lunedì 21 giugno 2010

«Non sarà difeso come Marcinkus»


“«Non sarà un nuovo caso Marcinkus, la responsabilità è personale ed è il cardinale Crescenzio Sepe a dover rendere conto ai pm della sua gestione di Propaganda Fide», mettono le mani avanti Oltretevere”
La Stampa, 20.6.2010

 
Nessuno pretende che Giacomo Galeazzi riveli chi sia espresso in questi termini, nessuno pretende che quel virgolettato corrisponda fedelmente a quanto gli sarebbe stato detto, la domanda è: gli hanno davvero fatto il nome di Marcinkus o ce l’ha infilato lui pensando fosse sottinteso? In altri termini: Oltretevere si dà per possibile che Sepe possa avere responsabilità d’ordine, specie o grado corrispondenti proprio a quelle di Marcinkus o piuttosto il riferimento è al fatto che Marcinkus evitò l’arresto ordinato dal giudice istruttore di un tribunale dello stato italiano solo in virtù del suo passaporto diplomatico? Nel fare proprio quel nome, in entrambi i casi, Oltretevere non s’è fatto un gran favore a Sepe: Galeazzi comprenderà bene che non può farsi latore di colpi bassi senza esibire la cedola d’accompagnamento.
E allora, giusto per aiutarci un po’ a capire (se non ci prova un vaticanista, chi?), ci dica: giacché il virgolettato è attribuito a un dipendente della Curia (sottotitolo: “La freddezza della Curia: «Non sarà difeso come Marcinkus»”), il Galeazzi ci può almeno dire se quel nome è gli è stato fatto da un addetto della Segreteria di Stato o di una Congregazione (eventualmente quale, proprio Propaganda Fide)? Nel primo caso, a lavarsi le mani come Ponzio Pilato e a consegnare ai carnefici quel povero cristo di un cardinale, sarebbe il Papa, che è pur sempre a capo di tutta la Curia, e in questo caso si attribuirebbero ben più che indirettamente a Giovanni Paolo II le responsabilità del caso Marcinkus. Finalmente. Nel secondo, a farlo sarebbe l’odierna dirigenza della Curia (o almeno l’odierna dirigenza della Propaganda Fide), e non se ne capirebbe il motivo, se non quello di farci capire che l’immunità diplomatica è un privilegio che lì si ritiene ormai inutilizzabile. Finalmente.
E allora: finalmente quale delle due? 

Raccolta differenziale


Il grosso della “sporcizia” che Joseph Ratzinger rimproverava alla Chiesa, al Colosseo, il 25 marzo 2005, era il carrierismo, non la pedofilia, così ci suggerisce il vaticanista che fino a l’altrieri ha lodato la determinazione mostrata da Benedetto XVI nel far pulizia della “sporcizia” della pedofilia, suggerendoci che fossero gli abusi sessuali su minori il grosso di quella, almeno per Joseph Ratzinger, fin dal 2005. E qui, signor vaticanista, dobbiamo metterci d’accordo: a ogni comandamento che i preti si mettono sotto i piedi – prima il sesto, poi il settimo, il prossimo sarà l’ottavo? – non possiamo cambiare esegesi di quella cazzo di Nona Meditazione. Una volta per tutte: cos’era più sporco, per l’aspirante papa, stuprare bambini o intrallazzare?
Andiamo alla fonte? Andiamoci. “Non dobbiamo pensare anche a quanto Cristo debba soffrire nella sua stessa Chiesa? A quante volte si abusa del santo sacramento della sua presenza, in quale vuoto e cattiveria del cuore spesso egli entra! Quante volte celebriamo soltanto noi stessi senza neanche renderci conto di lui! Quante volte la sua Parola viene distorta e abusata! Quanta poca fede c’è in tante teorie, quante parole vuote! Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui! Quanta superbia, quanta autosufficienza!”.
Indubbiamente, sì, è “sporcizia” che calza meglio addosso ad un intrallazzatore. Ma allora perché ci è stato fatto credere che Joseph Ratzinger ce l’avesse soprattutto con i pedofili? Sarà mica che al prossimo scandalo – chessò, traffico internazionale di droga – scopriamo che “sporcizia” dovesse correttamente tradursi “eroina”?
Decidiamo una volta per tutte: se non è di tutto un gran pattume, la Chiesa, dove troviamo il grosso nella differenziale?

domenica 20 giugno 2010

Prova d’amore


“Non crederete mica che abbiamo spostato l’appuntamento per la partita – ha spiegato Bordin – non è così: in realtà Pannella si trova in Calabria, dove si è svolto un convegno dei radicali calabresi, e per potergli agevolare il ritorno a Roma abbiamo deciso di anticipare la puntata”. Controprova? La consueta conversazione domenicale, che di solito va in onda alle 17.00, è anticipata alle 15.00, andando a sovrapporsi in buona parte a quasi tutto il primo tempo della partita. Ma non è tutto, perché Radio Radicale fa un altro strappo alla regola: la prima replica della conversazione non va in onda, come al solito, alle 22.00 ma alle 17.00, quando l’Italia sta scendendo in campo per il secondo tempo. Potremmo dire, insomma, che non ci sia limitati a snobbare la partita dell’Italia, ma che si è voluto renderla incompatibile con l’ascolto della conversazione Pannella-Bordin.
Se questo non vuol dire niente per il comune mortale, che potrà recuperare la puntata da radioradicale.it quando vuole, o riascoltarla nelle numerose repliche nel corso della notte, o in quella che è mandata in onda alle 11.oo del lunedì, per il dirigente radicale vuol dire, eccome: la compatibilità tra la diretta della Nazionale e il verbo nascente del Transnazionale per eccellenza è assicurato solo da un occhio alla tv e un orecchio alla radio.
Conoscendo un pochino Pannella, il nucleo vivo della conversazione – dove ogni buon dirigente radicale sarà chiamato a concentrarsi – dovrebbe essere a cavallo tra la prima e la seconda ora della trasmissione, quando l’Italia sta scendendo in campo per l’inizio della partita (in diretta) o per l’inizio del secondo tempo (in prima replica).
Non è sadismo nei confronti del dirigente radicale appassionato di calcio o tifoso della Nazionale, ma è una richiesta di prova d’amore, che sarà formalizzata da un giro di telefonate intorno alle 18.30, a partita appena finita: “Hai ascoltato ciò che ho detto? Che ne pensi?”. Sottinteso: “Lo chiedo a te perché ti stimo tanto”. Ancor più sottinteso: “Sbaglio mica a stimarti tanto?”.

