un minimo di sostanza, che sappiamo essere di per sé cosa assai ardua, ma almeno per evitare che una mancata condanna dei torbidi di piazza che hanno fatto seguito agli attentati ne possa essere considerata avallo, urge che le massime autorità religiose delle confessioni cristiane li stigmatizzino tempestivamente. Non dovrebbero mancar loro gli argomenti, perché Vangeli, Atti degli Apostoli e Patristica abbondano di esortazioni a farsi massacrare in letizia. Chessò, basterebbe rammentare ai cristiani di Lahore che «il sangue dei martiri è seme di cristiani», e dove mai s’è visto un seme lamentarsi della semina?

domenica 15 marzo 2015

«Ma serve ancora votare?»


Può darsi che l’editoriale di Angelo Panebianco sia scritto «in modo tale da renderne possibile la comprensione a nessun altro che non sia un lettore estremamente attento», sfruttando quella «particolare tecnica letteraria», illustrataci da Leo Strauss in Persecution and the art of writing (1952), «in cui la verità delle questioni cruciali appare esclusivamente tra le righe», come espediente cui «gli uomini capaci di un pensiero davvero indipendente» sono costretti a ricorrere quando non siano disposti «ad accettare le opinioni ispirate dal governo», ma nemmeno vogliano subirne la persecuzione per il rifiuto di «commisurare il proprio discorso a quanto il governo giudichi conveniente». Può darsi, dico, perché, anche a leggerlo con tutta l’attenzione di cui son capace, l’editoriale non mi pare altro che l’ennesimo compitino sulla questione greca. Peccato, perché il titolo era allettante, sembrava aprisse ad una riflessione più ampia e più profonda sulla democrazia, che invece qui lambisce appena la questione nel considerare che, «se il compromesso [tra Grecia e Ue] sarà letto come una sconfitta del governo greco, allora il messaggio generale sarà che la democrazia, in Europa, non conta nulla, che è irrilevante ciò che gli elettori vogliono mandando al governo questo o quello». Con quello che si prepara in Italia grazie al combinato disposto di una riforma costituzionale e di una legge elettorale come quelle che sono in avanzata gestazione in un Parlamento eletto col Porcellum, per porsi la questione se serva ancora votare, Angelo Panebianco ha bisogno di andare in Grecia, come se in Italia la questione non si ponesse.

sabato 14 marzo 2015

Segnalibro

«Siamo pronti»

Sarà il Giubileo straordinario annunciato a sorpresa da Bergoglio a mettere in ginocchio Roma, non l’assalto delle milizie del Califfo, che peraltro ha avuto la buona educazione di darne avviso con largo anticipo, perché non è necessario, qui, spiegare quale impatto abbia a comportare un evento del genere per una città che vanta uno sviluppo urbanistico tra i più disordinati al mondo, una cronica debolezza delle sue infrastrutture, un debito che ammonta a svariati miliardi di euro, basta riandare con la memoria a 15 anni fa, al Giubileo del 2000, che era ordinario, e dunque poté godere di un minimo di organizzazione e, già che di crisi economica non tirava ancora aria, di un vero e proprio fiume di denaro pubblico, col quale la politica italiana comprò per sé dal Vaticano un bel pacco di indulgenze: basta proiettare l’immane bordello che fu il Giubileo del 2000 sulle condizioni odierne, levando soldi e programmazione, aggiungendoci qualche milione in più di pellegrini, visto che questo papa è tanto, ma tanto, tanto simpatico. 

E il signor sindaco? Prontamente: «Siamo pronti». Se ne prenda nota.

