mercoledì 21 dicembre 2011

Le conseguenze dell’amore

“In quei momenti non hai molto tempo per riflettere,
prendi una decisione in una frazione di secondo,
e non stai a pensare che le conseguenze di quella scelta
te le porterai appresso tutta la vita. In casa scese il silenzio.
Dal pronto soccorso fu trasferito, intubato, in rianimazione.
Io andai in ospedale all’alba, non sapendo che cosa sperare.
Appena arrivata l’infermiera mi disse che Piero si era svegliato
e il mio primo pensiero fu: «Oddio, chissà adesso che cosa mi dirà.
Non ho rispettato il nostro patto, sarà arrabbiato»”
Mina Welby, MicroMega (II/2009)

“Per quello che riguarda il funerale religioso, Piero mi ha detto:
«Dopo la mia morte potete fare quello che vi pare».
Quindi, anche per la famiglia, che sicuramente dà un valore
alla forma religiosa, vogliamo fare un funerale religioso”
Mina Welby, Conferenza stampa (22.12.2006)

Piergiorgio Welby fu tracheotomizzato, intubato e attaccato a una macchina in nome di quell’amore che vanta la pretesa di poter decidere per chi si ama, oltre la volontà di chi si ama o addirittura contro. Si spese per le conseguenze di questo amore, che in Italia inizia ad asfissiarti da neonato, quando ti battezzano profittando della tua incoscienza, e che non smette di asfissiarti dopo morto, quando decidono di farti un funerale religioso anche se non sei credente, dopo averti dolcemente estorto un matrimonio in chiesa, perché lei è cattolica e ci tiene tanto, o ci tengono tanto i tuoi, o i suoi, o entrambi. «Dopo la mia morte potete fare quello che vi pare», tanto lo avete fatto anche quando ero vivo.

lunedì 19 dicembre 2011

Chinarsi dinanzi alla sentenza

Anche quando si tratta del massimo previsto dalla legge, la pena comminata per un omicidio – non ha importanza se doloso, colposo o preterintenzionale – è considerata quasi sempre troppo mite dai parenti delle vittime, e questo è naturale, tutt’al più può porsi la questione del perché la legge non riesca mai ad adeguare le sanzioni alle aspettative di chi chiede giustizia per la perdita di un padre, di un figlio, di un fratello. Sono esagerate queste aspettative o è il legislatore che non riesce mai a mettersi nei panni di chi ha subìto la perdita?
Forse la questione è posta male, lo dimostra il fatto che la pena – la stessa pena – è invece considerata quasi sempre troppo severa dai parenti di chi è condannato per quello stesso omicidio. Probabilmente al legislatore tocca rimanere nei propri panni, e in quelli decidere; al giudice, caso per caso, tocca stabilire quale sia la pena giusta tra il minimo e il massimo stabiliti dalla legge; ai parenti della vittima e a quelli dell’omicida tocca chinarsi dinanzi alla sentenza. Facile a dirsi, più difficile a ottenersi. Lo dimostra il caso che di recente ha visto per protagonista Giovanni Scattone, riconosciuto colpevole dell’omicidio di Marta Russo con una sentenza definitiva.
Non ha troppa importanza ricostruire nel dettaglio la vicenda e le tappe giudiziarie che hanno portato Scattone a scontare una pena di sei anni di detenzione per omicidio colposo (il massimo della pena per tale reato è di sette), basti dire che nessun pm si è mai azzardato a formulare un’ipotesi accusatoria più grave. Potremmo eventualmente aggiungere che, a detta di molti osservatori non a digiuno di materia penale, a carico dell’imputato fossero più gli indizi che le prove, e che Scattone si è sempre dichiarato innocente del reato chi cui era accusato e per il quale è stato poi condannato, ma si tratta di considerazioni tutto sommato irrilevanti: abbiamo il dovere di tener conto unicamente della verità processuale e di ritenerla coincidente con quella storica, prendere atto che Scattone è stato riconosciuto colpevole, ma anche di tener conto che ha scontato la pena ed è tornato un libero cittadino, nella pienezza dei suoi diritti.
Parimenti irrilevanti, dunque, dobbiamo ritenere le lamentele, anche abbastanza vivaci, che sono state prontamente raccolte e rilanciate dai media in seguito a un incarico di supplenza concesso a Scattone, oggi insegnante di scuola media superiore, presso il liceo frequentato a suo tempo da Marta Russo. Basti solo riportare le ragioni che le hanno sollevate, così come motivate dal rappresentante di un movimento giovanile di estrema destra che si è distinto tra i più attivi sostenitori della protesta: “Secondo noi lui ha diritto di lavorare perché comunque ha scontato la pena e ha pagato il suo debito con la giustizia, quello che troviamo aberrante è che venga proposto come modello di educatore una persona che ha sparato nel mucchio di alcuni studenti universitari per provare una pistola”. Posizione in tutto coincidente a quella di Tiziana Russo, sorella della vittima: “Ognuno ha diritto di ricostruirsi una vita, ma ritengo che un uomo che ha afferrato una pistola, ci ha giocato, l’ha puntata sul vialetto di un’università piena di gente e ha poi ucciso una studentessa non può insegnare a dei ragazzi. Può fare altri lavori, non il professore di un liceo”.
Se è irrilevante che Scattone si sia sempre dichiarato innocente e che l’accusa non abbia mai prodotto elementi di prova certa, sono irrilevanti anche queste proteste: se ci tocca accettare la sentenza e la verità che in essa è contenuta, ci tocca anche il rispetto del dispositivo che restituisce al condannato i suoi pieni diritti dopo che ha scontato la pena. Ovviamente non possiamo pretendere che Tiziana Russo taccia, ma, ad evitare che la sua protesta corra il rischio di essere fraintesa come un’odiosa pretesa di pena suppletiva, sarebbe più proficuo che ella si spendesse perché ciò che chiede diventi legge dello Stato in ogni caso analogo al suo. Non ci risulta che l’abbia mai fatto prima che a Scattone fosse dato l’incarico presso il liceo frequentato dalla sorella, epppure questi ha insegnato in almeno altri dieci istituti romani dopo essere uscito dal carcere.

