sabato 31 dicembre 2011

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Anno che va, anno che viene

Anno che va, anno che viene, anche per chi ha un blog è tempo di bilanci e programmi. Stavolta provo anch’io e prendo spunto da Massimo Mantellini, che scrive: «Tranne poche eccezioni quasi tutti bloggano meno. Il grosso della rarefazione ha avuto origine qualche anno fa con l’adozione diffusa dei social network. Le piccole cose delle nostre vite oggi finiscono altrove: in uno status update, in un tweet, dentro le cascate di tumblr».
Bene, anch’io da qualche tempo bloggo assai meno, ma non ho un tumblr; ho un account su Twitter, ma non ho mai fatto neanche un tweet di prova; avevo una pagina su Facebook che ho aggiornato solo due o tre volte, e che ho chiuso mesi fa. Ciò nonostante bloggo meno, molto meno. Anni fa sono arrivato anche a una dozzina di post al giorno, praticamente postavo tutto ciò che scrivevo, spesso senza neanche rileggere, e non di rado portavo in pagina anche cose scritte molti anni addietro.
Scrivo meno, oggi? Al contrario, scrivo quanto prima. Forse appena un po’ meno di prima, perché da poco mi è nato un figlio e ho riscoperto il gusto di essere padre. Tutto sommato, però, resto il grafomane che sono sempre stato. È che al momento di postare mi faccio vincere da scrupoli che prima non avevo. Rileggo, correggo, mi accorgo che non si tratta della forma, rinuncio. 
Il punto di rottura è stato nel marzo del 2010, col cambio della piattaforma. Se oggi rileggo le paginate che postavo sul Cannocchiale, mi rendo conto che qui, su Blogspot, la mia scrittura pubblica ha in gran parte smesso d’essere un diario. Ero più spudorato, adesso l’intimo resta quasi tutto sul cartaceo. Ho ripreso a riempire quadernetti, come ho sempre fatto, fin da ragazzino.
Così è anche per la produzione – diciamo – letteraria: racconti e poesie, che prima postavo senza alcuna riserva, adesso rimangono gelosamente custoditi in faldoni. Intendiamoci, penso che narrare e comporre versi sia lecito a chiunque. Io lo faccio da sempre e penso che non smetterò mai. Penso anche che a chiunque sia lecito rendere pubblico questo genere di produzione, ma, almeno per quanto mi riguarda, ho visto che oltre l’episodica sortita “per vedere l’effetto che fa” cado in imbarazzo.
Quando ancora Internet non esisteva, non mi sono mai azzardato neppure a immaginare la pubblicazione delle mie poesie o dei miei racconti, men che meno di quei lunghi paginoni in forma di saggi brevi, in gran parte incompleti, che mi sono sempre serviti per mettere ordine alle mie letture, e che una volta rendevo pubblici senza farmi alcuno scrupolo di annoiare il lettore. Nel momento in cui ho vinto la mia lunga e fiera resistenza all’acquisto di un pc e all’accesso al web – era l’inizio del 2001 – avevo al mio attivo solo la pubblicazione di lavori scientifici, tutto il resto era chiuso in un migliaio di quadernetti. Ho subito ceduto alla tentazione di pescare qua e là, l’occasione è stato un thread che Piero Welby aveva aperto sul forum di radicali.it, e per un poco ho continuato anche su malvino.ilcannocchiale.it, ma dopo la morte di Piero ho smesso. Può darsi che mi interessasse essere letto solo da lui.
Non so darmi spiegazione, invece, del perché d’un tratto io abbia rinunciato a pubblicare tutto ciò che avesse attinenza alla mia vita privata. Solitamente accade che questo ritrarsi sia dovuto a qualche esperienza traumatica, ma non è il mio caso. Non mi sono mai sentito davvero ferito a morte dalle critiche che ho ricevuto in questi otto anni che Malvino compirà a marzo, anzi, devo dire che il giudizio più benevolo è stato proprio su quanto più mi aveva dato imbarazzo a rendere pubblico.
Posso solo provare a fare una ipotesi, ma seguendo una traccia che mi pare attendibile: pur essendo un medico, non ho quasi mai parlato del mio lavoro, e, pur vivendo a Napoli, ho raramente parlato di questa città. Sarebbero stati due filoni inesauribili, ma da sempre mi è sembrato che dessero spazio solo a una scrittura furba, un po’ ruffiana, fatta per intrattenere. È che odio l’anedottica e l’apologo morale, e a scrivere della mia città o del mio lavoro ci sarei inevitabilmente finito dentro. Non sono poeta, non sono scrittore, non sono saggista, non sono giornalista, non ho mai aspirato ad esserlo. Non ho mai ritenuto che esistesse uno spazio pubblico per la mia scrittura che non fosse quello della polemica. Mi piace giocare a scacchi e fare a botte, diciamo. Diciamo che ultimamente non trovo occasioni stimolanti e quelle vecchie mi sono venute a noia. Così preferisco riempire pagine per me stesso: una Introduzione alla teologia cattolica alla quale pensavo già da anni, il libretto di un’opera buffa in attesa di trovare un musicista che sappia parodiare bene Rossini...
Leonardo Tondelli scrive: «Non mi interessa scrivere per me stesso […] A me interessa produrre cose che gli altri trovino interessanti e leggibili: e più sono gli altri meglio è». A me, invece, interessa moltissimo scrivere per me stesso: ho scritto pagine che non renderei mai pubbliche e che a rileggere mi danno grande soddisfazione, per non parlare della soddisfazione che trovo nello scrivere pagine che già so che non pubblicherò mai. Tuttavia sarebbe disonesto negare il piacere di constatare, quando accade, che quanto rendo pubblico sia trovato interessante e leggibile. È che non tengo molto al numero, peraltro so di non avere una scrittura semplice, né facile, per non parlare dei temi che maggiormente mi interessano, ostici al grande pubblico del web. 
Luca Massaro afferma che «il blog, come forma espressiva, si sta avvicinando sempre più a una specie di “prova d’artista”, ovvero a un esercizio di arte estemporanea del pensiero». Ecco, sì, può darsi, basta non contarci troppo.  