Ma ringraziate il cielo che Sua Eminenza è un galantuomo e non vi ride in faccia



Sua Eminenza “possiede un passaporto diplomatico della Santa Sede [e] ne era in possesso anche quando era Prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, ex Propaganda Fide: lo riferiscono fonti vaticane” (Corriere della Sera, 20.6.2010). Lo riferiscono il giorno dopo che il cardinale Sepe ha annunciato che intende collaborare con la magistratura italiana, quasi in contemporanea ad un annuncio della Sala Stampa Vaticana che dava per certo che Sua Eminenza avesse deciso di farlo.
Oggi, la Sala Stampa Vaticana ribadisce che il cardinale “collaborerà”, ma che “bisognerà tenere conto degli aspetti procedurali e dei profili giurisdizionali impliciti nei corretti rapporti tra Santa Sede e Italia” (La Stampa, 20.6.2010). I corretti rapporti tra Santa Sede e Italia sono illustrati da Concordato e Patti Lateranensi e qui si legge che un prelato con passaporto diplomatico non può essere arrestato né è passibile di altra sanzione che ne limiti la libertà o ne sminuisca i privilegi: Sua Eminenza potrà pure dichiararsi colpevole di concorso in corruzione, essere rinviato a giudizio e/o condannato, ma la faccenda nasce politica e lo rimane. Parliamo di immunità diplomatica, roba sacra.

Non basta. Legge n. 121 del 25.3.1985 a ratifica ed esecuzione dell’accordo con protocollo addizionale, firmato a Roma il 18.2.1984 (Accordo di revisione Concordato Lateranense), articolo 4, comma 4: “Gli ecclesiastici non sono tenuti a dare a magistrati o ad altra autorità informazioni su persone o materie di cui siano venuti a conoscenza per ragione del loro ministero”.
I beni della Chiesa e il loro movimento non sono materie relative al ministero di prefetto della Propaganda Fide? Cosa obbliga il cardinale Sepe a dare informazioni su persone che – incidentalmente – sono cittadini italiani coinvolti nella movimentazione di quei beni? Se si rifiuta di rispondere, non è accusabile di reticenza: “nei corretti rapporti tra Santa Sede e Italia” ne ha diritto. Se glielo vai a toccare, infrangi la legge.


Aggiornamento
Il professor Enrico Vitali, docente di Diritto ecclesiastico e canonico alla Università Statale di Milano, conferma.

Protasi


L’avviso di garanzia partiva nello stesso istante in cui Benedetto XVI diceva: “Il governo del vescovo sarà fruttuoso pastoralmente solo se godrà del sostegno di una buona credibilità morale che deriva dalla santità della sua vita”. Il nesso è cronologico – la tarda mattinata di sabato 19 giugno – e lo si direbbe casuale, ma “il caso è lo pseudonimo di Dio quando non vuole firmare” (Anatole France), meglio ancora, “è la forma che Dio prende quando vuole rimanere in incognito” (Jean Cocteau). Insomma, parrebbe che il cardinale Sepe sia chiamato – insieme – da Dio (o chi ne fa le veci in terra) a dar conto della sua credibilità morale dimostrando che la sua vita è santa, e dalla Procura di Perugia a dar conto che i favori fatti alla “cricca” non siano concorso in corruzione. Siamo certi che ci riuscirà.

Come volevasi dimostrare


Una dozzina d’anni fa, in uno dei suoi tanti e bellissimi libri, José Saramago scrisse che di certo c’è solo la morte, che la morte non guarda in faccia a nessuno. Una dozzina d’anni dopo, José Saramago muore e un tal Claudio Toscani fa: “Come volevasi dimostrare”. Lo fa in apertura di una scheda biografica del morto che firma su L’Osservatore Romano del 20 giugno.
L’umore verso la salma è malevolo e questo io lo ritengo legittimo: i grandi non muoiono mai, sono tenuti a dar conto di se stessi anche dopo la morte. E Saramago ne dà conto discretamente bene: la sua scheda biografica è sontuosa. La scheda biografica di Claudio Toscani, invece, è assai smunta: se è lui – non si capisce bene, chissà quanti Claudio Toscani esisteranno – pare sia un associato, stipendiato da una tante (troppe) università italiane, e che arrotondi con qualche pezzullo su L’Osservatore Romano. Anche qui si dà conto di se stessi discretamente bene: “Per quel che riguardava la religione, uncinata com’è stata sempre la sua mente da una destabilizzante banalizzazione del sacro e da un materialismo libertario che quanto più avanzava negli anni tanto più si radicalizzava, Saramago – scrive il Toscani – non si fece mai mancare il sostegno di uno sconfortante semplicismo teologico: se Dio è all’origine di tutto, Lui è la causa di ogni effetto e l’effetto di ogni causa”. È chiaro quale sia il rimprovero a Saramago: lo scrittore non credeva nell’esistenza di Satana.
Il Toscani, invece, mica banalizza il sacro, e ci crede. È sulla teodicea che misura la grandezza di un uomo, pare, e qui il Toscani giganteggia sul Saramago: “Un populista estremistico come lui, che si era fatto carico del perché del male nel mondo, avrebbe dovuto anzitutto investire del problema tutte le storte strutture umane, da storico-politiche a socio-economiche, invece di saltare al per altro aborrito piano metafisico e incolpare, fin troppo comodamente e a parte ogni altra considerazione, un Dio in cui non aveva mai creduto, per via della Sua onnipotenza, della Sua onniscienza, della Sua onniveggenza. Prerogative, per così dire, che ben avrebbero potuto nascondere un mistero, oltre che la divina infinità delle risposte per l’umana totalità delle domande. Ma non per lui”. E dunque, in ultima analisi, perché il Toscani schifa il Saramago? Perché non era cattolico: il Dio di cui scriveva non era affatto il Dio del Catechismo.
L’oratio funebris in morte di Saramago è affidata da L’Osservatore Romano a un critico letterario che a quanto pare è dotato di un’unica categoria di analisi: la teologia. “Lucidamente autocollocatosi dalla parte della zizzania nell’evangelico campo di grano”: destinato alla dannazione eterna, dunque. Che tuttavia mi pare un buon affare rispetto alla dannazione del fare il critico letterario per il Sant’Uffizio.