venerdì 16 dicembre 2011

13.4.1949 - 15.12.2011



“What can be asserted without proof
can be dismissed without proof”



mercoledì 14 dicembre 2011

martedì 13 dicembre 2011

Volendo

«La literatura no habla de la realidad, habla de la
literatura: y no se puede fingir que esto no se sabe»

Due pagine dell’ultimo numero della Domenica de Il Sole-24 Ore sono dedicate alle confessioni di «scrittori, attori, politici [che] raccontano il gesto di cui più si vergognano, anche dopo molti anni», e che finiranno in un volume a cura di Augusto Bianchi Rizzi, edito da Tropea, dal titolo Il Bene e il Male, nel quale troveranno spazio anche gli «inconfessabili misfatti» dei lettori, invitati a partecipare.
Senza entrare nel merito dei contributi pubblicati dal giornale – dico solo che sembravano un campo di mammole – l’iniziativa mi pare balorda fin nella premessa, perché il misfatto davvero inconfessabile è appunto davvero inconfessabile: ciò che si confessa è per lo più la confettura letteraria dell’inconfessabile, per giunta questo accade solo quando ciò che si confessa abbia realmente attinenza al gesto del quale maggiormente ci si vergogna, perché spesso quello non è neanche sfiorato, se non è addirittura irrecuperabile, perché rimosso. Al contrario, ciò di cui più ci si vergogna può avere sì stretta attinenza al misfatto che si confessa, ma non esserne affatto la conseguenza… Ma forse sarà meglio che mi spieghi con un esempio.
Quando ho saputo che a *** restava poco da vivere perché un cancro gli aveva mangiato il fegato e disseminato metastasi dappertutto, non ho saputo fare a meno di telefonargli. Quando ha sentito la mia voce, ha detto: “Che piacere sentirti”. Io gli ho risposto: “A me, invece, fa piacere sapere che stai morendo, e fartelo sapere”, e ho riattaccato.
Non starò qui a spiegare perché lo odiassi tanto, mi pare irrilevante, siete autorizzati a immaginarvi quello che volete. Dico solo che il gesto di cui più mi vergogno non è quella telefonata, per la semplice ragione che in realtà non c’è mai stata: mi vergogno di aver desiderato farla, di non esserci riuscito, ma di averne spesso fatta una confessione, mentendo, quando c’era da confessare l’inconfessabile.
Siamo complicati, via, difficilmente siamo davvero cattivi. E non per bontà, ma proprio per mancanza di cattiveria. Volendo, possiamo vergognarci di questo.

