mercoledì 19 gennaio 2011

Per favore, proprio no


Fatta eccezione per gli alimenti che passo alla mia ex moglie, non ho mai pagato una donna per l’esserci stato a letto e tuttavia non ritengo giusta la pressoché unanime condanna morale della prostituzione. Quando è un libero contratto tra adulti responsabili, non vedo a quale titolo io possa biasimare chi offra prestazioni sessuali a pagamento e chi le paghi: fatti loro, mi basta che non sporchino il suolo pubblico o il mio parquet.
Ho già scritto – ieri – che, a dilatare i confini di ciò che è detto sesso e di ciò che è detto appagamento, molti si prostituiscono e lo considerano legittimo. Semplicemente non lo sanno o fanno finta. Si prenda, per esempio, il tizio che goda come un porco (o la tizia che goda come una vacca) nel ricevere complimenti per le sue vere o presunte doti (fisiche, intellettuali, ecc.): può sembrarmi avvilente, e personalmente mi sembra tale, ma cosa m’importa se paga per procurarseli? E che diritto ho di dire se il prezzo è giusto?
Parliamoci chiaramente: la pressoché unanime condanna morale della prostituzione è un tartufo cresciuto tra le radici cristiane, per l’aver ridotto il sesso a funzione del sacramento amoroso. Sarò nostalgico del paganesimo, ma il cristianesimo ha avvelenato il piacere sessuale alla fonte. E i sintomi sono evidenti. Sento in questi giorni, un po’ dappertutto, voci che non si limitano a esprimere la personale repulsione per la prostituzione (e mi verrebbe voglia di sapere quanto pagano per essere appagati), ma esigono che sia unanime.

La sinistra (se ha un senso chiamarla così) pretende che la prostituzione sia equiparata alla schiavitù, come se offrire prestazioni sessuali a pagamento sia possibile solo se oppressi dall’estremo bisogno o sotto la minaccia di un pappone violento o per capitalistica induzione alla cosificazione dei deboli.
La destra (come sopra) non è così intransigente e si limita a stigmatizzarla come indecente necessità che impone una civile ipocrisia e discrete zone franche.
I laici, poi, che manco so più che mi significa, a chiacchiere contestano le puttanate su eros e agape di Benedetto XVI, ma poi finiscono per arricciare il naso dinanzi a ciò che è pur sempre “sesso senza amore”. Prendete i radicali, per esempio. Dai tempi dei referendum sul divorzio e sull’aborto hanno concluso poco o niente, con l’eccezione di quel progetto di società che stava nei 31 punti di Fiuggi e che era il manifesto della Rosa nel Pugno: lì la prostituzione era considerata una professione, ma pure loro a fare i puritani e dare del puttaniere a Silvio Berlusconi e della puttana a questa e a quella, con un fare sprezzante, da veterofemministe che “la penetrazione è intrinsecamente atto violento”.
Chi è che mi viene a fare eccezione? Da non credersi: i cattolici. Con la tonaca o senza, i cattolici più avvinti alle sorti del berlusconismo sono i più tolleranti verso il puttaniere e, quindi, per sofferta conseguenza, verso le sue puttane. “Volete lapidarli in pubblica piazza? Chi non ha peccato scagli la prima pietra!”. Commoventi. Così tolleranti verso i peccatori, di tanto in tanto. Neanche li riconosci in quelli che ti seppellirebbero sotto uno scoglio per un bacio gay in spiaggia.

Insomma, che uno col cervello andato in gorgonzola si sente un eroico tirannicida e spara un 60 mm in bocca a Silvio Berlusconi, passi. Ma che la mostruosità del nostro tirannello tocchi l’apice nell’andare a puttane, fatemi il piacere, evitate.
Che quella fosse minorenne, ok. Che oltre al denaro ci ha messo abuso di potere, pure. Che in quanto Presidente del Consiglio debba rispettare un galateo più oneroso di quello di un comune cittadino, perfetto. Ma l’andare a puttane, in sé, sia un crimine contro l’umanità, per favore, proprio no.

Voglio morire




2.4.2008



“Se vengo ancora intercettato, lascio questo paese”

Silvio Berlusconi,
2.4.2008

Ma la squadra è una


“Potrei dire di tutto e di più contro Berlusconi e il teatrino che si evince dalle intercettazioni sulle serate di Arcore. Potrei sfogarmi e dire che è tutto uno schifo. E come me tanti vescovi sarebbero pronti a «sparare». Ma […] serve una strategia unitaria”
monsignor Domenico Mogavero


“Come in ogni uomo [anche in Silvio Berlusconi] c’è anche del bene e bisogna evitare che venga rappresentata solo una parte dell’immagine, solo la parte ombrosa”
cardinale Crescenzio Sepe