[a margine di quanto ha scritto Luca Massaro]


venerdì 18 giugno 2010

È un fake


Il rinvio a giudizio di don Pierino Gelmini era un atto dovuto. Sarà stato il caldo d’agosto ma alla notizia d’essere indagato – e parlo del 2007 – l’intraprendente pretonzolo (scusate lo scioglilingua) rilasciò interviste che da sole avvaloravano l’ipotesi di reato: al pm bastavano quelle per puntellare l’ipotesi accusatoria.
Arriva a convincersene, oggi, anche chi espresse piena e chiassosa solidarietà all’indagato e il centrodestra rinnova la fiducia nella sua innocenza, ma con molto meno chiasso e con qualche defezione. Non parliamo della Santa Sede, non parliamo della Cei: quasi il silenzio, solo voci sparse e da modulario. Insomma, poverino, manda cattivo odore contro ogni previsione, come la salma di quel sant’uomo di Zosima ne I fratelli Karamazov.

Per trovare chi dice che don Pierino continua a profumare di lavanda e ciclamino bisogna andare a cercare su pontifex.roma.it e qui non si rimane delusi. Si tratta di uno di quei blog – sempre collettivi, e non è difficile capire il perché – ai quali non conviene badare troppo, perché prima o poi sono rovinati dalla competizione a chi la spara più grossa: di post in post, la linea editoriale diventa un balletto delirante, una grottesca giostra di coatti, facendo venire il sospetto che si tratti di un fake. È il caso di dauomo.com, per esempio: un post ti fa storcere il muso, il secondo ti fa incazzare e il terzo ti fa balenare l’ipotesi che si tratti di cabaret a tema, un po’ ossessivo-compulsivo e dunque assai noioso.
La gamma naturalmente è assai più ampia, da lugubri compagni di merenda a vere e proprie redazioni aperte, parecchio forumizzate.

Perché commentare un post di pontifex.roma.it, allora? Per vedere se davvero è un fake.
“Come noto, don Pierino Gelmini é stato rinviato a giudizio dal gup di Terni per molestie sessuali nei confronti di alcuni ragazzi della sua comunità”. “Come noto”, un cazzo: in tv la cosa aleggia, non di più. Se un imam fosse stato rinviato a giudizio, anche per molto meno, avremmo Vespa, il plastico della moschea, Introvigne, padre Amorth e il fantasma di Oriana Fallaci.
“Rispettiamo il parere del magistrato…” – bravi! – “… e siamo certi che dal giudizio don Gelmini uscirà vittorioso e a testa alta…” – benissimo, ogni certezza è legittima fino a sentenza.

“Dipendesse dal cognome del Gup, Panariello, potremmo definire comico il rinvio a giudizio” – già si comincia a cagare fuori dal vasetto, ahia! “Le accuse paiono davvero poco credibili e formulate forse da gente che nutriva rancore o altri inconfessabili obiettivi nei confronti di don Gelmini nei cui confronti da certa stampa si é rivoltata la vita come un calzino. Bene, anche in caso di una vecchia condanna per assegni a vuoto, che cosa significa? Nulla”. Due o tre passaggi e don Pierino è martire: prima del martirio, prima del processo e dell’eventuale condanna.
Si opera una volgare contraffazione dei piani sui quali stanno la vecchia condanna e l’odierna imputazione, come se il rinvio a giudizio odierno fosse un prolungamento della persecuzione mediatica per un reato che il Gelmini ha già scontato: il diritto all’oblio diventa diritto di essere creduto sulla parola. Si può continuare a leggere solo immaginando che si tratti del sofisticato gioco intellettuale di una banda di laicisti viziosissimi, sennò si lascia perdere.
“Ciascuno può sbagliare nella vita: questo moralismo da accattoni ci indigna”: aumentano le possibilità che sia un fake, perché “morale da accattone” in bocca a un buon cristiano sta come un salsiccia party a Medina. “Occorre dire che non tutta la Chiesa cattolica ha mostrato piena solidarietà a don Gelmini…” – sì, è vero, lo dicevamo – “… quella stessa Chiesa che nel passato, per sua stessa ammissione e richiesta di perdono, ha chiuso un occhio e magari due davanti ai casi di pedofilia, ben più gravi rispetto ad ipotesi di molestie su maggiorenni, ammesso che ci siano mai state” – e qui per salvare il culo a don Pierino lo si scopre addirittura al Papa.
È un fake, è un fake…

Il calcio è scemo in sé


Perde la Germania, perde la Francia, perde la Spagna, Italia e Inghilterra inchiodate al pari, va male a tutte le nazionali di grande tradizione: grande scalpore fra quanti amano dire che “la palla è rotonda”.