venerdì 30 dicembre 2011

“Le facciamo chiudere in tre mesi”

“Le facciamo chiudere in tre mesi. Col giro di affari che abbiamo, possiamo chiedere alle case farmaceutiche di darci per tre o quattro mesi forniture in esclusiva o a prezzo agevolato, non possono negarcelo, e poi in fondo conviene pure a loro: le parafarmacie non reggerebbero alla concorrenza, si troverebbero con gli scaffali vuoti o sarebbero costrette a vendere a prezzo pieno dei prodotti che noi potremmo scontare anche del 20%. Nel sacchetto mettiamo pure le pasticche Valda in omaggio per le nonnine e le Zigulì per i bambini... Voglio vedere se poi la gente entrerà più in una parafarmacia... Senza tener conto del fatto che le città sono già sature di farmacie e i parafarmacisti dovrebbero aprire i loro negozietti in periferia: basta mettersi d’accordo coi medici di base che servono quelle aree, dar loro gratuitamente i farmaci salvavita di maggior consumo, trattenendo le fustelle: li distribuirebbero gratuitamente ai pazienti postdatando di qualche mese le prescrizioni, tanto per loro fa poca differenza sugli accrediti... No, li facciamo chiudere in un niente, questi pezzenti...”

Così, più o meno, ieri sera, in una farmacia del Vomero, sarei tentato di dire quale. Senza dubbio figlio di farmacista, re della bottega lasciatagli da papà, più o meno sulla quarantina, abbronzato da troppe lampade o appena rientrato da Cortina. Urlava quasi, nebulizzando qualche schizzetto di saliva per un leggero difetto di pronuncia sulle labiali, rivolto a due avventori che dovevano essere conoscenti o amici e che ascoltavano sorridenti e compiaciuti. Un notaio e un tassista?
Ero entrato a comprare un ciucciotto per mio figlio, avevo l’auto in seconda fila, non potevo intrattenermi.

mercoledì 28 dicembre 2011

A singulti

Certi meccanismi sono venuti a perdere l’efficacia di un tempo, ma continuano ad avere un gran peso nella programmazione delle coscienze, fin dalla prima infanzia, sicché dobbiamo rassegnarci a non pretendere troppo: di fronte alla paura, vedremo ancora per secoli la superstizione prevalere sulla ragione, e l’istinto gregario sulla cooperazione; ancora per secoli, di fronte al pericolo, l’impulso più comune sarà quello di rinunciare alla libertà in cambio della sicurezza, disponendosi all’obbedienza pur di fuggire la responsabilità; ancora per secoli, come fin qui è stato, buona parte della programmazione consisterà nel fare accettare il programma come “naturale”. Non è affatto strano, dunque, che proprio adesso la democrazia sia oggetto di tante critiche; comprensibile che si parli del suo fallimento, e di quello del liberalismo; “naturale” che la tentazione più forte sia quella dello Stato organico. Durerà per qualche tempo, e non sarà stata l’ultima volta, perché l’umanità procede a singulti. Perché la prossima sia meno dura occorre non disperare, ma nemmeno lasciar tutto alla speranza: anche se guardata con sospetto o, peggio, derisa, la ragione che si oppone alla “natura” va coltivata ancora. Con più impegno, se possibile.