venerdì 13 marzo 2015

Per affettuosità

Qualche tempo fa, su queste pagine, consumai una polemicuzza con Francesco Maria Colombo, critico musicale del Corriere della Sera, prima, direttore d’orchestra, dopo, in merito alle puttanate che aveva scritto in un «manifesto antiaborto» apparso su Il Foglio del 17 agosto 2011 (1, 2, 3, 4). Come sempre accade in casi analoghi, per affettuosità, affidai a Google alert l’incarico di tenermi informato su sue eventuali e ulteriori puttanate in tema e, giacché son troppo pigro per imparare come si rimuove, lalert è ancora lì, e di tanto in tanto mi fa sapere che Francesco Maria Colombo si è fatto fare dal sarto un frac da dio, che il giorno tot e all’ora tot dirige la tale orchestra, che ha letto con commozione questo o quel libro di autore regolarmente esotico, che una pupa fatale gliel’ha data, che a Kiev il clima è piacevolmente temperato, che è tentato dal lasciare il mondo della musica per quello della fotografia... Robe così, insomma, da dandy un po fuori dal tempo, ma in fondo tanto simpatiche, e poi estremamente riposanti tra le noiose news di licenziati qui e decapitati lì, come tempura di petali di rosa tra una bistecca al sangue e l’altra. Genetica? Bioetica? Mai più sfiorate, e questo è quello che più conta. Di tanto in tanto, questo sì, uno sguardo al mondo di sotto, col sopracciglio alzato, questo sì, ma sempre ben disposto a tirare brioches dal balcone alla plebaglia che strepita di sotto. Così anche ieri, sui ragazzacci che avevano da ridire sulla riforma della scuola, perdindirindina, gli hanno causato uno spiacevolissimo disguido ferroviario impedendogli di andare a Parma. «Ignorantissimi, sgraziati, incapaci di parlare in italiano... però cerco di capire, e mi leggo [sic] sul Corriere online le loro motivazioni, le loro proposte...» E dunque? «Buffonate». Soluzione? «A casa (dopo aver ripulito lo scempio), a fare i compiti, a imparare a memoria l’Adelchi, a impegnarsi a testa bassa, e se non si ottengono risultati si va a letto senza cena, oppure si lascia la scuola e si va a bottega a lavorare. Poi non lamentiamoci se, mentre noi ci balocchiamo con la vernice rosa e le autovalutazioni, il mondo del lavoro verrà monopolizzato dai cinesi». Potrà piacere o non piacere, ma, via, s’intona perfettamente al frac. Nulla da eccepire, se non fosse che il post chiude col consiglio: «leggansi le memorie di Lang Lang, e i metodi didattici che si usavano con lui». E qui sorge il problema. Perché non sappiamo dei metodi didattici che si usavano con Lang Lang, però, a sentire come suona, c’è da supporre siano buoni a formare degli ottimi operai addetti alla pressa, non pianisti. 

Mi sembra così semplice

Ottimo esempio della differenza che c’è tra verità storica e verità giuridica, quello del cosiddetto caso Ruby, ce ne sarebbe per mettere d’accordo tutti, amici e nemici di Berlusconi, ma le passioni sono cieche anche davanti all’evidenza: anche il peggio del peggio, con quanto di relativo resta nel superlativo, può restare penalmente irrilevante, per la semplice ragione che la legge non può mai del tutto penetrare nei fatti, come invece è agevole per l’opinione personale, che vi entra e li risistema al meglio del meglio, con quanto di relativo resta nel superlativo. Berlusconi è innocente, ma colpevole, ma innocente, ma colpevole, via, mi sembra così semplice.

giovedì 12 marzo 2015

La voce del padrone

Solo «la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale», per tutto il resto basta la «maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera», e io ce l’ho, che cazzo avete da obiettare? Come? Deriva autoritaria? Ma fatemi il piacere, «la sovranità appartiene al popolo», certo, che però «la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione», quindi, basta che la repubblica resti repubblica e non diventi monarchia, forme e limiti della sovranità popolare li decido io, cioè, pardon, la maggioranza parlamentare, tanto è la stessa cosa, visto che con l’Italicum la tengo per le palle. Non vi sta bene? Sbraitate pure, è tutto regolare. Come, non è regolare? Calamandrei? E chi è? Ah, vabbe’, un parruccone. E che diceva? Vabbe’, ma era un secolo fa. Ovvìa, tagliamo corto, ché fra mezz’ora ho squash. Mettiamola così: vi assicuro che ci sarà un referendum anche se dovessi avere i due terzi dei voti alla Camera e al Senato, tanto non ce li ho. Basterebbe un quinto dei deputati o dei senatori a chiederlo, ci si arriverebbe comunque, dunque che mi costa dire che lo voglio io? Vi concedo il referendum, ok? Mica mi fa paura, anzi, al pensiero già godo come un porco. Mi ci vedo già. «Italiani, volete mica continuare a buttare soldi nel Cnel? No, eh? Bravi. E che ne dite di un Senato che non vi costi nulla perché i senatori hanno già uno stipendio da amministratori locali? Fighissimo, no? Eh, lo so, è un’ideona, comprendo l’entusiasmo. Anzi, già che state lì a spellarvi le mani, potreste prolungarmi l’applauso per la legge elettorale che ho pensato giustappunto per voi? Occhio alla slide, si tratta di una cosina che semplifica tutto alla grande: basta che mi votiate e per cinque anni penso io a tutto, ma proprio a tutto. Provare per credere, come diceva Bacone». Chi è che mormora lì in fondo? Come? Non era Bacone? Aiazzone? Non stiamo a sottilizzare, l’importante è la pregnanza del concetto.