Neanche se si spremono.




Un splendido articolo di Christopher Hitchens, apparso lo scorso lunedì su The New York Times, ci è offerto dal Corriere della Sera di oggi privo della deliziosa ciliegina del titolo originale, che è Charles, Prince of Piffle. Il quotidiano che si dà arie da giornale per gente perbenino ha preferito Lo scivolone di Carlo, che così risulta essere assai più british di un Carlo, Principe della Cazzata, che sarebbe stato assai più fedele.
Non dirò quanto mi piaccia Hitchens, l’ho già detto altre volte. Nemmeno starò a lambiccarmi sulla tendenza che in una certa stampa perbenino mi rappresenta l’istinto coatto del borghesuccio che è sempre tentato alla cifoscoliosi dinanzi ad un qualsiasi zombie di una delle ingangrenite aristocrazie europee. (Triste strascico di fiabe, un’altra cattiveria che si fa ai bambini: inoculare loro che la monarchia sia una forma politica da sogno, perché fatta di sogno, fino al succedaneo della fiaba che ti rifila per Principe un Emanuele Filiberto di Savoia e per Principessa un’Alessandra Borghese.) Non di quello, non di questo.
Dirò solo che questi borghesucci del Corriere della Sera potranno pure comprarsi un articolo di Hitchens, ma non se lo meritano. Neanche se si spremono.

Non vuol dire niente

questo governo è alla frutta, hai letto il foglio?
pure ferrara spara su berlusconi…

se trovo tempo, ti rispondo con un post


 
Sì, ho letto: “impotente, rassegnato, ingloriosamente pronto a mollare tutto… si comporta spesso in modo buffo…”; e poi gli dà del “mattocchio”, dell’“inetto”, e scrive che “si comporta da sciagurato, da inabile…”. Sì, ma lasciatelo dire: non vuol dire niente. Tanto meno la cosa è un indicatore, come tu ritieni. È che anche tu ti fai suggestionare dal rumore delle parole di Ferrara: se i suoi protettori non muoiono o non fuggono all’estero, rimane sotto la loro ascella ed è questo, solo questo, ciò che dà misura di quanto l’ascella sia sicura, non il fatto che lì sotto Ferrara si lamenti.
Certo, gli dà del “gigantesco e barocco Ubu Roi”, scrive che “incorre in strafalcioni giganteschi” e si vede che soffre per la “ritirata non strategica” sulla legge-bavaglio, perché ancora una volta i suoi consigli sono stati buttati nel cesso… E però sta’ tranquillo: Ferrara non molla Berlusconi: al momento – e lo scrive – è ancora convinto che “gli sbagli lo attravers[i]no senza conseguenze” e che, “dopo un’estate così così”, è il caso che “la parabola torn[erà] ascendente”, che “questo paese a occhio e croce non gli volterà le spalle”, e che “non dovrebbe correre […] rischi [di un] Piazzale Loreto e altre carognaggini”. E dunque perché mollarlo?
Barrire, certo, ma giusto per sfogarsi un po’: gli aveva suggerito di ripescare la legge Mastella per inchiodare le opposizioni e, chissà, forse poteva pure funzionare, ma ancora una volta il Principe ha schifato Machiavelli e ha fatto di testa sua. Comprensibile l’amarezza e una puntina di risentimento, si possono capire le frecciatine a Ghedini e i patetici tentativi di fare ingelosire il Principe flirtando con Fini, ma fino a quando Berlusconi sarà in sella, o con una possibilità di tornarci se fosse disarcionato, Ferrara starà con lui.
Il fatto che si rivolga a lui come nessun Bondi o Cicchitto o Capezzone oserebbe mai non significa nulla: quelli no, ma Ferrara ha bisogno di dimostrare a se stesso, prima che agli altri, che il suo servilismo è un atto di libertà e che il raggio della sua catena gli consente un’ampia circonferenza attorno alla cuccia. Questo lo trattiene dalla conversione, per esempio: da devoto, ma ateo, può baciare la mano a Benedetto XVI continuando a sentirsi un vero ometto, che poi è l’aspirazione di ogni adolescente invecchiato male.



E tuttavia capisco se quel pezzo in prima pagina t’ha impressionato. In fondo serviva a quello: a impressionare. Anch’io, in altra occasione, ci sono cascato. Non so se già la sai, ma te la racconto lo stesso.
Ho votato Berlusconi nel 1994 e nel 2001 – come vedi, sono un cascatore nato – ma già sul finire del 2003 avevo capito che la “rivoluzione liberale” era una presa per il culo. Ho cominciato a mugugnare tra me e me, poi il mugugno m’è uscito. Fu in occasione dell’affossamento della grazia ad Adriano Sofri, che Berlusconi aveva promesso a Ferrara nel novembre del 2002, per rimangiarsela un anno e mezzo dopo. Che barriti!




A quei tempi scribacchiavo qualche letterina a Il Foglio, sicché colsi l’occasione per dire:



La risposta – tutto sommato ancora cortese – mi gelò assai più di quella data a un’altra lettera su quello stesso numero del giornale, che ingenuamente pensai fosse motivata solo da orgoglio.


Proprio per niente: la risposta a quel tal Nicola Milano faceva combinato disposto con l’editoriale del giorno prima. Avevo frainteso: quello che Ferrara aveva scritto il giorno prima su Berlusconi, su An e su Lega era solo uno sfogo del momento. La mia disillusione da liberale tradito non era quella di chi liberale non era mai stato, né lo sarebbe stato mai. Di lì a poco l’avrebbe scritto chiaro e tondo: aveva tentato, ma in fondo rimaneva comunista, più in generale convinto che l’unica democrazia possibile è un’oligarchia sapientemente mimetizzata.
Presi a disprezzarlo, come accade quando non si è capaci di ammettere di aver ammirato per fraintendimento. Felicemente ripagato, prima e dopo. Fine della storia.