Al mio lettore ho consigliato più volte di non prestare troppa considerazione a quei prelati, anche di un certo peso, che esprimono opinioni in latente o patente contraddizione con la posizione ufficiale della Cei o con quella della Santa Sede (che pure non risultano sempre del tutto coincidenti e insieme sembrerebbero ambigue). [Mi pare di aver dedicato alla questione un poco di attenzione in più, fuor dal contesto delle cose italiane, a mo’ di paradigma, parlando dei pochi vescovi tedeschi che presero posizione contro il nazismo, tornati utili alla Chiesa solo dopo la caduta del Terzo Reich: se Hitler avesse vinto la guerra e col nazismo fosse stato possibile scendere a compromessi come la Chiesa non ha mai esitato a fare con ogni regime dittatoriale disposto a trattare, poco più di niente sapremmo dei cinque o sei vescovi antinazisti che oggi con la loro santità fanno ombra a decine di vescovi filonazisti.] Il gioco è di squadra e la partita non è mai sui tempi brevi: un vescovo può essere severamente ripreso oggi, ma esser fatto santo domani. [Si pensi a monsignor Oscar Romero che Giovanni Paolo II dichiarò scassacazzi nel 1979 e martire nel 2000.]
Può sembrare santa prudenza o cinico opportunismo, tutto dipende da cosa si ritiene muova la Chiesa nel mondo, se lo Spirito Santo o la bimillenaria pellaccia. Perciò oggi dico al mio lettore: è inutile far previsioni su ciò che il presidente della Cei dirà lunedì prossimo, è inutile dar peso a ciò che si legge sulla prima pagina di Avvenire, ancor meno vale pena di dar troppo peso a questo o a quel prelato, che sia un monsignor Domenico Mogavero o un cardinale Crescenzio Sepe, perché le sorti di Silvio Berlusconi e del suo governo sono ancora lontane dall’essere prevedibili, checché ne pensi chi lo ama e chi lo odia, e fino a quando non sarà possibile capire come butta, la linea ufficiale della Chiesa non potrà che mantenersi ambigua.
Nessuno – nemmeno la Dc – le ha concesso tanto, ma non si tratta di gratitudine, perché la Chiesa non esita a fottere chi le ha fatto un favore, se è necessario: fino a quando Silvio Berlusconi avrà la forza di restare in piedi per dare al Vaticano ciò che il Vaticano chiede, prevarranno la condanna del peccato e un occhio di riguardo per il peccatore.
“Il contegno è indivisibile dal ruolo”, ha detto il cardinale Angelo Bagnasco, e il suo giornale ha chiesto la “chiarezza necessaria” sui fatti contestati a Silvio Berlusconi dai pm di Milano, ma fino a lunedì può accadere di tutto e fino a lunedì occorre equilibrio, che è ben rappresentato da ciò che dice il cardinale Elio Sgreccia: “La privacy va sempre rispettata. E quindi penso che se la privacy del premier è stata violata la cosa non sia giusta. Insieme penso che se c’è in atto un accanimento nei suoi confronti da parte di una certa magistratura la cosa non vada bene”, e fin qui sembrerebbe la dichiarazione di un Fabrizio Cicchitto dopo assunzione di 30 gocce di Valium; poi, “però […] c’è l’aspetto dell’esemplarità di chi ricopre incarichi di governo da non eludere mai”, e qui sembrerebbe che a parlare sia un Antonio Di Pietro dopo assunzione di tre compresse di Rivotril. Mogavero e Sepe controllano le ali e Sgreccia gioca al centro, ma la squadra è una.

Così tutto si mantiene


“Non si può negare che alcuni di voi e dei vostri predecessori avete mancato, a volte gravemente, nell’applicare le norme del diritto canonico codificate da lungo tempo circa i crimini di abusi di ragazzi”

Benedetto XVI, Lettera ai cattolici d’Irlanda (11), 19.3.2010


Le norme del diritto canonico vigenti nel 1997 erano quelle della Crimen sollicitationis, che imponeva la massima segretezza addirittura su se stessa (“servanda diligenter in archivo secreto curiae pro norma interna” e “non publicanda nec ullis commentariis augenda”) e sugli abusi a danno dei minori la imponeva alle vittime, ai loro genitori, ai testimoni, ai membri del tribunale ecclesiastico e a chiunque fosse venuto a conoscenza dei fatti, pena la scomunica: la giustizia civile doveva essere tenuta fuori.
Ora, salta fuori dai cassetti di un vescovo irlandese una lettera che monsignor Luciano Storero, incaricato ufficiale di Giovanni Paolo II per le diocesi d’Irlanda, scrisse nel 1997 e nella quale si ribadisce l’ordine di coprire gli abusi sessuali commessi da preti a danno di minori: col richiamo a quelle norme che, nella sua Lettera ai cattolici d’Irlanda, Benedetto XVI lamentava fossero state disattese. E così abbiamo chiarezza sul punto: il crimine sta nel non aver saputo mantenere il segreto. E così tutto si mantiene. 

[grazie a Luca Massaro per la segnalazione]

martedì 18 gennaio 2011

Salasso


“Già si parla delle reliquie del beato Giovanni Paolo II, è vero che esiste un’ampolla del suo sangue? Risponde Dziwisz: «Sì, l’ho chiesta ai medici del Gemelli il 2 aprile del 2005, poco prima che morisse. Una reliquia preziosa che potrà essere venerata in un santuario che si sta costruendo a Cracovia»” (Il Foglio, 18.1.2011).