[...]

Se la generalizzazione è quello strumento della conoscenza del reale che sfrutta la funzione del cosiddetto attenuatore di varietà per semplificare e velocizzare il processo cognitivo ma per dare risultati spesso assai insoddisfacenti e talvolta tragici, c’è una condizione del reale che ha in sé un intrinseco attenuatore di varietà che fa della generalizzazione lo strumento più efficace a coglierla, e questo è il caso, sempre tragico, in cui la varietà si pone a ostacolo della necessità di semplificare e velocizzare la costruzione della norma che si ritenga necessario informi il reale. Accade quando il reale pone un problema di difficile soluzione, con la tentazione di trovarla nella ridefinizione del problema, adeguandolo a una soluzione già pronta, considerata quella buona per ogni problema, e che si è soliti chiamare «soluzione di forza», dove la «forza» non è quella che risolve il problema, ma quella che impone come migliore soluzione quella di ridefinirlo, per lo più eludendone il senso, poco importa se in buona o in cattiva fede, per mera ignoranza o per disonestà intellettuale. Quando questa «forza» risulti efficace, il cosiddetto attenuatore di varietà avrà per tempo avuto effetti su quanti si saranno persuasi che questa sia la migliore soluzione: la generalizzazione sarà nei fatti, non nel processo cognitivo che li prende a oggetto. Ecco perché è possibile generalizzare, e dire, senza far loro alcun torto, che, al netto della faccia più o meno di cazzo, i renziani sono tutti uguali: in essi la «soluzione di forza» non è tanto agente, ma agita. Presto ancora, invece, per dire renziana la stagione politica che attraversiamo: sarebbe una generalizzazione, che tuttavia potrebbe realizzarsi nei fatti, se entrasse a regime l’attenuatore di varietà ancora in fase di collaudo.  

mercoledì 11 marzo 2015

Un’alta onda di merda

I 357 deputati che ieri hanno votato la più schifosa delle riforme costituzionali possibili rappresentano meno di un terzo degli aventi diritto al voto, ma nella Camera sono maggioranza in virtù di una legge elettorale che li ha portati in Parlamento neanche da eletti, ma da nominati. Ricattabili come tutti i gregari che non hanno altro peso se non quello che dà loro omogeneità di massa, oggi, alle viste della legge elettorale che sostituirà quella vecchia, già dichiarata incostituzionale, sono ancora più ricattabili di quanto lo fossero al momento di entrare in Parlamento, buoni solo a dire sì quando gli è chiesto, meglio se mostrandosi entusiasti, sennò giusto a mugugnare un poco e a dire sì lo stesso, in nome della fedeltà alla banda, se non al capobanda. Solo per questo dovrebbero vergognarsi di aver stravolto una Carta scritta da una Costituente eletta col proporzionale, e che dunque era espressione di tutto il Paese, nella quale peraltro sedevano uomini di cui un solo pelo del cazzo valeva più quanto oggi valgano tre dozzine di renziani. E tuttavia si sa che i gregari sono capaci di tutto tranne che di vergognarsi, sicché è del tutto inutile rammentare al grosso di questi scellerati che nel loro programma elettorale non vi fosse traccia di alcuna riforma costituzionale, men che meno di una che facesse tanto schifo quanto quella votata ieri. Un’alta onda di merda passa sul Paese, sulla sua cresta una tavola da surf, e sopra, al momento in perfetto equilibrio, un imbecille drogato di autostima.

domenica 8 marzo 2015

[...]