Le pentite

La cronaca ci ha offerto di recente due storie che in apparenza avevano in comune il solo fatto che le protagoniste fossero ragazze minorenni. La prima, incinta, si è infine convinta fosse meglio abortire, ma solo dopo avere per un po’ insistito nel voler portare avanti la gravidanza contro il parere dei genitori, che la ritenevano immatura per diventare madre e si erano rivolti a un giudice per costringerla a piegarsi al loro consiglio, ignari che in casi come questi è indispensabile la volontà della gravida, anche se minore. La seconda, dopo aver perso la verginità, è stata presa dalla paura di doverne dar conto ai propri genitori, ai quali aveva promesso di mantenersi illibata fino all’altare, e ha pensato bene di inventarsi uno stupro di gruppo, per poi confessare di aver mentito, raccontando com’erano davvero andate le cose.
Da questa breve sintesi delle due vicende ho volutamente tenuto fuori l’elemento che pure si è voluto intravvedere come comune a entrambi i casi, e sul quale si è maggiormente discusso, e cioè quello della xenofobia: nel primo caso, infatti, la ragazza era rimasta incinta di un ragazzo albanese e si è detto che in realtà questa fosse la vera ragione che muoveva i suoi genitori a chiederle di abortire; nel secondo caso, invece, la ragazza ha mosso la falsa accusa di stupro ad alcuni esponenti di una comunità di nomadi, provocando come reazione di solidarietà in suo favore una spedizione punitiva al loro accampamento.
In entrambi i casi sembra aver vinto ancora una volta il pregiudizio xenofobico, ma non possiamo averne prova certa. Non sappiamo, infatti, se l’aborto ci sarebbe stato comunque, chiunque fosse stato a ingravidare la ragazza. Né sappiamo se una spedizione punitiva avrebbe comunque preso di mira la comunità di appartenenza dei presunti stupratori, indipendentemente dall’etnia. Direi che l’elemento xenofobico può aver avuto rilevanza, ma solo nel potenziarne un altro, che mi pare sia in entrambi i casi quello che ha dato impronta e senso agli eventi. Parlo del dovere che famiglia e società si danno nel decidere per il meglio della sessualità e della riproduttività di una donna, quando è minore, ma non solo, perché il corpo della donna non appartiene mai del tutto alla donna, ma è sempre, in qualche misura, un bene comune, alla difesa del quale è chiamato chiunque se ne dichiari responsabile, oltre ad esserlo, quando realmente lo è, per legge.
In entrambi i casi si trattava di ragazze minorenni, in entrambi i casi i genitori avevano pieno diritto di dirsi responsabili delle figlie, in entrambi i casi la loro responsabilità prendeva diritto sul loro futuro di donne maggiorenni, in entrambi i casi le figlie hanno dapprima rifiutato e poi accettato quanto era stato deciso per loro. Piegandosi ad abortire, nel primo caso, e cercando di negare la propria responsabilità nella decisione di perdere la verginità, nel secondo, siamo dinanzi alla stessa resipiscenza: siamo dinanzi a due donne che, sebbene minorenni, potevano rivendicare il diritto di autodeterminazione, ma si sono limitate a rifiutare il ruolo che per loro era stato deciso come migliore, per poi farlo proprio. Per entrambe è possibile pentirsi anche di questo, ancora una volta. L’unica cosa che non è mai negata a una donna è il pentimento.

lunedì 12 dicembre 2011

[...]

Dopo il forte richiamo di Benedetto XVI ad una “economia solidale”, oggi, già immagino la folla di quanti si recheranno allo Ior, domani, per chiedere il mutuo che è stato negato loro da tante altre banche. Ci vorranno le guardie svizzere per evitare la calca. 

Disse la vacca al mulo

«Cacciato con l’editto di Sofia, “Il Fatto” di Enzo Biagi venne sostituito con una striscia satirica a cura di Massimo Lopez e Tullio Solenghi, si chiamava “Max & Tux”. I due andarono in onda per 38 puntate nel 2002, poi furono chiusi per ascolti indecenti: media del 20,6 per cento di share e 5,676 milioni di telespettatori. Vediamo il confronto impietoso con Ferrara. Il direttore del Foglio ha chiuso le prime 46 puntate fra marzo e maggio con il 18,21% di share e 4,714 milioni di telespettatori, adesso registra una media del 15,45% di share e 4 milioni di telespettatori. Facciamo una piccola sottrazione, ed ecco che si scopre il fallimento: “Qui Radio Londra” va peggio di “Max & Tux” di 5 punti di share e segna -1,6 milioni di italiani»
Il Fatto Quotidiano, 8.10.2011

«Ho saputo che Santoro è passato dal 12 al 5 per cento degli ascolti, che è sempre un risultato di spicco in un sistema di trasmissione alternativo, ma insomma siamo in discesa»
Il Foglio, 12.12.2011