Non sarà stato quel salasso ad ammazzarlo, ma certo non deve avergli allungato la vita di un solo minuto in più, date le condizioni in cui versava. Nessuna indicazione clinica, naturalmente, ma un medico del Gemelli può mai opporre un rifiuto al segretario personale del Papa?
Lui, Wojtyla, avrà dato il suo consenso? Se sì, gli sarà stato detto il motivo, e qui ci sono solo due alternative: acconsentì perché era certo di esser fatto santo, e così peccò di superbia, sennò diede il consenso alla venerazione di una falsa reliquia,  e incoraggiò il peccato di idolatria.
Più probabile che Wojtyla fosse all’oscuro di tutto e che Dziwisz abbia fatto di testa sua, complice un medico che si fa fatica a considerare medico, tutt’al più si sarà trattato del cerusico di corte.

Il tutto si sarebbe consumato su territorio italiano.


L'incidente


La prostituzione non è illegale in Italia e la vigente normativa si limita a punirne l’esercizio in luogo pubblico, l’induzione e lo sfruttamento da parte di terzi, mentre è assai ambigua riguardo all’ampia gamma delle condotte di favoreggiamento. Tutt’altro discorso è il “compie[re] atti sessuali con un minore di età compresa tra i quattordici e i diciotto anni, in cambio di denaro o di altra utilità economica”, che è inteso come “delitto contro la libertà individuale” e che è “punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa non inferiore a € 5.164” (art. 600-bis c.p.). Non c’è dubbio, dunque, che gli ultimi guai di Silvio Berlusconi nascano solo a causa della minore età di Karima el Mahroug nel momento in cui i due compivano atti sessuali a pagamento, come la giovane ha pubblicamente negato, ma privatamente ammesso con larghezza di dettagli (a latere ci sarebbero i connessi guai di Emilio Fede e di Lele Mora, ma qui eviterò di prenderli in considerazione.)
Qualsiasi sia il giudizio etico e/o estetico che ciascuno dà della prostituzione, vediamo se possiamo essere d’accordo su questo primo punto: la transazione si è consumata in abitazione privata e, se Karima el Mahroug avesse fornito a Silvio Berlusconi le sue prestazioni sessuali a pagamento dopo il compimento del 18° anno, non avremmo in mano alcuna materia penale (continuando a tener fuori Fede e Mora che, anche se gestori di un traffico di vecchi puttanoni ultrasettantenni, sarebbero comunque nei guai). Se non ci sono obiezioni, andrei avanti.

Silvio Berlusconi sapeva che Karima el Mahroug fosse minorenne? Pubblicamente lo nega e trova conferma dalle dichiarazioni pubbliche della giovane, che dice di essersi spacciata come 24enne. La legge non ammette ignoranza, tutt’al più prevede attenuante: anche se la buona fede di Silvio Berlusconi fosse dimostrata, l’art. 600-bis c.p. non cadrebbe, ma qui vi sarebbero prove che la minore età di Karima el Mahroug non gli fosse ignota. E allora vediamo se possiamo essere d’accordo anche su questo: al netto della “disciplina” e dell’“onore” che la Costituzione impone ai “cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche” (art. 54), termini troppo vaghi per poter definire disonorevoli o indisciplinate le pratiche private non illegali; al netto delle implicazioni politiche – interne e internazionali – che, nonostante ciò, deriverebbero dalla pubblica notorietà di queste pratiche private, ancorché indimostrate (e intanto fin qui negate); al netto della ricattabilità del puttaniere, che lo renderebbe vulnerabile insieme a quanto rappresenta (patria, governo, coalizione, partito, ecc.); al netto, infine, dell’esercizio di doppia morale che sta nel fare gargarismi coi valori sul balcone e poi andarli a sputare nel cesso di servizio; al netto di tutto questo, i guai di Silvio Berlusconi non stanno nell’essere un puttaniere, ma del non aver saputo tenere nascosto il fatto di aver sbagliato puttana una mezza dozzina di volte, le volte in cui Karima el Mahroug è stata ad Arcore, ancora minorenne.

Ci siamo? Al netto del giudizio etico e/o estetico, siamo riusciti ad isolare le due cose – la prostituzione (legale) e la minore età della prostituta (che la trasforma in reato) – che nella faccenda stanno insieme solo incidentalmente? Se sì, possiamo essere d’accordo sul terzo punto: i guai di Silvio Berlusconi nascono da un incidente nella sua carriera di puttaniere, che sarà esecrabile sul piano etico, disdicevole su quello estetico, ma che non è vietata per legge. In altri termini: è solo un incidente che fa di Karima el Mahroug una puttana diversa dalle altre pagate da Silvio Berlusconi, perciò fonte di guai, e l’incidente sta – a piacere – nel non aver saputo evitare che fra le sue puttane capitasse una minorenne e/o nel non aver saputo evitare che la cosa diventasse pubblica. In questo senso, a differenza degli altri casi analoghi che gli sono stati attribuiti, qui c’è incidentalmente un fatto penale che negli altri casi non c’è.

Se fino a qui siete riusciti a starmi appresso, ora viene il punto sul quale probabilmente non concorderete tutti. Comincio con l’enunciare, poi cercherò di argomentare.
La prostituzione è pratica dai contorni assai sfumati e la correlazione tra la prestazione sessuale offerta e il vantaggio ottenuto in cambio non è sempre configurabile in modo certo come pagamento. Sono tutt’altro rari i casi in cui – soggettivamente e oggettivamente – è difficile dire con sicurezza quale sia il favore fatto prima e quale grata ricompensa segua dopo, e la sequenza cronologica degli eventi non è così significativa del nesso causale, che di sovente è ambiguo fino all’insondabile (e per non urtare alcuna sensibilità mi asterrò dal fare riferimento alle origine sacre della prostituzione documentate in Strabone di Amasea, né citerò quanti hanno dimostrato il mercimonio sessuale nel matrimonio, in tutte le epoche e dovunque).