Ecco l’ennesimo cretino, stavolta prestigiosissimo, a sostenere che don Giussani odorava di giaggiolo e di mughetto, mentre Cl ormai puzza di cacca. Oddio, non proprio in questi termini, ma insomma, tenuto conto che l’occasione era un’udienza concessa ai ciellini nel decimo anniversario della morte di don Giussani, sentirsi dire da Bergoglio che «io sono di Cl» fa «spiritualità di etichetta» è come beccarsi l’aspersorio sui denti.
Sia chiaro, almeno qui si è solidali con Cl: avendo letto tutto ciò che don Giussani ha scritto, troviamo che la dolce mafiosità di Cl, a metà tra holding e setta, sia fedelmente conseguente al suo insegnamento. E perciò esprimiamo il nostro più sincero apprezzamento a Luigi Amicone, che, intervistato da Virginia Della Sala per Il Fatto Quotidiano, con le gengive ancora gonfie, abbozza come si conviene e molto giussanianamente ribadisce: «Ci sono stati scandali, però non rinunciamo al potere». Che poi, alla faccia di ’sti cafoni che arrivano dalla fine del mondo a propinarci la loro catechesi da buzzurri, è sintesi perfetta di ciò che don Giussani ha misteriosoficamente celato in Allorigine della pretesa cristiana (Jaka Book, 1988). Bravo Amicone! Io ci avrei messo pure un «a la mierda, hijo de puta», ma pure così va benone, ché i papi passano, ma la Compagnia delle Opere resta.

[...]

C’è una vulgata di pretto stampo reazionario che in chi contesta i guasti e le ingiustizie di un sistema vuole sia prudente sospettare il malintenzionato che vuole costruirsene uno nuovo, a sua misura, non meno ingiusto, forse ancor più guasto, e che perciò sui suoi argomenti debba pesare sempre il sospetto che un domani migliore dell’oggi possa costare un dopodomani assai peggiore. È vulgata che assume ruolo ancillare nella difesa dello status quo, e come tale, al pari di ogni vulgata di pretto stampo reazionario, fa leva sulla diffidenza che è propria di una visione pessimistica della natura umana, libera solo di decadere, degradare, con ciò svelando la pericolosità, prim’ancora che l’illusorietà, del progredire. Tutto molto tetro, non c’è dubbio, d’altronde l’esperienza ci insegna che tanti fasulli innovatori sarebbe stato meglio abortirli quand’erano ancora in pancia allo status quo, ma poi si sa che l’esperienza serve sempre a poco o a niente, sicché non resta che far finta possa tornarci utile in un’altra occasione, che peraltro non ci è data mai.

Il lettore smaliziato avrà capito che queste riflessioni nascono a margine di una lettura, e probabilmente si starà chiedendo chi sia l’autore di un libro capace di istigare pensieri tanto insalubri. Dávila? Evola? Strauss? Macché, leggevo A viso aperto (Polistampa, 2008), di Matteo Renzi: «Le norme di selezione per i parlamentari – scriveva – assomigliano pericolosamente ai criteri di alcune trasmissioni tv, ma la casa degli italiani non è la casa del Grande Fratello, è il Parlamento della Repubblica. Ridateci le preferenze, tenetevi la vostra Isola dei Famosi». E poco oltre: «Dentro al partito farò una battaglia per il ritorno delle preferenze. È un diritto dei cittadini scegliere le persone e non vedersele imposte». A quei tempi sarebbe bastato un ferro da calza, oggi non basterebbe una divisione di alabardieri. 

venerdì 6 marzo 2015

[...]

Riprendendo la via per non so più quale paesino papà aveva deciso valesse la pena andare a villeggiare – mi pare fosse Allumiere – gli chiesi perché non avesse dato un cazzotto sul naso a quello scostumato che ci aveva trattato peggio che se fossimo stati dei criminali. Si sarà espresso sicuramente con altre parole, ma la risposta fu più o meno questa: «Lui’, fino a due giorni fa quello portava le pezze al culo, e oggi indossa una divisa da carabiniere: non c’è da stupirsi che sia un poco screanzato quando chiede libretto e patente: la vertiginosa ascesa da morto di fame a rappresentante dello stato gli ha fatto perdere il controllo della misura. Più che indispettire, intenerisce, via». Ripensandoci, a un bimbetto di sette o otto anni sarebbe stato meglio dire che un cazzotto a quel carabiniere ci avrebbe rovinato la villeggiatura, e spiegando il perché. Voglio immaginare dipenda da questa esperienza infantile il fatto che dinanzi all’arroganza e alla prepotenza di chi rappresenta lo stato, prima di indignarmi e protestare, io sia portato a cercare di spiegarmi quale sia il problema psicologico che le genera. Questo mi pare possa essere il motivo per cui da queste pagine non ho mai contestato nulla alla Boldrini: fino a due giorni fa era una comunistella di Sel, e oggi è alla Presidenza della Camera, c’è da capirla quando sbaglia, passando oltre.   

Lo stile

Ieri sera, da Santoro, Faraone somigliava in modo impressionante al Cuffaro che in un Maurizio Costanzo Show d’annata polemizzava con Falcone. Dev’esserci una scuola che sforna quello stile, e lo stile è il manico della brocca.