C’è modo e modo di mistificare



C’è modo e modo di mistificare, qualcuno è addirittura affascinante, ma ce n’è uno che è particolarmente squallido, ed è quello che ci è offerto in esempio da Marina Valensise (Il Foglio, 10.12.2011) e da Alessandro Zaccuri (Avvenire, 11.12.2011), riguardo Jacques Lacan.
«Era ateo – scrisse Élisabeth Roudinesco nella sua biografia, pubblicata in Francia nel 1993 da Libraire Arthème Fayard e in Italia nel 1995 da Raffaello Cortina Editore – anche se, per spacconeria, un giorno aveva sognato un funerale cattolico in grande stile» (pagg. 437-438). L’affermazione non fu contestata dalla figlia dello psicoanalista, che pure avrebbe potuto risentirsene perché si dava dello spaccone al padre e che invece oggi ne contesta un’altra della stessa Roudinesco, contenuta in un suo volume di recente pubblicazione: «Sebbene avesse espresso il desiderio di finire i suoi giorni in Italia, a Roma o a Venezia, e avesse auspicato dei funerali cattolici, Lacan fu sepolto senza cerimonia e nell’intimità al cimitero di Guitrancourt» (Lacan, envers et contre tout – Editions du Soleil, 2011). «Papà – dice Judith Lacan – è stato sepolto secondo le sue volontà», e porta la Roudinesco in tribunale.
Che Lacan non fosse credente è fuori discussione per la figlia e per la biografa, che concordano sul fatto che l’interesse occasionalmente mostrato dallo psicoanalista per i topoi della tradizione cristiana fosse di là da ogni approccio fideistico, più o meno analogo a quello mostrato da Carl Gustav Jung per quelli della mitologia pagana: la questione sta tutta nel capire se le volontà di Lacan siano state rispettate o meno, se Lacan sia stato sepolto dove desiderava.
«Mio padre – dice Judith Lacan – aveva perso la fede a diciassette anni e non ha mai cambiato atteggiamento». Dal canto suo, la Roudinesco dice che, a trent’anni dalla sua morte, quella di Lacan è da considerare come «une aventure intellectuelle qui tint une place importante dans notre modernité, et dont l’héritage reste fécond quoi qu’on en dise : liberté de parole et de moeurs, essor de toutes les émancipations - les femmes, les minorités, les homosexuels -, espoir de changer la vie, la famille, la folie, l’école, le désir, refus de la norme, plaisir de la transgression. Suscitant la jalousie des clercs qui ne cessent de l’insulter, Lacan se situa pourtant à contre-courant de ces espérances, tel un libertin lucide et désabusé».
Stanti così le cose, che senso ha riprendere il contenzioso sorto tra Judith Lacan ed Élisabeth Roudinesco per scrivere: «Altro che primato della psicoanalisi: il guru francese dell’inconscio rivalutò Cristo e l’incarnazione», e sotto un titolo che recita: «La religione di Lacan» (Marina Valensise)? Che senso ha scrivere che «in Francia fa discutere la possibile conversione del pensatore dei Seminari» sicché «temi come l’“Altro” e il “reale” assumono nuova consistenza teologica» (Alessandro Zaccuri)? In un così sfacciato esercizio di stravolgimento dei fatti non è riconoscibile altro movente che la mistificazione, per l’ennesimo tentativo di conversione post mortem. Ho detto squallido, ma mi correggo: direi schifoso.  

domenica 11 dicembre 2011

Un tecnodemocristiano

“Peggio di Berlusconi, nessuno? Peggio del berlusconismo, niente? Posso essere d’accordodicevoperò abbiate il senso delle proporzioni e non cadete nell’errore di pensare che Monti sia migliore di quello che è”. Lo dicevo il 21 novembre, quando non erano ancora noti i punti della finanziaria di questo governo cosiddetto tecnico, voluto da quasi tutti, da quasi tutti salutato come la migliore soluzione per uscire dal marasma, non importa se un pochino di qua o un pochino di là dal dettato costituzionale. In fondo, Monti tornava comodo pure a Bossi e a Di Pietro.
Un figlio nato da pochi giorni mi sollevava dall’onere dell’interminabile pippone nel quale solitamente mi attorciglio quando devo argomentare una tesi impopolare, e in quel momento  sembra una vita fa, ma sono passate solo due o tre settimane – Monti sembrava un eroe venuto a liberarci da una odiosa dittatura: sollevare dubbi sulla sua persona, e dunque su quanto era ragionevole aspettarsi da un governo a sua guida, sarebbe stato imperdonabile.
È che a me Monti non è mai piaciuto, diffido delle larghissime intese necessitate da pulsioni emergenziali, sono contrario per principio ai governi cosiddetti tecnici e mi era bastato un niente Ornaghi e Riccardi nella lista dei ministri per convincermi che il rimedio trovato allinterminabile agonia della XVI legislatura fosse nientaltro che il tenerla in vita artificialmente, per fare una riforma delle pensioni che il governo Berlusconi non avrebbe mai potuto fare per il veto della Lega, né avrebbe mai potuto fare un governo della XVII legislatura, se di centrosinistra, salvo rimangiarsi le promesse agli elettori o l’istantanea perdita di pezzi della Santa Alleanza antiberlusconiana.
Quello che ci chiedeva l’Europa era ragionevole: adeguare il sistema pensionistico alla aumentata aspettativa di vita media. E tuttavia non bastava una riforma delle pensioni, perché solo il 25% del deficit è imputabile a quelle. Si doveva mirare sul serio al pareggio di bilancio, ridurre la spesa nel pubblico, privatizzare il possibile, liberalizzare le professioni. E poi c’era da stimolare la famosa crescita, e poi tutto doveva essere fatto in nome della famosa equità.
Non poteva farlo alcun governo politico, né di centrodestra, né di centrosinistra, perché alla politica italiana, in ormai cronica crisi di leadership, da tempo non restava che la followship di questo o quel pezzo di società italiana. Strategie alla giornata per tutti, navigazione a vista nella nebbia di previsioni tutte fosche, una bussola ormai impazzita per i troppi fulmini caduti sull’Europa, impossibile toccare i privilegi dei notai o dei tassisti, dei preti e dei deputati. Ci voleva un governo cosiddetto tecnico, ma per constatare che non ne era capace. Non era un eroe, il Monti, era un tecnodemocristiano. 