Ora – e qui mi avvio alle conclusioni – nessuno vorrà negare che anche i contorni di ciò che è detto “atto sessuale” sono assai sfumati, e che altrettanto lo sono quelli di quanto fa “utilità economica”. Se per “atto sessuale” non ho da intendere giocoforza il bruto coito, ma posso arrivare a intendere anche tutto quanto vi può essere d’attorno (o solo questo), e se per “utilità economica” posso intendere anche il regalino non richiesto, anche se tacitamente atteso (senza previa contrattazione), la pratica della prostituzione si allarga a molte forme del darsi reciproca soddisfazione, secondo le proprie possibilità, entro oppure oltre le aspettative.
Probabilmente dovremmo evitare di usare termini come “puttana” e “puttaniere”, e dovremmo ridefinire quello di “prostituzione”, che appare sempre più inadeguato da quando le prestazioni sessuali dietro compenso hanno in gran parte perso il carattere di attività servile per acquistare quello di professione (anche altamente) specializzata. Non a caso, infatti, ciò che inguaia Silvio Berlusconi è l’essere incidentalmente inciampato in un “delitto contro la libertà individuale” che il codice penale mette accanto alla riduzione in schiavitù e al traffico di materiale pedopornografico: se fosse stato in grado di non fruire dei servizi di una professionista non ancora abilitata a causa della minore età, i suoi nemici non avrebbero in mano niente, e niente avrebbero i giudici che lo chiamano a rispondere.

Voglio chiudere con una citazione da Quadernino: “Davanti a tutto quello che sta uscendo a proposito del caso pedopornopolitico del momento – davanti agli argomenti della difesa, intendo – una cosa mi colpisce più di ogni altra. In qualsiasi altro governo, coalizione, partito del mondo, per la metà della metà di quello che è uscito – parlo, ripeto, sulla base degli argomenti usati da Silvio Berlusconi e dai suoi difensori, e non solo in questi ultimi giorni, senza bisogno di nient’altro – davanti a tutto questo, dicevo, sarebbero stati innanzi tutto gli esponenti dei suddetti governo, coalizione e partito a costringere il leader a farsi da parte. Lo avrebbero fatto, si capisce, per il bene del paese, ma soprattutto nell’interesse della coalizione e del partito, per salvaguardare l’immagine, la dignità e il futuro dei loro dirigenti. Ecco. Quello che mi colpisce di più nelle vicende di oggi, e che mi sembra più significativo, è proprio la tragica, apparentemente irrimediabile mancanza di tutto questo: partiti, dirigenti, dignità e futuro”.
Bene, si tratta di uno stupore ingenuo (forse retoricamente ingenuo). Cosa si lamenta? Che governo, coalizione e partito ai quali Silvio Berlusconi è a capo siano a lui solidali nell’incidente? Non ho detto solidari, ho detto proprio solidali: saldamente uniti alle sue sorti, l’incidente è pure il loro. Dignità e futuro sono indissolubilmente legati alle sorti personali di chi ha in buona parte contribuito a sfumare i contorni di cosa è servile e cosa no: a sostenere che sia “legittimo usare il proprio corpo per fare carriera” (Corriere della Sera, 13.9.2010) non era un tizio fatto onorevole da Silvio Berlusconi? Nell’esercizio di quanto è legittimo si può commettere un errore, ma perché dovrebbe costare tutto?  

lunedì 17 gennaio 2011

“Questa è la mia vita”


Per convincerla a sposare l’uomo che aveva scelto per lei come marito, un padre diceva alla figlia: “Non saresti un membro degno della nostra famiglia, se tu davvero pensassi di seguire con testardaggine e sventatezza la tua strada irregolare e arbitraria. Noi non siamo nati per quella cosa che con miopia consideriamo la nostra piccola felicità personale, perché non siamo esseri autonomi e indipendenti, ma anelli di una catena”. Il brano è tratto da I Buddenbrook (Thomas Mann, 1901) e documenta in modo assai efficace un dato di riscontro assai comune lungo tutta la storia dell’occidente, almeno fino ai primi decenni del secolo scorso, anche se la scelta del marito da parte della famiglia della sposa, e del padre in primo luogo, rimase un uso che qui e lì si protrasse fino agli anni ’50 e, in casi tutt’altro che sporadici, fino all’altrieri: segno evidente che secoli e secoli di cristianesimo non erano riusciti a far del matrimonio un atto autonomo e indipendente, come di fatto non fu nemmeno in un’Europa dalle profonde e salde radici cristiane, che a chiacchiere – le chiacchiere sentite negli ultimi anni in bocca agli apologeti – sarebbero sempre state a fondamento e a garanzia delle scelte libere e responsabili della persona, almeno nei suoi affari di cuore.
La ragazza aveva avuto l’ardire di dire al padre – riduco alla nuda sostanza – qualcosa del tipo: “Questa è la mia vita”, e il padre le faceva presente un bene superiore: l’integrità della catena, il dovere imposto da una tradizione sulla quale era posto il sigillo del IV comandamento, forma attenuata del diritto di vita e di morte del padre sul figlio.
Ecco, io penso che con questa storia tanto recente alle spalle dovremmo far meno i presuntuosi nei confronti di Muhammad Saleem, il padre di Hina, che oggi sconta una condanna a trent’anni di carcere per aver ammazzato la figlia. “Hina - Questa è la mia vita” è il titolo del libro, da oggi in libreria, che raccoglie l’intervista che l’uomo ha concesso Giammaria Monti e Marco Ventura (Piemme, 2011), e almeno a quanto traspare dalla recensione di Gian Antonio Stella (Corriere della Sera, 17.1.2011) le pagine trasudano un senso di superiorità che è tipico della pescivendola da poco diventata regina. “L’orrore, il sangue, la riprovazione morale, il processo, la condanna, la detenzione, il confronto con gli altri detenuti non hanno spostato di un millimetro la sua visione del mondo, della vita, dei valori”. Un Buddenbook appena un po’ più rozzo, ma pure lui armato delle ragioni del buon padre di famiglia: “Non volevo che mia figlia fosse troppo libera”.