[...]


Domani questo blog compie undici anni.
Grazie per l’attenzione.   

giovedì 5 marzo 2015

In entrambi i casi, anche se per vie diverse

Ho voluto che passasse qualche giorno dalla diffusione del video che documenta la distruzione delle opere d’arte conservate nel Museo di Mosul ad opera degli uomini dell’Isis, perché quello che avevo da dire era fuori tema rispetto alle questioni sollevate, che d’altronde erano pienamente legittime, ma a mio modesto avviso superficiali, e per superficiali non intendo dire vacue o frivole, ma – letteralmente – poste in superficie al problema vero, che – voglio dirlo subito – è relativo all’esegesi biblica di Es 20, 4.
Innanzitutto c’era da descrivere, più che discutere, tutte le sfumature dell’orrore che un occidentale prova alla sola idea che un’opera d’arte dell’antichità vada distrutta per mano d’uomo. Sacrosanto orrore, indubbiamente. Fatta eccezione per il movimento futurista, infatti, e al momento non mi viene in mente altro, tutta la storia dell’occidente è storia di un vero e proprio culto delle opere d’arte del passato. E tuttavia mi è parso che questo orrore sia stato solo la trama emozionale sulla quale venivano intessute le questioni ritenute degne di attenzione. Erano originali, quelle statue, o copie? Qual era il fine ultimo di quel video? E appena un po’ più sotto a quell’orrore, ma ancora ben distante dal cuore del problema: tanta barbarie poteva dirsi aderente al dettato coranico, dunque propria della natura dell’islam, o invece era da considerare come ennesimo saggio di una lettura fondamentalista del Corano? Questione un po’ più seria, questa, ma solo in apparenza, perché il Museo di Mosul è stato costruito da musulmani, e da musulmani è sempre stato gestito, il che naturalmente ci dice poco o nulla sulla correttezza della lettura che essi hanno fatto del Corano relativamente al punto che vieterebbe la rappresentazione di persone e animali («O voi che credete, in verità, il vino, il gioco d’azzardo, gli idoli, le frecce divinatorie, sono immonde opere di Satana» - Corano 5, 90), anche se un’idea possiamo farcela sapendo che «idoli» è espresso dal termine «ansab», che letteralmente è «pietra eretta» (statua, stele, obelisco), e che nel Libro questa relativa agli «idoli» non trova la solita ripetizione che è tipica di tutte le più importanti prescrizioni.
La faccenda è ancora più ambigua alla lettura degli hadith, che, com’è noto, sono le sentenze che cercano di far chiarezza sui versetti del Corano che si prestano ad interpretazioni controverse: secondo epoca e luogo, «ansab» conserva il significato restrittivo del termine o accoglie estensivamente tutto ciò che è «immagine», con un ventaglio normativo relativamente ampio, dalla tolleranza dell’«ansab», ma col divieto di produrlo, alla sua condanna, fino all’ordine di distruggerlo (e in quest’ultimo caso siamo nella piena tradizione degli hadith di scuola salafita).
Ciò detto, occorre chiederci donde possa trarre giustificazione esegetica la distruzione delle immagini di persone e animali. Qui, senza entrare troppo nello specifico, possiamo limitarci a dire ciò che vale in innumerevoli altre occasioni: il Dio del musulmano è lo stesso Dio dell’ebreo e del cristiano, come d’altra parte ebrei e cristiani non fanno fatica a riconoscere, anche se le differenze – e significative – sorgono quando si tratta di dargli i connotati del legislatore. L’islam, poi, si sente momento compiuto della vera fede che nell’ebraismo e nel cristianesimo vede stadi anteriori e ancora imperfetti.
Bene, nel caso del divieto di produrre «immagini», la primigenia fonte islamica è il Vecchio Testamento («Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo né di quanto è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra» - Es 20, 4). Si tratta del passaggio della consegna delle Tavole della Legge a Mosè, ed è stranoto che, mentre la tradizione che da Filone Alessandrino e Giuseppe Flavio è passata alla Chiesa antica, e dunque a quella greca-ortodossa e a quella riformata, fa del versetto un comandamento a sé stante, quella che la tradizione cattolica romana prende dalla lettura biblica di Agostino d’Ippona lo incorpora nel primo comandamento («Non avrai altri dei di fronte a me» - Es 20, 3), sicché «idolo» e «immagine» diventano «riproduzione di altra divinità che non sia io», e questo pone qualche problema con «quanto è quaggiù sulla terra» e «ciò che è nelle acque sotto la terra», laddove non si tratti di entità divinizzate. D’altronde è questa problematicità a prestarsi come argomento alla furia degli iconoclasti cristiani del VII e dell’VIII secolo. C’è da pensare che distruggessero opere d’arte antiche come abbiamo visto gli uomini dell’Isis distruggere quelle custodite nel Museo di Mosul. In entrambi i casi, anche se per vie diverse, l’ordine veniva dal Monte Sinai.  