sabato 10 dicembre 2011

giovedì 8 dicembre 2011

E nessuno ci vedrà conflitto d’interessi

A un’Italia che è soffocata dal debito pubblico, stremata dalla crisi economica, dissanguata dai tagli alla spesa sociale, massacrata dalle tasse, la Chiesa costa più di 6 miliardi di euro ogni anno, anzi, secondo l’analisi più accurata, dettagliata e aggiornata che abbiamo a disposizione (qui), ne costa 6.086.565.703. Roba che va ai poveri, si dice, ma basta scorrere le voci di entrata per capire che non è così: ai poveri va solo il 20% dell’8xmille (la Cei rendeva noto qualche mese fa che, dei 1.067.032.535 euro incassati nel 2010, 450.000.000 erano destinati alle esigenze di culto, 357.000.000 al sostentamento del clero, 30.000 venivano accantonati e solo 230.000.000 spesi in “interventi caritativi”), in pratica meno del 4% degli oltre 6 miliardi complessivi, due soldi spesi per riempire un pentolone di minestra dal quale la Chiesa versa due mestoli di carità, pretendendo che le valgano una buona reputazione. Checché Mario Tarquini starnazzi e ristarnazzi dalla prima pagina di Avvenire, questo è il “non profit” al quale lo Stato dovrebbe un occhio di riguardo. Può risparmiarsi tutto quel “qua-qua”, questo governo non toglierà un centesimo alla Chiesa. E nessuno ci vedrà conflitto d’interessi, perché non è possibile provare che, se non avessero leccato il culo ai preti per una vita intera, Ornaghi e Riccardi non sarebbero ministri

mercoledì 7 dicembre 2011

Eppure un crocifisso




Un’idea del perché non manchi mai un crocifisso nel covo di un boss, io ce l’ho, ma quale sia non ha importanza, rinuncio a esprimerla, anzi, vorrei far mia la spiegazione, anche la meno convincente, di un chierico autorevole, un Fisichella o un Ravasi, oppure, in loro vece, di un vibratile Rondoni, di un ardente Socci, di un sottilissimo Pera, uno di quelli, insomma, che a un crocifisso appeso su un muro sono sempre capaci di dare il giusto significato, quasi sempre con grande generosità di aggettivi e avverbi. Il fatto è che, in occasioni come queste, non vola mai una mosca. Eppure un crocifisso sempre un crocifisso è, o no?