“Andare a casa o dare il culo?”


Li avete sentiti, fino a sabato sera, i dirigenti del Pd? Provate a immaginarli chiamati a un referendum sul seguente quesito: “Andare a casa o dare il culo?”. E ditemi se “dare il culo” non raccoglierebbe assai più del 54%.


Ohi, dite, avete notizia di quella mezzasega di monsignor Fisichella?



(qui)


“Ci scusiamo per la povera qualità del suono”




Ogni occasione è buona, quando si è in fuga dalla deprimente attualità delle cronache italiane, ma quella offerta da Fabristol mi è sembrata davvero ghiotta e gli sono grato per avermi fatto svagare per una mezz’oretta.
Secondo la versione ufficiale, il videoclip di All mine dei Portishead utilizzerebbe lo spezzone di una trasmissione Rai del 1968 nel quale una ragazzina canta una canzone che, grazie alla tecnica della sincronizzazione delle labbra (lipsynch), sembra proprio quella cantata dalla cantante del gruppo (Beth Gibbons), e Fabristol chiede: “Sapete di quale trasmissione si tratta? Chi è quella ragazzina? Ma soprattutto qualcuno sa leggere il suo labiale per capire cosa sta cantando?”.
Bene, io penso che le domande non abbiano ragion d’essere, perché la versione ufficiale è fasulla: ritengo che il video in bianco e nero sia stato girato ad hoc nel 1997 e che la ragazzina sia ripresa nel sillabare proprio il testo di All mine in playback. Me ne fa convinto la scritta in italiano che appare in sovrimpressione intorno alla metà del videoclip (1:49-2:06): “Ci scusiamo per la povera qualità del suono”. Quel font non è mai stato utilizzato dalla Rai e il registro lessicale della frase, che tradotta in inglese è invece di uso corrente (“We apologize for the poor sound quality”), non corrisponde ai canoni linguistici della tv italiana negli anni Sessanta: “povera qualità” è espressione assai improbabile in quel contesto, dove si sarebbe preferito, senza alcun dubbio, “cattiva qualità”, “scadente qualità” o addirittura, con la mania degli eufemismi che a quei tempi erano la cifra del galateo mediatico, “non eccellente qualità”.
Il regista ha voluto strafare. Non si è accontentato di far sillabare la ragazzina con la rimarcata meccanica labiale che gli consentisse di darla in suggestione di artefatto del sapiente postprocessing di un video d’epoca, e ha aggiunto un dettaglio di troppo. Siamo dinnanzi ad uno di quegli sgradevoli eccessi di autocompiacimento che sono la damnatio delle regie che si ispirano ai lavori di David Lynch, e dello stesso David Lynch. Ma su questo mi intratterrò quando dovrò fuggire da altri squallori dell’attualità delle cronache italiane.

   

domenica 16 gennaio 2011

Francamente, questo è troppo


Gli inquirenti hanno chiarito che si è trattato di una banale “lite per motivi di viabilità stradale” e che a mettergli le mani addosso è stato solo un ragazzino di 16 anni, ma a otto giorni dall’accaduto Mario Adinolfi non demorde: insiste nell’atteggiarsi a vittima di un branco, continua a sostenere che si è trattato di un pestaggio e non smette di contestualizzare l’accaduto nel clima di conflittualità politica che affligge il paese.
Ho già affrontato la questione in due occasioni (qui e qui), argomentando sulla piana evidenza dei fatti e sulle tante – troppe – incongruenze che stavano nelle dichiarazioni fatte a caldo da Adinolfi, ma a fronte della sua petulante insistenza nel distorcere la sostanza degli eventi occorre ribadire:

(1) Non è vero che Alessandro Sallusti abbia augurato ad Adinolfi di subire un’aggressione. Nella puntata di Agorà del 21 dicembre il direttore de il Giornale ha testualmente detto: “Vorrei che qualcuno picchiasse lui come hanno picchiato il finanziere e poi ci viene a raccontare se è bello oppure no”. Si trattava del comune espediente retorico di chi invita a mettersi nei panni della vittima prima di minimizzare quanto questa ha dovuto subire.
Adinolfi ha cercato fin da subito di distorcere il senso della frase come fosse un augurio o una minaccia e, dopo la lite nella quale è stato coinvolto l’8 gennaio, ha cercato in modo grossolano e maldestro di attribuire a Sallusti una qualche responsabilità di quanto gli era accaduto. Ha scritto: “Non credo sia stata un’aggressione «politica». Chi mi ha colpito probabilmente neanche sa chi sia Sallusti, né io considero in alcun modo il direttore del Giornale mandante «morale» di questa aggressione”; e ha fatto bene, per evitare di dover rispondere di calunnia, ma ha anche scritto: “Sallusti è stato accontentato”.
Ha scritto: “Non siamo agli Stati Uniti dove sui siti di destra si indicano gli obiettivi, poi arriva il ragazzino pazzo che spara in testa alla deputata”; e ha fatto bene, per evitare di essere sommerso di pernacchie, ma ha aggiunto: “Siamo in un clima simile e se non ce ne rendiamo conto in tempo, poi sarà troppo tardi”.
Se tutto questo è assai meschino, il tentativo di creare un nesso causale tra la puntata di Agorà del 21 dicembre e i fatti dell’8 gennaio è patetico: tre ore prima Blob aveva rimandato in onda la scena.

(2) Non si è trattato dell’attacco di un branco, come Adinolfi si ostina a sostenere (sono stato aggredito da otto persone”) e come ha cercato di farci credere fin da subito (“otto contro uno, per fortuna, ho una mole convincente: sono grosso e so difendermi”), perché è stato colpito da uno solo degli otto ragazzini in motorino nei quali s’è imbattuto quella sera: gli inquirenti non hanno elevato alcuna accusa a carico degli altri sette.
Sulla entità delle lesioni riportate (Adinofi parla di “ecchimosi, edema, ferite lacero-contuse”) c’è un dato che solleva un dubbio che finora non è stato chiarito dall’interessato: “i giorni di prognosi non risulterebbero ancora documentati” (ansa.it), anche se il nostro afferma di aver ricevuto assistenza presso un pronto soccorso, dove è prassi comune allegare la prognosi alla diagnosi e alla terapia. Tutto sommato, però, questo punto è secondario: nessuno mette in dubbio che Adinolfi le abbia prese e non importanza se siano state poche o tante. Tuttavia è singolare che alla storia manchi proprio l’elemento necessario a dare il peso del fatto penale.

(3) Adinolfi continua a dirsi vittima di un’aggressione ad personam: “Qualcuno ha riconosciuto «er ciccione della tv» – ha scritto – e proprio al grido di «ciccione»…”. Ora, non c’è dubbio che sia stato riconosciuto come soggetto obeso e non si fa fatica a credere che per questo possa essere stato fatto oggetto di scherno, ma davvero è stato riconosciuto come personaggio televisivo? Non lo sapremo mai, ma resta il fatto che, a fronte dell’assoluta banalità dell’accaduto, «er ciccione della tv» tenga molto a farci credere che da ignoto pedone smilzo non gli sarebbe capitata analoga disavventura, il che non sta né in cielo né in terra. Pare, infatti, che “Adinolfi [fosse] a piedi e [stesse] attraversando la strada” (ansa.it) in un punto che è a non meno di 60 metri dalle più vicine strisce pedonali. Versione non perfettamente coincidente con quella riferita da Adinolfi (“gli otto occupanti dei mezzi decidono di venire a sbarrarmi il passo mentre camminavo sulla piazzola di circonvallazione Gianicolense all’altezza del civico 390”), che potrebbe averla offerta per occultare il vero motivo all’origine della lite, assai più volgare di un agguato ad personam: lo scambio di improperi tra un pedone che attraversava incautamente la carreggiata e un ragazzino in motorino che sopraggiungendo non riusciva ad arrestare in tempo la sua corsa schivandolo per poco.

E tuttavia Adinolfi insiste e alle legittime perplessità, che sono state sollevate da più parti sulla sua versione dei fatti, risponde risentito: “E il pestaggio continua”. A non credere sulla parola a tutto ciò che dice, e abbiamo visto quanto regga poco, si sarebbe complici morali del branco che l’ha pestato. Francamente, questo è troppo.



Caro Malvino, non riesco a non chiedermi: ma perchè le stanno così tanto a cuore questa vicenda e, più in generale, il vissuto ed il farneticato dell'Adinolfi? Adinolfi mi pare un personaggio sin troppo privo di autorevolezza, fascino, seguito e spessore da potersi meritare un'attenta rilettura critica. Specie, poi, da parte sua. Per rendere l'idea: faccia un po' il confronto tra il numero ed il tenore dei commenti ad un suo generico post su Adinolfi e di quelli ad uno su Nicola Vendola detto Nichi.
Rocco Maggi

Ha ragione, caro Maggi. Cestino il post e prometto di non interessarmi più al coso.