martedì 3 marzo 2015

Vicienzo ’a Funtanella

Sorprende, se non è di maniera, la sorpresa che i media riservano alla vittoria riportata alle primarie del Pd da Vincenzo De Luca (Vicienzo ’a Funtanella, per gli amici, a causa dei ridondanti spruzzetti di saliva che schizza quando il tono gli va sullo stentoreo): tenuto conto di cosa siano le primarie in una regione come la Campania, anche quando siano regolari, visto che le primarie, di per se stesse, hanno regole così lasche che tra l’una e l’altra ci passa pure un cane di grossa taglia portando una scopa in bocca; tenuto conto di chi erano i concorrenti, vuoi quello che s’è ritirato, più che altro per non inaugurare l’entrata nel Pd con una figura di merda, vuoi quello che ci ha provato, più che altro sacrificandosi per dare un minimo di pathos a una partita che tutti sapevano non avesse storia; tenuto conto di chi è Vicienzo, inteso come mito, e di come sono fatti gli elettori ai quali chiedeva il voto, inteso come tributo al mito; tenuto conto, soprattutto, di come butta la politica di questi ultimi tempi, la sua vittoria era largamente prevista, alla faccia della legge Severino, alla faccia del partito che lo implorava di fare un passo indietro, alla faccia della faccia di Gennaro Migliore, che per calarsi al meglio nella parte del candidato unitario unico s’era pure cambiato la montatura degli occhiali, che manco più sembrava un comunista, ma un amico d’infanzia di Matteo Renzi, quello che gli passava il compito di matematica. Una furia, Vicienzo, e cotanta cazzimma, cotanta guapparia, cotanta sfaccimma d’uomo – uomo, per giunta, di cotanta conseguenza – in Campania fanno il deus ex machina. Interdetto dai pubblici uffici, ma, come il tizio cui fai presente che corre come un pazzo e contromano, «e che è, ho acciso a quaccuno?». Benemerito della caccia alla puttana e al rom, piglio da federale col bastone animato, patrono dell’urbanistica in scala 1:1, mandibola da pugile, retorica ipertiroidea – e come poteva non vincere, Vicienzo? Non resta che vederlo menar le mani con Stefano Caldoro, ma già sembra di vederlo. «Giovinotto, ma è vero che andate coi trans? Non vi offendete, ohinè, era voce che girava tra i vostri amici di partito, io mi limito a darvi modo di smentirla».   

lunedì 2 marzo 2015

Segnalibro

Corrispondenze

Questo post è una lettera aperta in risposta a chi mi ha scritto dicendo che mi stima tanto, mi legge sempre con piacere, bla bla bla, ma s’incazza quando nego che le radici d’Europa siano cristiane, perché gli sembra che io voglia chiudere gli occhi su una realtà di fatto, e questo gli dispiace, perché gli pare che in questo modo io faccia torto alla mia intelligenza. Capirete bene che non posso lasciare nell’afflizione un lettore che mi insulta in modo così carino, dunque eccomi qui. Sarà un post lungo e noioso, che almeno a chi mi legge già da tempo consiglio di saltare senza indugio, perché qui ripeterò cose già dette.