Puoi fidarti quando dico che Ferrara recita dinanzi a se stesso, anche stavolta. Che poi il governo sia o no alla frutta, quella è un’altra faccenda, ma su quella Il Foglio – anche come indicatore – ormai conta poco o niente: ormai è più un’impercettibile contrazione del labbro superiore di Quagliariello o un aggettivo che esce involontariamente di bocca a Bonaiuti a fare da termometro al febbrone.

Rimando

Ho già paternamente ripreso Sandro Magister per l’avallo da lui dato alla farlocca interpretazione di un noto passo di Ambrogio (Expositio evangelii secundum Lucam, III, 23) – quello in cui la Chiesa è definita “casta meretrix” – fatta da un Biffi (Giacomo). Evidentemente non è servito, perché torna ad avallarne una non troppo diversa, e altrettanto farlocca, fatta da un altro Biffi (Inos) su L’Osservatore Romano del 18 giugno. Non posso annoiare i miei lettori ripetendomi: rimando il vaticanista de L’espresso al post nel quale gli ho spiegato perché quella che avalla come “larghezza di grazia” altro non è che “comportamento da puttana”.

La privacy, quando ci pare


Il Foglio ha scoperto la sacralità della privacy. Quando si tratta di piazzare un manipolo di ciellini in un centro per l’interruzione volontaria di gravidanza, passi. Quando si tratta di piazzare i body scanner negli aeroporti, pure. Ma quando si tratta di tutelare i momenti di intimità tra Agostino Saccà e Silvio Berlusconi, la privacy è cosa sacra: “basilare diritto del cittadino”, così recita l’appello in prima pagina.
In calce trovi la firma di Pierluigi Battista, che sui body scanner non più di sei mesi fa scriveva: “C’è sempre qualcosa di imbarazzante nello sguardo altrui che oltrepassa la soglia della pelle di ciascuno, scavalca la frontiera dell’invisibile che ciascuno di noi comprensibilmente custodisce come una sfera inviolabile. Ma non si rendono conto che quella frontiera è già stata sgretolata da intrusioni forse più immateriali ma non meno invadenti, prepotenti, arroganti. E allora perché allarmarsi proprio quando, in cambio di un momentaneo passaggio sotto l’occhio tecnologico che guarda nel corpo, si può incrementare la ragionevole certezza che il tuo viaggio non sia l’ultimo della vita?” (Corriere della Sera, 7.1.2010). Mi pare che la questione fosse ben posta: la privacy dell’individuo contro la sicurezza della collettività. Ma la collettività non ha alcun diritto di difendersi dalla corruzione? Spesso non fa più danni più di un attentato?
Appello in difesa del “diritto alla riservatezza”, contro quanto arrivi a “interferire nelle vite degli altri”, fino a “penetrare nei luoghi più reconditi e sacri del privato”: e sta sulla prima pagina di un giornale che invocava la presenza dei volontari del Movimento per la Vita alla Mangiagalli di Milano, a ravanare nelle ragioni che lì portavano una donna ad abortire.
Appello in nome di un “principio liberale”, perché, quando si tratta di parare il culo ai suoi compari, Giuliano Ferrara adora il liberalismo. Neanche gli salta per la testa l’idea di far risalire la nascita dell’“intimità” a punto in cui la necessità di coprirsi è tutt’uno con la coscienza del peccato (Gen 3, 8-11): il peccato, qui, non c’entra.
Ed ecco, dunque, che quel tanto vagheggiato progetto di società da rieducare alla morale giudaico-cristiana di colpo può fare a meno del concetto di peccato: almeno ai suoi compari spetta una zona franca, quella dell’inviolabile privato. Sul privato dei poveri cristi, invece, quello che riguarda l’intimità dei loro corpi e delle loro vite, Il Foglio non fa sconti: è roba di interesse pubblico.


A parte
Sugli appelli in generale, e su quelli de Il Foglio in particolare, una parola definitiva di Leonardo Sciascia (Luca Massaro).

giovedì 17 giugno 2010

[...]

Sugli effetti iatrogeni del ghiaccio sulla pancia


“Una giovane sposa in stato interessante arrivò in ospedale per un semplice attacco di appendicite, i medici dovettero applicarle del ghiaccio sulla pancia. Alla fine di questi trattamenti i medici le consigliarono di abortire il bambino, perché sarebbe sicuramente nato con qualche infermità, ma la giovane coraggiosa sposa decise di non interrompere la gravidanza e il bambino nacque: quella signora era mia madre e il bambino ero io”.
Così Andrea Bocelli si racconta ad Annalena Benini (Il Foglio, 17.6.2010), bissando uno dei suoi cavalli di battaglia. Si tratta del celeberrimo Lied d’autore ignoto (XX sec.) che suona più o meno così: “Se conoscessi una donna incinta, malata di sifilide, che avesse già otto figli, di cui tre sordi, due ciechi e uno ritardato mentale, le consiglieresti di abortire? Sì? Avresti fatto fuori Beethoven”.

Ora, non è per insinuare che tra Beethoven e Bocelli ci sia la stessa differenza che c’è tra Stravinskij e una balanoprepuzite (intesa come Uccello di fuoco), tanto meno per mettere in dubbio ciò che il tenore ci canta, ma, gentilmente, ci dica: un’appendicite acuta o il ghiaccio sulla pancia sono in grado di provocare malformazioni al feto che, nel 1958, un medico di pronto soccorso potesse ragionevolmente e “sicuramente” prevedere come complicanza? Sarà stata rosolia (possibile cataratta e/o glaucoma a carico del feto), ma allora perché tanta licenza nella lettura dello spartito? Un’appendicite sta a una rosolia come un re bemolle sta a un sol diesis, la melodia ne esce stravolta.
Di poi: “i medici le consigliarono di abortire il bambino”. Come? Dove? Eravamo nel 1958, abortire era un reato: esattamente, cosa consigliarono a sua madre? “Signora, si rivolga a una mammana” o “Vada dal dottor Tal dei Tali”? Parli liberamente, il Bocelli, ché è tutta roba andata in prescrizione e non mette nei guai nessuno, tranne se stesso.