Carissimo

Quando non è pagato in nero (solitamente nella misura del 30-50%, come emerge dai casi che arrivano all’attenzione della Guardia di Finanza), in Italia il costo del fitto di un immobile ad uso abitativo è in media più alto che nel resto d’Europa di un 15-25%. Sarà che, a parità di categoria, le case italiane sono tutte più belle di quelle europee o che in Italia il mercato delle case in affitto è drogato, ma 50 metri quadrati al centro di Roma, di Venezia o di Milano costano al mese almeno il doppio di quanto costano al centro di Berlino, di Amsterdam o Madrid, il 60-80% in più di quanto costano al centro di Parigi, il 15-30% in più di quanto costano nei migliori quartieri di Londra, e la proporzione si mantiene tale anche quando l’immobile non è ubicato in zone centrali, ma in centri con più bassa densità abitativa o in provincia. Fitti più alti che in Italia li troviamo solo fuori dalla Comunità europea (Tokio, Singapore, Montecarlo, ecc.).
La ragione sta nel fatto che l’edilizia pubblica non ha mai avuto in Italia uno sviluppo analogo a quelli di altri paesi europei, dove gli immobili di proprietà pubblica dati in affitto a privati sono il doppio (Olanda e Francia) o addirittura il triplo (Germania e Spagna) di quel 18,9% che in Italia abbiamo sul totale. Il 74% degli italiani vive in case di proprietà e ogni 100 nuclei familiari abbiamo 136 case. La corsa alla casa di proprietà è stata, insieme, causa ed effetto delle scarse energie impegnate nell’edilizia pubblica rispetto agli paesi europei, da sempre, fino al sostanziale disimpegno, dagli anni ’80 ad oggi. D’altro canto, col vertiginoso aumento del prezzo di un affitto, diventava conveniente l’acquisto di una casa con l’accensione di un mutuo: quante volte abbiamo sentito dire “con quello che pago di affitto accendo un mutuo e almeno mi ritrovo una casa di proprietà”? Calcolo ragionevole, se non fosse che la rata mensile di un mutuo è in media del 30-80% più alta del costo dell’affitto di un immobile di pari qualità, e impegna per alcuni decenni.
Non è iniziato negli ultimi decenni, ma col fascismo. Già nell’Italia post-giolittiana si era avuto un decisivo indebolimento del credito fondiario in favore del credito immobiliare urbano, grazie alla massiccio inurbamento avutosi dopo la Prima guerra mondiale. Da gran calmieratore delle tensioni che sarebbero state inevitabili nello snodarsi di tale processo, il fascismo si fece attivo propugnatore dell’ideale di una casa di proprietà come bene vitale per la famiglia, oltre che di enorme vantaggio per la società come garanzia di stabilità dei modelli di relazione: le sanguinose lotte popolari per la casa diventarono presto un ricordo del passato creando un circolo virtuoso tra impresa edile, banca e privato, col passaggio dall’affitto alla vendita tramite mutuo. È il modello che sarà adottato in pieno nel secondo dopoguerra, con l’azione dei governi a guida democristiana che sosterranno il blocco di potere bancario-assicurativo e immobiliare-edilizio per costruire l’archetipo del cittadino ed elettore proprietario della casa in cui vive, come più solida garanzia di uno stabile assetto culturale e politico attorno ai valori della conservazione. La casa di proprietà diventava possibile, ma al costo di un adeguamento all’unico standard di vita che la rendeva tale e che imponeva pure un certo modo di concepire la famiglia e le relazioni tra generazioni, il lavoro e il profitto, il credito e il debito. In altri termini, la casa diventava un bene accessibile praticamente a tutti, ma a patto di starci dentro da fedeli esecutori di un mandato culturale e politico.
La casa di proprietà, che prima del fascismo era prerogativa dell’11% degli italiani, lo divenne nella misura del 26% del 1938, del 40% del 1960, del 50% del 1970, fino all’odierno 74%. Quando Silvio Berlusconi vantava la solidità del nostro sistema citando appunto questo famoso 74% di possessori di case, dimenticava di dire che oltre il 90% di essi ha più di 50 anni, che in oltre il 20% dei casi si tratta di abitazioni sulle quali è ancora acceso un mutuo, che più del 65% dei casi si tratta di abitazioni più vecchie di 40 anni. Un valore complessivo che per il solo settore residenziale ammonta al 400% del Pil, ma che per un quarto è in mano al solo 10% dei proprietari. Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di abitazioni dal valore sovrastimato per un mercato che da tempo ha perso ogni regola, basti pensare al fatto la grandezza media di una casa è di 62 metri quadrati (52 in città, poco meno di 80 fuori dalle aree urbane a più alta densità), con un prezzo medio di oltre 180.000 euro. Difficile dire di cosa sia ricco, in media, chi abita una casa di proprietà rispetto a chi potrebbe abitarne una in affitto, se la corsa alla casa di proprietà non avesse fatto impazzire anche il mercato dei fitti. Di certo c’è solo che la rincorsa al modello della casa di proprietà ha portato una gran parte degli italiani alla dipendenza dal blocco di potere bancario, con quanto ne deriva sul piano del condizionamento della vita economica, sociale e politica. Né si può dire che tale modello sia mai stato in grado di metterci al riparo dalle emergenze in ambito abitativo, soprattutto da quando l’opzione del tasso variabile ha cominciato a illudere i più sprovveduti. “Con quello che pago di mutuo e di tasse sul possesso non mi converrebbe abitare in affitto?”: non lo sentiamo dire, perché la casa di proprietà è diventata un bene che va al di là del suo valore, ma soprattutto perché i fitti rimangono alti ed è difficile possano scendere. E tuttavia, facendo uno sforzo per liberarci dal luogo comune che traslocare è un po’ morire, sarebbe poi tanto più povera un’Italia nella quale i possessori di case fossero solo il 55% come in Germania o il 40% come nel Regno Unito? Lasciate stare, non provate a liberarvi del luogo comune: continuate a fare una vita di stenti per poter avere 50 metri quadrati tutti vostri. Ma non lamentatevi se chi fa una manovra finanziaria basata più sulla tassazione che sui tagli debba giocoforza reintrodurre l’Ici sulla prima casa: volevate una patrimoniale, era indispensabile, e questa è una patrimoniale. D’altra parte, lo sappiamo, detassare la prima casa era cosa possibile solo nel lucido delirio di un demagogo.
L’abolizione dell’Ici sulla prima casa, infatti, è il più illuminante esempio di cosa sia stato il populismo berlusconiano, perché ne condensa i fini e i mezzi meglio di ogni altra sua espressione. Con l’abolizione dell’Ici sulla prima casa, Silvio Berlusconi è arrivato alla pancia di quel 74% di italiani che vivono in una casa di proprietà, per dir loro che quel bene diventava formalmente intangibile, inviolabile, sacro, sicuro di trovare pieno consenso, anche quando non dichiarato: un’operazione della quale ha scaricato gli oneri sui Comuni e quindi sugli stessi contribuenti che sulla carta venivano a godere della detassazione, ma incassando almeno sul piano umorale, che non è mai poco, un credito di riconoscenza trasversale e di notevole ampiezza, ben oltre ogni calcolo di convenienza reale. Quanto agli italiani veniva risparmiato con l’abolizione dell’Ici veniva tolto loro in altro modo, questo era evidente a tutti, ma l’esattore non era più lo Stato, che da sempre in Italia, e quasi mai a torto, è considerato un mostro odioso. Ciò che più conta, inoltre, veniva detassato almeno formalmente il simbolo vivo della fatica del lavoro e degli affetti della famiglia, cifra esistenziale ancor prima che economica. In ciò, con mirabile circolarità di coincidenze, il berlusconismo ha dato il tocco finale a quanto aveva avuto avvio col fascismo, ma con una parodia di liberismo, e soprattutto con un occhio di riguardo a uno dei luoghi comuni più cari agli italiani. Carissimo in tutti in sensi.