Vota Yin e Yang



Nel logo di Responsabilità Nazionale è evidente la mano dell’agopunturista che si è a lungo abbeverato alle fonti dell’antica filosofia cinese: un T’ai Chi T’u all’amatriciana.



www.futuroeliberta.com


Adriano e Luca Sofri sarebbero gli amministratori del sito di Futuro e libertà, così rivela Lettera 43, che nella cosa intravvede un “conflitto”, che mio parere non c’è. Solo per dirne una, i Sofri potrebbero aver registrato un dominio con quel nominativo per farci chissà cosa – chessò, un portale dedicato al reinserimento sociale di ex detenuti – ritrovandoselo tra le mani inutilizzabile alla notizia della nascita di un partito che aveva scelto proprio quel nome, decidendo così di cederlo ai finiani, per legittimo lucro o simpatica carineria, però continuando a mantenerne l’attribuzione, solo nominalmente, per le lungaggini burocratiche.
Ipotesi deboluccia? Era la prima che riuscivo a immaginare, applicandomi potrei far meglio, ma dovrei sforzarmi. Inutile farlo, basterà attendere le immancabili spiegazioni dei Sofri e/o di Fini a sciogliere la questione fuor da ogni ipotesi, carte alla mano, contro le inevitabili speculazioni dei malevoli (si pensi solo ai titoli di Libero e il Giornale).


sabato 15 gennaio 2011

Incrementavo, io, incrementavo




L’indelebile


[Il 30 novembre, a Orvieto, Luca Seidita si è suicidato lasciando un biglietto sul quale aveva scritto: “Volevo diventare sacerdote. Tutta la mia vita è stata dedicata a questo. Mi è stato negato”. Mi ha molto impressionato il commento del portavoce della Santa Sede che, interrogato sul rifiuto opposto al giovane, ha detto: “Si tratta di un sacramento e la Santa Sede non può dare spiegazioni sul perché venga dato o non dato. Noi non diciamo niente e non abbiamo niente da dire”. In quei giorni stavo leggendo Preti di Vittorino Andreoli (Piemme, 2009), che fin lì mi era sembrato un libro interessante: di fronte alle parole di padre Federico Lombardi, quelle pagine mi sono sembrate subito insulse. E mi era venuta voglia di affrontare il nodo tra una vita “dedicata a questo” e tutto l’indicibile che sta nel sacramento. Non sono andato oltre la premessa al problema, quella che segue.]


In seminario accadono cose che noi laici non possiamo neanche immaginare, ma qui proviamo. Cominceremo con l’escludere ciò che possiamo immaginare, e che sarebbe bassa retorica affermare di non poter immaginare, che poi è patologia di ogni comunità composta da reclute e addestratori, niente di diverso da quanto accade in caserma. Ci concentreremo su ciò che trasforma la mente di un umano nella mente di un chierico, e qui suppongo che nessuno vorrà smentire che la mente di un qualsiasi chierico ha per evidenza e statuto una peculiarità che la distingue dalla mente di un qualsiasi laico: il chierico ha un’autocoscienza di alter Christus. Obietterete che questa differenza non è poi così peculiare, perché ci sono laici che si credono addirittura padreterni, ma anche questa sarà bassa retorica, perché nel laico questo non avviene lungo quella progressione dinastica (dynasteia), detta apostolica, che assicura l’intatta trasmissione di quel potere (dynasis) che un chierico dovrebbe avere su un laico secondo dottrina (cattolica) e regola (ecclesiastica). Ciò che è inimmaginabile a un laico, anche a un laico credente e devoto, è tale perché fuori dalla progressione verso il diventare e il potersi infine dire alter Christus (dynamai) – senza essere il tramite stesso della trasformazione, voglio dire – nessuno è in grado di poter realizzare un’immagine attendibile di un’autocoscienza di chierico, che poi – a chiudere il cerchio – è ciò che lo fa sentire “in persona di Cristo Capo” (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1548-1551).
In seminario accadono cose che noi laici non possiamo neanche immaginare, ma psicologi e sociologi ci hanno provato. Con scarsi risultati, e abbiamo detto perché. Non hanno fatto meglio – e come avrebbero potuto? – psicologi e sociologi che erano anche chierici. Hanno studiato epifenomeni, ma la fenomenologia del chierico rimane impenetrabile, salvo a penetrarla però senza più poterne dir niente che non sia ontologia: sono in persona di Cristo Capo, sul laico ho munus docendi e numus regendi (ibidem, 1592), sono cellula di un intellettuale collettivo guidato dallo Spirito Santo, ecc. In realtà – e su questo possiamo convenire, sia cattolici che no – la natura psicologica e quella sociologica della condizione di chierico non spiegano del tutto – non esauriscono – la convinzione che fonda il suo ministero. Egli stesso, in ultima analisi, non può: sa della sua vocazione, sa quello che gli hanno insegnato altri chierici, sa della sua ordinazione, ma ciò che in lui è indelebile in quanto chierico (ibidem, 1582), e che non gli permetterà mai più di dirsi laico (ibidem, 1583) – cos’è? Da fuori non potremo mai capirlo veramente, da dentro non potrà mai spiegarselo pienamente. L’indelebile è ciò che hanno fatto alla sua mente in seminario: processo che non è solo formativo, ma trasformativo.

giovedì 13 gennaio 2011

[...]



Non farà mai un giorno di galera, non sarà mai costretto a scappare all’estero, morirà nel suo letto, per cause naturali, e dopo morto vivrà ancora a lungo nelle conseguenze di tutto ciò che ha detto e fatto. I suoi nemici potranno solo vantare di avergli fatto passare una giornata di merda, ogni tanto, ma poi nemmeno tanto.