Ciò premesso, caro ***, vogliamo innanzitutto metterci d’accordo su quello che debba intendersi con «cristiano»? Da quello che mi scrivi («in Europa ogni due passi c’è una chiesa, l’arte è piena di cristi e di madonne…») devo supporre tu voglia intendere quanto attiene al cristianesimo, dunque si tratterebbe di radici non più vecchie di venti secoli. Ammesso e non concesso che prima, col mondo greco e con quello romano, non si potesse propriamente parlare di Europa o che, in subordine, il mondo greco e quello romano siano stati solo il terreno dal quale le radici di cui parliamo abbiano tratto un qualche nutrimento, di quale cristianesimo parliamo?
Non di quello primitivo, suppongo, che nasce in Palestina, terra che con l’Europa c’entra assai poco, come corrente dell’ebraismo, in opposizione alla gerarchia che reggeva il Tempio di Gerusalemme, e nemmeno è detto ancora cristianesimo. Ti risparmio la sinossi delle convinzioni che nutrivano i primi seguaci del movimento, d’altronde ci sarebbe da perderci la testa per le differenze anche marcate riscontrabili tra una comunità e l’altra. Mi limito a dirti che solo un buontempone potrebbe intravvedere in quell’embrione qualcosa che abbia a che fare con quella che a quei tempi già si chiamava Europa, men che meno con quella che sarà l’Europa nei secoli successivi, e perfino con lo stesso cristianesimo di là a qualche decennio.
E allora sarà che le radici cristiane dell’Europa debbano essere cercate nel cristianesimo del II secolo? Nemmeno. In quel secolo il cristianesimo è ben diverso da quello che verrà dopo: è religione di classi agiate che si predispongono alla fine dei tempi, che è attesa da un momento all’altro. Ha già avuto qualche contaminazione con l’ellenismo, ma rimane ancora una profezia biblica, nella quale nessuna Europa precedente o da venire è neppure rappresentabile. Solo verso l’inizio del III secolo, visto che la fine dei tempi non arriva, i cristiani tornano a una vita più o meno normale, mentre si dovrà aspettare ancora un altro secolo perché il cristianesimo si faccia cristianità, comunità unitaria e gerarchizzata che mira a un’espansione senza limiti e a un controllo pieno di tutte le attività sociali. Fino a qualche decennio prima, i cristiani si disponevano sereni al martirio pur di non essere reclutati in un esercito, mentre da qui in poi sarà prevista la scomunica per quelli che abbandonano il servizio militare.
È in questo periodo, con Costantino, che il cristianesimo si fa europeo, innestandosi sul mondo romano, sulle sue tradizioni, la sua cultura, la sua storia, parassitando radici che erano già lì da almeno una dozzina di secoli. A parte, potremmo discutere di quanto il cristianesimo sia realmente cosa nuova o originale: in realtà, nasce già come momento sincretico tra l’ebraismo e i movimenti religiosi del più vicino oriente. Altrettanto a lungo si potrebbe discutere di quanto questo parassitamento abbia cambiato la natura delle radici greche e romane dell’Europa, ma, se dobbiamo leggere la storia senza usare la lente dal verso sbagliato, dal III secolo in poi troviamo più romanità nel cristianesimo che viceversa, d’altronde tutta la Patristica altro non è esegesi evangelica funzionale alla sovrapposizione della Chiesa sull’Impero.
È da questo punto in poi che viene meno la tolleranza verso le innumerevoli varianti dottrinarie che convivono nel mondo cristiano e che inizia la lotta a quelle che così diventano eresie. Di pari passo comincia a prender forma quella imperializzazione del cristianesimo che sarà fatto compiuto solo tra il V e il VI secolo, quando, neutralizzato per assorbimento quanto è riutilizzabile e non sopprimibile del paganesimo, la cristianità assume i caratteri distintivi che, con gli aggiustamenti del caso, manterrà fino a quando non si comincerà a metterla in discussione.
Il cristianesimo impone il suo segno sulle bandiere d’Europa per soli dieci secoli, dodici a volerci mantenere larghi. Dieci-dodici secoli nei quali può godere della pienezza dei mezzi necessari a impregnare di sé la vita di milioni di individui, dalla culla alla tomba, con la pervasività di una violenza che non risparmia niente. Non si tratta di «radici», caro ***, si tratta di rami e foglie che non lasciano spazio ad altro, e fra i quali ogni nido assume la forma del bozzolo, fuori dal quale è semplicemente negata la possibilità di vita e di pensiero. Nessuno nega che lo spazio storico e geografico detto Europa sia ingombro di questa vegetazione – non io, mai fatto, anzi – ma affermare che l’Europa o sia cristiana o non sia, onestamente, mi pare una bestialità.
In quanto al fatto che la sostanza antropologica solitamente detta Europa rechi il segno indelebile del cristianesimo, che neanche il suo avanzato stadio di secolarizzazione è fin qui riuscito a rendere indistinguibile, nulla quaestio: si tratta di quanto resta di una conquista, di tratta nel marchio a fuoco impresso sulle carni dell’animale. Cosa diversa è voler dare a questo segno un senso diverso: le assurdità, le ambiguità e le contraddizioni che usque ab ovo troviamo nel cristianesimo, e che pure acquistano una loro logica nel darsi in elementi dialettici all’interno di una storia, restano quel che sono anche nel loro precipitato, e dunque prefigurano la crisi del cristianesimo per cause che gli sono intrinseche, prima fra tutte il nodo tra immanenza e trascendenza stretto nel dogma dell’incarnazione, perché un Dio che s’incarna non può che fare una brutta fine, anche dichiarandone la resurrezione. In secondo luogo, dare al Dio unico un carattere trinitario: torna utile a inverare nella storia il suo corpo mistico, ma lo espone pure a pulsioni disgreganti.
Come vedi, caro ***, parlare di «radici cristiane dell’Europa» è un’operazione storiografica – insieme – ingenua e strumentale. Che di tanto in tanto venga riproposta, francamente, che palle.