lunedì 5 dicembre 2011

Stasera, che sera

Stasera, che sera. Fiorello, Benigni e Baudo, e tutti insieme. Fremo nell’attesa, chissà cosa combineranno. Fiorello e Benigni strizzeranno una palla di Baudo cadauno o sarà Baudo che strizzerà le palle a entrambi? 

domenica 4 dicembre 2011

Benedetto Croce puzza

Mi arriva una lunga lettera (11.093 battute) da un tale che mi dà il permesso di citarne i passi ch’io possa ritenere utile riportare nella risposta, alla quale pare non aver dubbio io sia tenuto, d’ufficio, e che mi dice di preferire sia pubblica, pregandomi però di non rivelare il suo nome, senza darmene esplicita ragione, ma dandola per scontata, e per giunta valida. Dinanzi a una richiesta del genere sarei tentato di cestinare la lettera senza nemmeno due righe di risposta in privato, sennò con un brusco diniego, tanto più che l’argomento sul quale mi si invita alla riflessione è noiosissimo, ma si tratta – questo mi piglio il diritto di rivelarlo perché non me ne è fatto chiaro divieto – di un militante radicale, e la lettera riapre, da un verso che non era mai stato sollevato, una questione che ritenevo chiusa. In breve – con ciò sintetizzando in poche righe più dei due terzi di ciò che *** mi scrive – i motivi che mi avrebbero portato all’abbandono della setta pannelliana sarebbero, tutti in uno, nel fatto ch’io non sarei un liberale comme il faut: in altri termini, non sarei un buon crociano. Se non fosse traballante nella premessa – che cioè crociano e liberale siano concetti perfettamente sovrapponibili – la tesi avrebbe un certo interesse, perché il liberalismo della setta pannelliana deve senza dubbio molto a Benedetto Croce. Più a Benedetto Croce che qualsiasi altro pensatore che a torto o a ragione sia considerato liberale. Più a Benedetto Croce, per esempio, che a Luigi Einaudi. Il fatto è ch’io non ritengo Benedetto Croce un liberale, ma un neo-idealista, e che con lui venga fatto lo stesso errore che vien fatto con Jean-Jacques Rousseau, quando vien detto illuminista invece che pre-romantico, o con Karl Marx, che passa per marxista e invece era marxiano. 
So bene, caro ***, che l’affermazione ti suonerà stridula, ma il fatto che Benedetto Croce sia definito liberale in ogni garzantina e in ogni bignamino sarà prova del fatto che fondò il Partito Liberale Italiano, e su questo non ci piove, non già che il suo pensiero possa dirsi liberale. Non propriamente, almeno. Per dirla in due parole, direi che Benedetto Croce è più hegeliano che kantiano. Ma direi anche di più: molte posizioni politiche del nostro furono compatibili con quelle di altri liberali italiani, ma rimangono espressione di quei limiti che il liberalismo italiano ha mostrato verso la storia e che ne hanno decretato il fallimento. Potrei essere ancora più rozzo: Benedetto Croce è uno dei responsabili del fallimento del liberalismo in Italia, insieme ai tanti liberali che come lui hanno tradito la lezione del liberalismo di scuola anglosassone, mettendo la persona al posto dell’individuo e sporcando di metafisica il concetto di libertà. Ancora più rozzamente, quasi bestialmente: io non ritengo possibile dare la qualifica di liberale a chi non abbia l’immanentismo per Stella Polare.  
Sì, caro ***, Benedetto Croce è un idealista e la mia critica al suo pensiero risente pesantemente di quella che gli venne da Antonio Gramsci, lo riconosco. Ora, sì, l’idealismo dichiara l’uomo creatore della propria storia, ma rinchiude le sue potenzialità nell’ambito del pensiero, sicché a fare la storia non è lui, ma qualcosa che sopra di lui: Io trascendente, Idea, Ragione, Natura, tutta roba con la maiuscola. La libertà dell’idealista è teoretica e costruisce la realtà a partire dalla conoscenza, che insieme all’intuizione sarebbe espressione di uno Spirito. Un’altra maiuscola, un’altra scoreggia metafisica.
Benedetto Croce è il filosofo di una borghesia che ormai non ha più niente da dire e che soprattutto non sa trovare nessuna risposta credibile al proletariato. Io ritengo che non sia un caso che il nostro diventi schietto antifascista solo dopo il 1924 e che prima, come tanti, abbia pensato che il fascismo fosse buono almeno a mettere un argine al pericolo rosso. Come i preti, che però lo pensarono almeno fino al 1938. Poi ci sarebbe il fatto che nel 1946 il nostro votò per la monarchia… ma sono già pentito di essermi spinto fin qui e chiudo dicendo che Benedetto Croce puzza.