martedì 27 dicembre 2011

L’idea malsana

The Wall Street Journal pubblica un inedito di Christopher Hitchens (The True Spirit of Christmas), dal quale cavo questa perla: «One of my many reasons for not being a Christian is my objection to compulsory love. How much less appealing is the notion of obligatory generosity». Il segno del suo genio era in questa straordinaria capacità di andare al cuore dei problemi in modo semplice e diretto, servendosi di strumenti retorici ineccepibili sul piano logico: qui, esemplarmente, bastano «compulsory love» e «obligatory generosity» per cogliere, con una autofagia, il nucleo psicopatologico del cristianesimo e così rigettarne il messaggio. Non c’è alcun bisogno di argomenti filosofici o teologici: si rigetta l’idea malsana che l’amore possa essere oggetto di comandamento. Meglio dell’opera omnia di Friedrich Nietzsche, e in meno di due righe.

domenica 25 dicembre 2011

Un cane morto

Sul numero di la Lettura che ieri era in allegato al Corriere della Sera, in un piccolo box a pag.4, Corrado Ocone polemizza con Gilberto Corbellini, che “qualche settimana fa, su Il Sole-24 Ore attribuiva a Benedetto Croce una mentalità antiscientifica che a suo dire sarebbe all’origine di tanti nostri ritardi non solo culturali”. Ocone afferma che “Croce non era contro la scienza”, ma contro il positivismo, “cioè la pretesa di assolutizzare il metodo naturalistico”. Bene, bisogna cominciare col dire che a muovere l’accusa a Croce era Armando Massarenti, il cui articolo era in pagina accanto a quello di Corbellini, che neppure citava il filosofo neoidealista.
“Il 6 aprile 1911 – scriveva Massarenti – si tenne il congresso della Società filosofica italiana, fondata e presieduta dal grande matematico Federigo Enriques, un formidabile organizzatore culturale, autore di libri di storia della scienza, cofondatore della casa editrice Zanichelli (con cui pubblicò buona parte delle sue opere) e di riviste filosofiche e scientifiche. Enriques riteneva che una filosofia degna di una società moderna non potesse che essere pensata in stretta connessione con l’avanzare delle scienze. Sapeva di porsi così in aperto contrasto con l’emergente idealismo di Benedetto Croce e Giovanni Gentile, con i quali cercò di ingaggiare un confronto civile, ma rimase sconcertato dalla violenza con cui questi condussero la disputa. Enriques aveva denunciato il loro atteggiamento nei confronti dei saperi scientifici proprio in quanto genericamente liquidatorio e, in definitiva, antifilosofico. […] Gli fu dato platealmente dell’incompetente. E non solo in campo filosofico. Fu invitato, in maniera insultante, a parlare solo della sua materia, cioè di matematica, un sapere non per veri filosofi ma per quegli «ingegni minuti» che sarebbero appunto gli scienziati”. Fu così che diventammo “un paese in cui l’egemonia è dettata da una filosofia che considera la scienza, e persino la matematica, come una sorta di menomazione dell’intelletto, frutto di menti settoriali e limitate, soprattutto se confrontata con le vette altissime di un sapere le cui leggi universali sono attingibili a livello metafisico da poche menti elette, le sole capaci di nutrirsi di arte, filosofia e letteratura, cioè degli ingredienti dell’unica cultura davvero degna di questo nome”. Io ritengo che questa lettura sia corretta e che basti aver letto Croce per averne conferma.
Per Croce, nella più stretta aderenza al principio idealista, per il quale ciò che è reale è già tutto a priori nella nostra mente, la conoscenza si esaurisce in intuizione e concetto. La scienza? Una pratica creativa, artistica, poetica: “Cosa c’è di strano nell’affermare che la scienza si fonda sopra elementi artistici, quando questi elementi sono stati identificati con le rappresentazioni del reale o del possibile? Non sono l’individuale reale, e quello immaginato o possibile, la materia dalla quale la scienza induce leggi e concetti?” (La storia considerata come scienza). Voilà, la scienza è degradata a trasfigurazione del reale, la cui conoscenza può essere affidata solo alla perfezione dello Spirito: gli strumenti coi quali la scienza affronta il reale non possono essere che “pseudo-concetti”, buoni tutt’al più per “chiamare a raccolta moltitudini di rappresentazioni o almeno di indicare con sufficiente esattezza a quale forma di operazione convenga ricorrere per mettersi in grado di ritrovarle e di richiamarle” (Logica come scienza del concetto puro).
Non è un caso che di Croce non vengano più ristampate le opere filosofiche: a rileggerle si sente puzza di cane morto. Fosse per quelle, Croce sarebbe stato già dimenticato da tempo: lo ritroveremmo solo in due righe, su qualche dizionario, come un neo-hegeliano della scuola di Bertrando Spaventa. A salvarlo dall’oblio è stato solo il suo tiepido antifascismo, qualche discorso in Parlamento, qualche pagina ben scritta sul Seicento, il catalogo degli aneddoti smerciato dalle figlie, le citazioni ormai stucchevoli che certi tromboni sfiatati si passano da ormai tre generazioni.
L’ho già scritto tre settimane fa: Benedetto Croce puzza. Quando ci libereremo dei suoi devoti, per fortuna tutti assai attempati e prossimi alla dipartita, potremo cominciare a dare una ripulitina a quel liberalismo, tutto sui generis, al quale legò il suo nome. Fino ad allora saremo costretti a sopportare come liberali, perché crociane, le vacue e pompose fole degli avanzi del neoidealismo patrio. 