“Lo faccio per quelle poche che mi sembrano disperate”


Nulla vieterebbe al dottor Valter Tarantini di astenersi dal praticare interruzioni di gravidanza – 300 all’anno, da 30 anni – ma continua praticarle, però assediato da laceranti scrupoli, da circa due anni e mezzo almeno, quando su Il Resto del Carlino (3.3.2008) rilasciò un’intervista che fece qualche rumorino: “La legge 194 è ormai un mezzo di controllo delle nascite… Per molte donne abortire è come togliersi una verruca… Facciamo pagare l’aborto a chi vi ricorre dalla seconda volta in poi…”. “Scusi la domanda – fece chi lo intervistava – ma se la situazione è questa, perché continua a fare aborti?”. La risposta fu: “Perché, per fortuna, non tutte le donne sono così. Ci sono donne che ne hanno davvero bisogno. Ma sono sempre meno, mi creda”.
Qui l’apparente contraddizione si scioglieva: il dottor Tarantini non soffriva nel fare qualcosa che si opponeva ai suoi principi – fra i quali, chessò, quello della sacralità dell’embrione – ma del non poter decidere a sua piena discrezione, assumendosi le competenze che la legge 194 affida allo psicologo e all’assistente sociale.

Dopo circa due anni e mezzo, il nostro continua a macerarsi e a praticare interruzioni di gravidanza, affidando la sua sofferenza – ancora – alla stampa: “Oggi l’aborto è diventata una cosa normalissima… Ho proposto a Gianfranco Fini e alla Lega di far pagare l’Ivg…” (Tempi, 17.6.2010). Anche stavolta chi lo intervista non può fare a meno di chiedergli: “Se pensa queste cose perché continua a praticare interruzioni di gravidanza?”. Ma il dottor Tarantini non ha smesso di credere di poter sostituire lo psicologo e l’assistente sociale: “Lo faccio per quelle poche che mi sembrano disperate”. In realtà, continua a farlo anche per le altre, perché “formalmente una donna un motivo lo trova sempre”. A lasciar decidere lui chi possa o no interrompere una gravidanza, la forma dovrebbe avere la sostanza della disperazione. Ma a suo insindacabile giudizio, naturalmente, come nel porre indicazione ad un qualsiasi trattamento.
Ecco, è qui, soltanto qui, che questo ginecologo – mi assumo la responsabilità di ciò che scrivo – a me pare un mostro.

Patapùnfete


“Nella notte fra il 7 e l’8 giugno scorsi circa duecento metri quadri di controsoffitto hanno ceduto nella Sala Polifunzionale dei Musei Vaticani, […] spazio coperto sopraelevato che, in prossimità dell’ingresso, è stato progettato e realizzato dieci anni fa in occasione del Grande Giubileo”. Ne dà notizia, dalle pagine de L’Osservatore Romano, il direttore dei Musei Vaticani, Antonio Paolucci, che lamenta: “I Musei del Papa sono saldissimi. Portano nelle loro vecchie ossa parecchi secoli, sono percorsi (e consumati) ogni anno da quattro milioni e mezzo di persone (nove milioni di piedi che strisciano, nove milioni di mani che toccano o possono toccare) eppure continuano a fare egregiamente il loro mestiere. Evidentemente fanno meno bene il loro mestiere i materiali messi in opera dieci anni fa”.

Dieci anni fa, l’ufficio stampa dei Musei Vaticani annunciava: “Il prossimo lunedì 7 febbraio Sua Santità Giovanni Paolo II inaugurerà e benedirà il Nuovo Ingresso dei Musei Vaticani, un’opera nata dall’esigenza di far fronte al forte aumento di visitatori, passati negli ultimi venti anni da un milione e mezzo di presenze annue ai circa tre milioni odierni. L’imponente intervento edilizio ha interessato il confine settentrionale dello Stato della Città del Vaticano nello spazio compreso tra le strutture settecentesche del Museo Pio-Clementino e le antiche mura cinquecentesche in prossimità del precedente ingresso. Nel corso dei lavori è stata asportata la parte del colle racchiusa dalle mura (sono stati rimossi circa 40.000 metri cubi di terreno); sono stati costruiti quattro piani e nuove superfici (per un totale di circa 10.500 metri quadri coperti)”.

Nel discorso tenuto all’inaugurazione, Giovanni Paolo II diceva: “Oggi inauguro l’ingresso che introduce a quel tempio dell’arte e della cultura che sono i Musei. Grande è la soddisfazione per il compimento di un’opera assai impegnativa. Ringrazio il signor cardinale Edmund Casimir Szoka, per i sentimenti anche a nome vostro manifestati e per l’interessante presentazione che ci ha fatto dei lavori svolti e dei risultati raggiunti: a lui ed alla Direzione dei Servizi Tecnici esprimo il più vivo apprezzamento, estendendolo ai consulenti ed alle maestranze e ricordando con gratitudine il cardinale Castillo Lara, oggi presente con noi, al quale va il merito di avere iniziato l’impresa”.

Qualche notizia sui due cardinali che si interessarono della cosa, da un’inchiesta del Corriere della Sera del 20 luglio 1998, a firma di Riccardo Orizio: “Edmund Skoza è il numero uno dell’Operazione Giubileo. Castillo Lara è capo dell’Apsa (Amministrazione del Patrimonio della Santa Sede), presidente della commissione cardinalizia di controllo dello Ior e presidente del Governatorato (un’entità separata che corrisponde allo Stato del Vaticano, con bilancio a sé: gestisce, per esempio, i Musei Vaticani)”.