venerdì 2 dicembre 2011

Eminenza, io tifo per lei



Una volta scrive che l’ha presa “da uno dei racconti del suo libro La caduta” (Avvenire, 29.8.2002) e un’altra che l’ha “tratta dal romanzo La caduta” (Parola & parole, 2.12.2011). Passi che La caduta non sia né una raccolta di racconti, né un romanzo, ma Sua Eminenza ha poi letto il récit di Albert Camus? E come l’ha letto? La citazione che piglia a occasione per le sue due riflessioni sul martirio, che poi sono l’una la scopiazzatura dell’altra, è riportata in entrambi i casi come segue: “Martiri, amici miei, dovete scegliere fra essere dimenticati, scherniti o ridotti a strumenti. Quanto a essere capiti: questo mai”. Il fatto è Albert Camus scrive:


“Mariti”, non “martiri”: lei cita a cazzo di cane, Eminenza. Dovesse diventare papa,  c’è da divertirsi. Io tifo per lei.


[...]


Chiedo scusa, Eminenza, ho dato affidamento a una versione infedele (Bompiani, 2000), stavolta ha ragione lei: Les martyrs, cher ami, doivent choisir d’être oubliés, raillés ou utilisés. Quant à être compris, jamais. 
 

giovedì 1 dicembre 2011

[...]

“Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato”

Qualche giorno fa, tra due detti di Gesù che possono sembrare in apparente contraddizione per come sono riportati in Marco (9, 40) e in Matteo (12, 30)/Luca (11, 23), il cardinal Ravasi ci consigliava di optare per la versione marciana, perché “quello di Marco è il Vangelo più antico e la fonte degli altri due Sinottici, Matteo e Luca”, e spiegava che “la nuova redazione matteana e lucana di quella frase [sia da intendere] come espressione di una Chiesa delle origini «gelosa del principio di ortodossia»”. A me sembra di aver dimostrato (qui) che i due detti non sono affatto in contraddizione e tuttavia, se lo fossero sulla base di quanto afferma Sua Eminenza, sarebbe cosa assai grave: ci costringerebbe a leggere tutto ciò che è riportato in Matteo e in Luca, e che è in contraddizione con quanto è riportato in Marco, come stravolgimento dell’originale messaggio evangelico avvenuto in epoca assai precoce, ma comunque finalizzato alla costruzione di una dottrina non fedele al senso della fonte primigenia.
Di fronte all’episodio del battesimo di Gesù ad opera di Giovanni Battista, per esempio, dovremmo ritenere genuina la versione di Marco, che nel Codex Bezae, fonte più antica del testo, mette in bocca a Dio la frase: “Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato”; e ritenere infedeli le versioni di Matteo (“Questi è il figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto”) e di Luca (“Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto”). Sarebbe una tragedia per la dottrina della Trinità, perché si dovrebbe dar ragione agli adozionisti, che negano la natura divina di Gesù, ritenendo che Dio si sia limitato ad “adottarlo”, e proprio in occasione del battesimo sulle rive del Giordano: “oggi ti ho generato” sarebbe la prova che Gesù non è stato generato prima di tutti i tempi, ma sarebbe anche la rovina di due o tre dogmi.

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Poco fa, da Santoro, a Brunetta è scappato: “Mi batterò come un sol uomo…”. È espressione che sta a intendere solidità di intento e di azione di una pluralità di soggetti (noi, voi, essi). Qui, con un soggetto al singolare (io), la frase non può che stare a intendere: “Mi batterò come se fossi un uomo tutto intero…”. Poi si lamenta che lo sfottono per la sua statura, Brunetta.