La mancia all’infermiera.

Nel quinto anniversario della morte di Piergiorgio Welby si è riparlato di testamento biologico. C’è chi ha ribadito che l’individuo ha il diritto di metter fine ai propri giorni quando la vita non gli sembri più degna di essere vissuta, di essere aiutato a farlo se non sia in grado di provvedere da solo, di poter disporre per tempo in tal senso; e c’è chi ha ribadito, al contrario, che la vita non appartiene a chi la vive e che dunque non se ne può disporre a proprio piacimento, men che meno chiedendo assistenza al suicidio, che è giusto rimanga reato, e grave. Posizioni diametralmente opposte che sembrerebbero non lasciar spazio ad altre, e dunque fatte apposta per spaccare in due il paese: da un lato, chi ritiene che ciascuno possa liberamente e responsabilmente decidere per sé in un modo, lasciando agli altri la possibilità di una diversa scelta, e, dall’altro, chi ritiene che davanti ad ogni scelta c’è sempre una sola decisione giusta e che quella deve essere imposta a tutti, ovviamente per il loro bene, che poi è sempre il bene comune. È evidente che dietro queste due posizioni ci siano due modi diversi di concepire l’uomo, anch’essi diametralmente opposti, irrimediabilmente destinati a confliggere, come infatti è accaduto sul caso Welby.
Conflitti del genere causano lacerazioni dolorose nel corpo di una società, ma pare siano inevitabili, anzi, pare che il progresso umano non possa farne a meno e che proprio nei suoi esiti trovi forza e vettore. A tentare di evitarli, d’altra parte, non si ottiene altro che dilazionarli, rendendone ancora più violento il corso, quando infine riaffiorano. Il divorzio ci offre un buon esempio, al riguardo. In Italia ci si arrivò con molto ritardo, nel tentativo di non spaccare in due il paese, eppure già da tempo si fronteggiavano due diversi modi di concepire la famiglia: da un lato, c’era chi riteneva che il bene comune riposasse sull’indissolubilità del matrimonio e, dall’altro, c’era chi aveva una diversa idea del bene comune, non incompatibile col bene di ciascuno. Chi era in favore del divorzio non voleva imporlo ad alcuno, chi era contrario voleva negarlo a tutti. Posizioni diametralmente opposte, irrimediabilmente destinate a confliggere, e tuttavia ci fu chi tentò di evitare il conflitto.
Intervistato da Oriana Fallaci nel 1974, Giorgio Amendola spiegò che il Pci avrebbe volentieri evitato quella “guerra interna”. Così anche Massimo D’Alema sul testamento biologico. Nel 2009, in un dibattito pubblico a Marina di Camerota, diceva: “Io credo che noi dobbiamo cercare di sfuggire alle guerre di religione. La mia personale posizione è che in materie come il testamento biologico è meglio non fare nessuna legge”.
Ora, per amor del vero, bisogna dire che questa “terza posizione” ha una sua ragion d’essere. Puoi non amare più tua moglie, ma a che ti serve il divorzio? Puoi avere un’amante. Puoi anche avere dei figli da lei. Saranno “illegittimi” – o “bastardi”, come si diceva prima dell’introduzione del divorzio nel nostro ordinamento e il conseguente adeguamento del diritto di famiglia – ma, via, la società resterà salda sul principio che il matrimonio è indissolubile. Idem col fine vita. Un cancro ti divora e la morfina ti fa l’effetto dell’acqua fresca? Un occhiolino al dottore compiacente, due soldi all’infermiera e il suicidio assistito è di fatto, ma sia saldo il principio che la vita è sacra e indisponibile. Il trionfo dell’ipocrisia, ma in nome di valori inestimabili. In più, ciascuno fa i cazzi propri e si evitano “guerre interne”. Basta che l’adulterio sia gestito in modo discreto, basta che del suicidio assistito non si sappia: in fondo, i paladini dei valori inestimabili si accontentano di poco, basta non scandalizzarli troppo. Guai, però, a pretendere che una legge consenta a ciascuno di vivere e morire nel rispetto dei propri valori: questo è lo scandalo più grosso, non lo tollerano.