P.S. Ho cercato di contattarti per avere il permesso di riprodurre il testo della tua lettera insieme a questa risposta, ma non mi hai dato cenno, così mi sono risolto a sintetizzarne il contenuto della premessa e a lasciarti nell’anonimato.    

domenica 1 marzo 2015

[...]

Quarantaquattro tra deputati e senatori dei gruppi del Pd (trentadue), di Area popolare (cinque), di Per l’Italia-Cd (cinque), di Scelta civica (uno) e di Lega Nord e autonomie (uno) scrivono una lunga lettera a Matteo Renzi, oggi sulle pagine di Avvenire, perché nel «Piano per la buona scuola» che il governo si appresta a portare in Parlamento vi siano misure di sostegno economico alla scuola privata, rammentandogli che fanno parte della maggioranza che sostiene il governo e producendo gli argomenti, i soliti, che fin qui sono bastati ad eludere l’art. 33 della Costituzione, laddove esso recita che «enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, [ma] senza oneri per lo Stato».
Non c’è dubbio che analoga iniziativa sarà presa anche da un nutrito numero di parlamentari del centrodestra, e che gli argomenti saranno identici, non escluso quello usato ogni volta che al governo c’è una coalizione almeno nominalmente di centrosinistra, e che torna anche in questa lettera, preso di peso da un articolo di Antonio Gramsci, pubblicato su Il Grido del Popolo il 14 settembre 1918, come ad ingiungere di onorare la fedeltà ad una prestigiosa tradizione culturale e politica: «Noi socialisti – scriveva Antonio Gramsci – dobbiamo essere propugnatori della scuola libera, della scuola lasciata all’iniziativa privata e ai comuni. La libertà nella scuola [è possibile solo se la scuola] è indipendente dal controllo dello Stato» (tra parentesi quanto è tagliato nella lettera pubblicata su Avvenire).
Orbene, occorre far presente che di denaro pubblico in favore di questa libertà non v’è traccia, né in questo passaggio, né nel resto dell’articolo. Anzi, a dire il vero, quanto precede il brano citato dagli appellanti chiarisce il contesto dal quale è estrapolata l’affermazione di Antonio Gramsci, dandole il suo corretto significato: «Ferve nei giornali e nelle riviste cattoliche la discussione sulla scuola libera. I cattolici propugnano l’abolizione del monopolio di stato sulla scuola, perché sperano che il monopolio passi nelle loro mani. Noi crediamo che i cattolici sbaglino nel fare i conti: è vero che i preti, in quanto godono di uno stipendio e hanno tutta la giornata libera, si troverebbero in condizione di partenza privilegiata nel gioco della concorrenza. Ma appunto il pericolo di un assorbimento dell’attività scolastica da parte dei cattolici metterebbe automaticamente in discussione il problema del fondo culti e porterebbe all’abolizione di questo istituto feudale».
Niente denaro pubblico alle scuole private, dunque, ma addirittura necessità di mettere in discussione l’erogazione dei fondi che per altre ragioni lo stato concede al clero, ad evitare che tale privilegio lo possa avvantaggiare in una concorrenza che altrimenti sarebbe sleale. E tuttavia è probabile che Matteo Renzi accoglierà gli argomenti degli appellanti e tra tutti troverà che quello più forte, almeno sul piano della comunicazione ai gonzi di cui si parlava nel post qui sotto, sia proprio quello di Antonio Gramsci, dai firmatari della lettera usato in modo mistificatorio, ma da Matteo Renzi riusato per mera ignoranza. A stento avrà letto il Manuale delle Giovani Marmotte, figuriamoci gli scritti di Antonio Gramsci.