A chi diedero la delega per i lavori, i due? Il direttore dei Musei Vaticani dell’epoca era Francesco Buranelli. Direttore dei servizi tecnici del Governatorato della Città del Vaticano era l’ingegner Massimo Stoppa. Il progetto era dell’architetto Lucio Passarelli.
Chi l’abbia realizzato non si riesce a sapere.

mercoledì 16 giugno 2010

Il meglio di sé



a Marcello Junio Clerici

Nicola Schiavone è figlio d’arte, pittore come suo padre Francesco (più noto con lo pseudonimo di Sandokan). Artisti schivi, poco abituati a esporre, praticamente fuori mercato, ciò non di meno assai prolifici, perché la scelta di una vita lontana dai riflettori non di rado aiuta l’artista a raccogliersi e a produrre capolavori che sfidano l’eternità, purissimi momenti di interlocuzione con l’assoluto, fuori dalla logica che invece può ridurre la pittura a mera decorazione dei tempi. Per padre e figlio, nel caso degli Schiavone, ci troviamo di fronte a una scelta di questo genere. I loro percorsi artistici sono oscuri a pubblico e critica, le loro opere fuggono l’attenzione che spesso l’arte contemporanea cerca e trova anche quando è priva di contenuti: con questi due maestri di Casaldiprincipe arriviamo al punto di non avere a disposizione neanche due righe sulla loro produzione, come se un’odiosa congiura dei critici d’arte avesse imposto da tempo di snobbarli. E questo a me non pare giusto.
Si prenda, per esempio, il caso di un’opera dello Schiavone figlio che solo una occasionale intrusione nel suo universo artistico ci ha dato la possibilità di godere. Si tratta di un acrilico su tela (100 x 90 cm) di indubbia potenza espressiva. Accanto a citazioni colte (il tratto di Matisse negli occhi impalpebrati, le labbra à la Dalì, l’inquietante scritta à la Magritte, i glifi cari a Savinio), che rivelano un approccio non accademico alla tradizione del Novecento, abbiamo il puro genio che dà il meglio di sé in quello che diremmo un vero e proprio manifesto esistenziale e artistico.

Film cattolicissimo



Trent’anni fa, il 16 giugno 1980, usciva nelle sale americane una pellicola che era destinata ad essere definita “film cattolico”, trent’anni dopo, da L’Osservatore Romano. Se Emilio Ranzato, infatti, scrive che in The Blues Brothers “si riconoscono temi di un certo spessore, che fra l’altro contribuiscono a dare un senso al côté cattolico costituito dall’orfanotrofio gestito dalle suore e dalla «missione per conto di Dio»”, Gianni Maria Vian è ancora più categorico: “Un film memorabile. Stando ai fatti, cattolico”.
Siamo ormai abituati alle stravaganze de L’Osservatore Romano di Vian e cazzate del genere non ci fanno neanche più sollevare il sopracciglio: sappiamo che servono soltanto ad attirare lettori sulle pagine di un giornale che ha una voragine per deficit. Né ci scandalizza più la temerarietà delle cazzate, perché la faccia tosta è ormai emblema della Santa Sede più di quanto lo siano le chiavi di San Pietro messe a croce sotto la tiara (come le tibie sotto il teschio sulla bandiera della Filibusta).
E dunque stiamo ai “fatti” che per Vian farebbero di John Landis un regista cattolico, almeno per questo film.

“La foto incorniciata di un giovane e forte Giovanni Paolo II nella casa dell’affittacamere – dall’accento siciliano e vestita di nero, dunque cattolica - di Lou «Blue» Marini”. Cattolicesimo come sovrastruttura etnica, antropologica, perfino estetica: è considerazione che possiamo ritenere legittima, perché il cattolicesimo è da gran tempo tutto nelle sue sovrastrutture. E dunque passi.
“Senz’altro cattolico, come Alan «Mr. Fabulous» Rubin, di origine polacca, e come soprattutto i fratelli Jake ed Elwood Blues”. Idem con patate: polacchi, ergo cattolici. “E a notarlo, con maligna ostilità, sono gli avversari più determinati, cioè gli insopportabili nazisti dell’Illinois”. In realtà, gli insopportabili nazisti dell’Illinois sottolineano con maligna ostilità la nazionalità dei due, non il loro credo religioso. Ma passi pure questo, perché, da quando Pietro ha incontrato resistenze nell’evangelizzare il mondo intero, il cattolicesimo è sempre stato molto attaccato a quel “cuius regio, eius religio” che gli avrebbe dovuto assicurare che almeno non si disevangelizzasse il già evangelizzato. Non è stato così, ovviamente, ma si spiega la coazione a pensare inevitabilmente cattolici almeno gli italiani, gli spagnoli, i polacchi…
Ma non divaghiamo, torniamo ai “fatti” che per Vian fanno del film un “film cattolico”.

“Jake ed Elwood sono cresciuti nell’orfanotrofio intitolato a sant’Elena e alla santa Sindone, governato dalla terribile ma a suo modo affettuosa Sister Mary Stigmata, detta la Pinguina, e ora a rischio di sopravvivenza per cinquemila dollari di tasse non versate”. Per quanto ci è noto della pedagogia cattolica, non ci stupiamo a sentir dire che la Pinguina sia “a suo modo affettuosa”, figuriamoci se non è per il bene delle anime dei bambini picchiarli di tanto in tanto, almeno quando bestemmiano. Che non funzioni è secondario, e infatti dopo anni e anni di orfanotrofio cattolico, Jake ed Elwood bestemmiano ancora, però – grandezza del cattolicesimo! – c’è ancora lì Suor Stimmata a randellarli. Diciamo che la pedagogia cattolica dura tutta una vita.
Tralasciamo il profilo delinquenziale dei due, diciamo solo che un’educazione cattolica non è servita ad evitare il carcere ad uno dei due, per rapina. D’altra parte, la Pinguina è una che ha evaso le tasse, ma sai quanto ce ne fotte del “date a Cesare quel che è di Cesare”.
Non va meglio sulla ricezione del magistero morale: tra gli effetti personali di uno dei due troviamo “un orologio digitale Timex (rotto), un profilattico non usato [e] uno usato”...
Divagavo ancora, chiedo scusa.