“Io credo che noi dobbiamo cercare di sfuggire alle guerre di religione” è posizione deboluccia che ha bisogno di un argomento nobile per reggere. Così, come per il divorzio nel Pci ci fu chi disse che si trattava di un “lusso borghese” e che la classe operaia non sapeva che farsene, nel quinto anniversario della morte di Piergiorgio Welby capita di leggere su l’Unità: “Dinanzi alla morte di una persona cara, nessuno è in grado di rimanere così impassibile da non chiedersi se sia giusto che debba morire”. Si potrebbe, chessò, far decidere alla persona cara e poi rispettare le sue decisioni, se davvero ci è cara. Troppo?
Non è questo, il problema: è che, “anche quando ci rassegniamo, per esempio per l’età avanzata, non sentiamo meno il bisogno di elevare il processo naturale del morire nella sfera dello spirito, che è, in un senso minimale, ciò per cui nel morire ne va del senso del vivere e dell’aver vissuto”. Molto bello, ma si deve pur morire?
Macché. “Non è giusto che moriamo: non lo è in assoluto, non già solo in rapporto a questa o a quella morte, poiché il mero morire naturale non ci appartiene in quanto uomini. E perciò è giusto che noi moriamo, quando è resa giustizia (onore, rispetto, sepoltura) a chi muore, e all’umanità che muore con lui”. E una legge sul testamento biologico non è rendere giustizia a chi vuol morire, e in modo degno? Forse, ma “un tratto che caratterizza la «seconda modernità» che noi viviamo è l’ampliamento delle scelte a nostra disposizione: scelte trasferite dapprima dall’ambito naturale a quello istituzionale, poi da quello istituzionale a quello individuale. Un processo che sociologi e filosofi presentano spesso come una perdita di sostanzialità, perché pone su esili spalle, quelle del singolo individuo, decisioni che investono l’orizzonte più grande del vivere e del morire”.
Ma se quelle esili spalle decidono di prendere su se stesse la libera e responsabile decisione di morire, sociologi e filosofi hanno qualcosa da ridire? Sì, pare l’abbiano: “Non si muore quasi più, ma ogni volta, in luogo del «si» muore, si compie così un «io muoio» o un «tu muori»”. Non è del tutto chiaro come questo debba convincerci che una legge sul testamento biologico sia inutile, ma la cosa non rimane senza sviluppo: “I due casi [Welby e Englaro] hanno scosso profondamente le coscienze, mostrando quale viluppo di azioni e di decisioni vi sia oggi dove prima c’era un semplice accadimento naturale. E hanno anche portato il Parlamento a legiferare, con un accanimento pari a quello terapeutico, sul cosiddetto testamento biologico. L’obiettivo: porre limiti stretti tanto alla libertà del malato quanto a quella del medico. In questo modo, però, soglie sottilissime, che devono ancora trovare una stabile configurazione di senso intorno a un letto d’ospedale o al capezzale di un malato, sono state disegnate d’autorità, fissate rigidamente in una disposizione di legge. Ma la soglia è, soprattutto, un’esperienza, come il primo bacio, come un esame di maturità o come il primo giorno di lavoro: chi vorrebbe mai disciplinare per legge i passi da compiere per affrontare l’ingresso nel mondo adulto, prepararsi alle peripezie dell’amore o agli affanni della vita professionale? Perché sottrarre al singolo uomo il più antico e più arduo compito, quello di cimentarsi con le prove dell’inizio e della fine? In uno Stato democratico, una legge si fa per proteggere i deboli dai forti, non già per assicurare ai forti un potere di controllo o di disciplinamento sui deboli. Ciò che valeva per gli antichi sovrani, detentori del potere di vita o di morte sui sudditi, non può valere per i cittadini…”.
Ok, c’è da mettere un puntello nobile alla soluzione ipocrita di D’Alema, ma qui si esagera. Parliamo del ddl Calabrò e, sì, nel caso diventasse legge, lo Stato sottrarrebbe al singolo uomo eccetera eccetera. Ma una legge che al singolo uomo concedesse il diritto di cimentarsi eccetera eccetera, in cosa sarebbe oppressiva? C’è una bella differenza, mi pare, tra una legge che sancisca l’indissolubilità del matrimonio ed una che consenta di scioglierlo: la prima è oppressiva, perché impedisce di divorziare a chi voglia, ma la seconda no, perché non costringe alcuno a divorziare, se non voglia.
Differenza che pare faccia difficoltà ad esser colta: una legge sul testamento biologico – fatta la voluta confusione: qualsiasi legge sul testamento biologico – è inutile, perché “l’umanità dell’uomo [è] garanzia più solida di giustizia che non l’impero della legge”. Da non credere. Una eventuale norma che riconosca all’individuo il diritto di autodeterminazione è “l’impero della legge”. “L’umanità dell’uomo”, invece, sta nella mancia all’infermiera.  