Giacché


Giacché sono fra quelli che hanno messo due soldi nell’impresa e ci sono dentro pure con una rubrichina quotidiana, ho pieno diritto – mi pare – di segnalare all’internauta disattento che Giornalettismo ha scavalcato Piovono rane nella classifica di BlogBabel e guarda minacciosamente il culo di Beppe Grillo.


Moderiamo i termini


Cristianofobia è termine al quale Benedetto XVI pare assai affezionato, ma che è tanto improprio a definire ciò che arma la mano di chi ammazza i cristiani da far pensare che Sua Santità voglia confonderci.
Se -fobia vuol dire fifa, infatti, quella è dei cristiani. E a buon motivo, perché chi è fatto oggetto di minaccia è fisiologico l’abbia. Sono i musulmani a metter fifa ai cristiani, in questo caso, e dunque l’unica -fobia che può aver senso in un tale contesto sarebbe un’eventuale islamofobia dei cristiani.
Se poi -fobia sta a indicare qualcosa di patologico (“paura angosciosa per lo più immotivata” – Devoto-Oli), e usando cristianofobia si vuole fare intendere che ad armare la mano contro i cristiani sia solo follia, mossa dalla malata percezione che essi costituiscano una minaccia per il mondo islamico, beh, questo è un poco disonesto.

La Chiesa, infatti, ama definirsi casta meretrix, paragonandosi a Raab, la puttana di Gerico che offrì protezione e complicità alle spie di Giosuè per far cadere la città: anche quando indigeni, i cristiani hanno sempre un’altra patria da servire e neanche lo considerano un tradimento, proprio come Raab, che Paolo cita come esempio di vera fede.
Dal canto loro, i musulmani nutrono un attaccamento morboso a Gerico, pardon, volevo dire alla propria società, un attaccamento che fonde fede, sangue e terra in un solo feticcio: tutta immotivata la loro percezione dei cristiani come nemici in casa? Chi coniò la sprezzante espressione in partibus infidelium, che ha implicito il disprezzo per la fede musulmana, per indicare la sua presenza missionaria nelle terre dell’islam?


“Il forcipe per aprire lo scrigno del mondo islamico”



Se dobbiamo prestar fede a Eusebio di Cesarea, sotto l’impero di Diocleziano vissero e morirono cristiani che avevano un’idea di vita e un’idea di morte assai diverse da quelle che hanno i cristiani d’oggi: la fede li rendeva tanto forti da non dar troppo conto alla vita e anzi li spingeva ad affrontare la tortura e la morte “con contentezza, gioia e ilarità, innalzando canti di ringraziamento a Dio” (Historia ecclesiastica, VIII, 9, 5). Qui, sarà che la fede non è più quella giovane di due soli secoli, ma è quella decrepita di ormai già due millenni, si piange, si urla, si strepita. Non solo: si lanciano appelli, diplomazie si attivano, s’invocano arbitrati internazionali, si arriva addirittura a chiedere un Christian Rights Watch (Il Foglio, 12.1.2011). Dev’essere un indicatore dell’energia di un credo: “pur ormai all’ultimo respiro”, scrive Eusebio, i cristiani non si lamentavano; qui, invece, per la penna che non sappiamo neanche se di un Crippa, di un Meotti o di un Rodari, si sollecita la creazione di un’agenzia sovranazionale, con tanto di uffici, fax e segretarie.
Il nome, poi. Manco in latino. Christian Rights Watch: puzza di peplum girato a Cinecittà e doppiato in un americano dal forte accento texano.

È il sintomo di un irreversibile infiacchimento della fede cristiana, non ci sono dubbi, e tutto sta nel fatto che l’aldilà ha perso ogni attrazione: al pastore preme porre l’attenzione a un vademecum morale, a una ricetta di vita, a un manifesto culturale e politico, a una presenza che si traduca in rilevanza; e al gregge preme un’esistenza decente, serena, fatta di care vecchie abitudini, scandite al ritmo dei sacramenti, come i non credenti le scandiscono al ritmo degli aperitivi.
Dove li trovi più, i bei martiri di una volta? E quale papa potrebbe esortare i suoi ad affrontare il martirio con contentezza, gioia e ilarità? Qui, nella migliore delle ipotesi, ce n’è uno che dalle comode stanze del Palazzo Apostolico incoraggia a stringere i denti e a non mollare, perché la geopolitica vaticana prevede qualche sacrificio umano che la Santa Sede si sforza come può di limitare al minimo, il tanto che procuri un santo, di tanto in tanto, e un po’ di Ratisbona, un po’ di Assisi, un Pizzaballa qui, un Padovese lì, il signor nunzio in trattativa, prefiche a supporto.
In tal senso, un Christian Rights Watch non è idea malvagia. In fondo, di che parliamo? Di libertà religiosa e di democrazia, perché “la libertà religiosa, assieme alla democrazia, è il forcipe per aprire lo scrigno del mondo islamico”, queste sarebbero le intenzioni. Aprire uno scrigno con un forcipe: immagine eloquente, vero? Quasi quanto quella di un musulmano che ti apre il cranio con un candelabro, direi.