“Per i due quella istituzione cattolica è tutta la loro famiglia - solo il vecchio impiegato Curtis suonava per loro l’armonica in cantina, ricordano con nostalgia - e decidono di salvarla a ogni costo con i suoi piccoli ospiti”. Stupisce che l’unico ricordo caro di un’infanzia passata in un orfanotrofio cattolico sia il blues suonato da un dipendente laico dell’orfanatrofio, ma solo fino a un certo punto, e poi già è tanto che ai due non sia capitato un prete pedofilo. Almeno non se ne fa cenno. E so bene che questo non vuol dire niente, perché non tutti i bambini abusati ricordano o hanno il coraggio di parlare…
Però così divago ancora, torniamo a Vian.

“L’illuminazione arriva nella chiesa battista di Triple Rock dove li ha indirizzati Curtis e dove ascoltano un sermone del reverendo Cleophus James sulla necessità di non sprecare la propria vita. Ed è proprio il religioso protestante ad accorgersi del cambiamento di Jake («Tu hai visto la Luce!») che scatena tra i fedeli un’ondata carismatica, ovviamente rock, ma che soprattutto porterà i fratelli a ricostituire «la banda» per raccogliere i dollari necessari alla salvezza dell’orfanotrofio”. Ma allora è anche un “film protestante”, un “film battista”: forse sarebbe stato meglio chiamarlo “film cristiano”, non “film cattolico”. E vabbe’, non stiamo a guardare il pelo, sono finiti i tempi in cui cattolici e protestanti si sgozzavano con entusiasmo…

Non penso di riuscire a continuare: l’ironia mi lascia un malessere nello stomaco. Sì, via, The Blues Brothers è un “film cattolico”: narra le peregrinazioni di due manigoldi, che dicono di aver visto la Luce, alla ricerca di soldi perché un’istituzione ottusa e violenta non finisca in bancarotta. Film cattolicissimo.

martedì 15 giugno 2010

Padri


Sul congedo obbligatorio di paternità si confrontano, sulla prima pagina de il Giornale di oggi, Giordano Bruno Guerri, favorevole, e Vittorio Feltri, contrario, dandoci una splendida occasione per non entrare nel merito, che essi stessi paiono eludere e che sta tutto nell’obbligatorietà prevista dal ddl a firma di Barbara Saltamartini. Con Guerri e Feltri siamo – prima di tutto e quasi del tutto – di fronte a due diversi modi di intendere la paternità.
Nel primo caso, abbiamo un uomo divenuto padre a 55 anni, dopo un’esistenza ricca di esperienze, in gran parte appaganti. Un uomo che parla della sua infanzia come di un felice laboratorio esistenziale e della sua paternità come un approdo ancor più felice.
Nel secondo caso, abbiamo un uomo indurito dalla vita: “Dopo la morte prematura di suo padre, infatti, sua madre dovette andare a lavorare per mantenere i tre figli. Furono anni duri”, dice Luciana Baldrighi che ne ha raccolto le confessioni in Feltri racconta Feltri (Sperling & Kupfer, 1997); e lui: “Sì, ma non ne parlo volentieri. […] Accanto al cancello del palazzo c’era un campanello, suonava ogni volta che qualcuno passava. E a ogni scampanellata mi precipitavo alla finestra nella speranza di vedere arrivare mia madre. Succedeva anche trenta o quaranta volte per sera: non era mai lei. Così quelle corse verso vetri sempre appannati di umidità e delusione mi sono rimaste impresse nella memoria. […] Non ho mai trovato niente in famiglia: nessun incoraggiamento, nessun appoggio. Nessun supporto morale e anche poco aiuto materiale. Magari c’era, ma io non l’ho trovato. Ero il più piccolo quando morì mio padre. E rimasi solo” (pagg. 57-58).
A tutto questo si può sopravvivere solo indurendosi, finendo per ritenere superflua la tenerezza, fino a considerarla vacuo esercizio di sdilinquimenti e svenevolezze: si può rimuovere un’infanzia come quella di Feltri solo in un ideale di maternità (e ancor più di paternità) essenzialmente finalizzati alla sopravvivenza materiale della prole. Il dolore per tutto ciò che non si è avuto può essere superato solo nel convincersi che era irrilevante.
“Ogni volta penso quanto siamo fortunati, Nicola e io, perché lavoro a casa e le nostre reciproche assenze sono così brevi”, scriveva Guerri. Feltri, invece, si raccontava così: “Ai figli non ho insegnato niente. Ho solo cercato di comportarmi in modo decoroso. Pensavo: se verrà loro in mente di prendermi come modello non faranno scemenze. Adesso che ho passato i 50 anni li trovo divertenti, simpatici, interessanti. […] In questi ultimi anni ho molto rinsaldato i legami affettivi con loro” (pagg. 75-76).
È naturale che, oggi, sul congedo obbligatorio di paternità, il primo scriva: “Rientreranno in ufficio con una marcia in più, a aumentare la loro produttività, come padri di famiglia e come uomini responsabili di qualcosa che non ha prezzo”; e il secondo: “Poche balle. […] Quattro giorni di congedo per fare quattro passi all’ospedale sono troppi per fugare il sospetto che si tratti di ossequio a una moda insulsa”.
Rimarrebbe, a parte, la questione di merito, che a me pare l’obbligatorietà. Ma perché discuterne?