sabato 24 dicembre 2011

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Ho già detto dell’effetto deprimente che il Natale ha sul mio umore, qui aggiungerei soltanto che la mazzata definitiva me la dà ogni volta l’immancabile cuoricino zuccheroso che il 23 dicembre, canonico come uno zampirone a Ferragosto, rifrigge il solito «ci scommetto che nevica, tra due giorni è Natale, ci scommetto dal freddo che fa». Deve averci pensato almeno dal 21, deve aver smaniato tutto il 22, non vedeva l’ora che arrivasse il 23. 

venerdì 23 dicembre 2011

A che serve l’art. 18

L’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori tutela solo i dipendenti di aziende che abbiano “più di quindici prestatori di lavoro”. In Italia sono meno del 20% del totale. Perché il restante 80% non meriti analoga tutela – sacra, a quanto si dice – bisognerebbe chiederlo a chi ha scritto quel testo, ma questo non ci è possibile: lo Statuto dei Lavoratori è vecchio più di quarant’anni e i suoi autori sono tutti passati a miglior vita. Possiamo solo fare delle ipotesi, che però parrebbero confortate da elementi di qualche peso (Gino Giugni, Lo Statuto dei Lavoratori: commento alla legge 20 maggio 1970, n.300, Giuffrè 1971).
Parrebbe che si sia voluto avere un occhio di riguardo per le aziende di piccole dimensioni, perché queste avrebbero potuto subire un serio danno nel sobbarcarsi gli oneri che l’art. 18 impone alle aziende di grandi dimensioni, e la ricaduta sarebbe andata in ogni caso a carico dei dipendenti, con la perdita del loro posto di lavoro in caso di fallimento dell’impresa. Questo parrebbe il motivo per cui l’obbligo di ritirare “il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo” e di “reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro” tocca solo “al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici prestatori di lavoro”. Se così è, la tutela garantita a certi lavoratori, e ad altri no, troverebbe un compenso indiretto in favore questi ultimi proprio nell’occhio di riguardo che lo Statuto dei Lavoratori ha nei confronti dei loro datori di lavoro. A quest’occhio di riguardo per le aziende di piccole dimensioni si preferì sacrificare la formale parità di diritti tra lavoratore e lavoratore, ma in cambio di una parità sostanziale, che aveva sempre come fine ultimo la difesa degli interessi del lavoratore, ma ponendola in stretta correlazione alla posizione dell’impresa sul mercato: il posto di lavoro era difeso comunque, ma indirettamente, risparmiando l’azienda di piccole dimensioni dall’oneroso obbligo che l’art. 18 imponeva all’impresa con più di quindici dipendenti.
Un calcolo saggio, ma che in sé aveva desacralizzava il principio dell’inamovibilità del dipendente e così rendeva l’art. 18 attaccabile alla critica di chi oggi, e non da oggi, lo considera non adeguato a tempi in cui le grandi aziende corrono sul mercato gli stessi pericoli che una volta minacciavano solo le piccole aziende.
Delle due, una: o leviamo dall’art. 18 quella ingiusta discriminante tra imprese con più o meno di quindici dipendenti, che in ogni caso è da ritenersi inadeguata ai tempi, e proclamiamo sacra l’inamobilità del dipendente (toccherebbe ai sindacati, penso, raccogliere le firme per un referendum del genere, di segno esattamente opposto a quello che fu abortito nel 2003); oppure ci decidiamo una buona volta a prendere atto che l’art. 18 non serve a nulla.

“L’Europa si trova in una crisi economica e finanziaria che, in ultima analisi, si fonda sulla crisi etica che minaccia il Vecchio Continente” (Benedetto XVI, 22.12.2011)

Qualcuno, per piacere, ragguagli Zia Pina sulle condizioni in cui si trovava l’Europa quando il cristianesimo era al suo apice e le dica che inzuppare il suo biscotto nelle paure e nelle sofferenze dei poveri di spirito è da vera troia.

Le cose cominciano a non andar più così bene


Luigi Barzini jr.
L’Europa domani mattina
Longanesi & C.
1964

mercoledì 21 dicembre 2011

Kim Jong

«Un» subentra a «Il», il declino mi pare evidente.

Le conseguenze dell’amore

“In quei momenti non hai molto tempo per riflettere,
prendi una decisione in una frazione di secondo,
e non stai a pensare che le conseguenze di quella scelta
te le porterai appresso tutta la vita. In casa scese il silenzio.
Dal pronto soccorso fu trasferito, intubato, in rianimazione.
Io andai in ospedale all’alba, non sapendo che cosa sperare.
Appena arrivata l’infermiera mi disse che Piero si era svegliato
e il mio primo pensiero fu: «Oddio, chissà adesso che cosa mi dirà.
Non ho rispettato il nostro patto, sarà arrabbiato»”
Mina Welby, MicroMega (II/2009)

“Per quello che riguarda il funerale religioso, Piero mi ha detto:
«Dopo la mia morte potete fare quello che vi pare».
Quindi, anche per la famiglia, che sicuramente dà un valore
alla forma religiosa, vogliamo fare un funerale religioso”
Mina Welby, Conferenza stampa (22.12.2006)

Piergiorgio Welby fu tracheotomizzato, intubato e attaccato a una macchina in nome di quell’amore che vanta la pretesa di poter decidere per chi si ama, oltre la volontà di chi si ama o addirittura contro. Si spese per le conseguenze di questo amore, che in Italia inizia ad asfissiarti da neonato, quando ti battezzano profittando della tua incoscienza, e che non smette di asfissiarti dopo morto, quando decidono di farti un funerale religioso anche se non sei credente, dopo averti dolcemente estorto un matrimonio in chiesa, perché lei è cattolica e ci tiene tanto, o ci tengono tanto i tuoi, o i suoi, o entrambi. «Dopo la mia morte potete fare quello che vi pare», tanto lo avete fatto anche quando ero vivo.

lunedì 19 dicembre 2011

Chinarsi dinanzi alla sentenza

Anche quando si tratta del massimo previsto dalla legge, la pena comminata per un omicidio – non ha importanza se doloso, colposo o preterintenzionale – è considerata quasi sempre troppo mite dai parenti delle vittime, e questo è naturale, tutt’al più può porsi la questione del perché la legge non riesca mai ad adeguare le sanzioni alle aspettative di chi chiede giustizia per la perdita di un padre, di un figlio, di un fratello. Sono esagerate queste aspettative o è il legislatore che non riesce mai a mettersi nei panni di chi ha subìto la perdita?
Forse la questione è posta male, lo dimostra il fatto che la pena – la stessa pena – è invece considerata quasi sempre troppo severa dai parenti di chi è condannato per quello stesso omicidio. Probabilmente al legislatore tocca rimanere nei propri panni, e in quelli decidere; al giudice, caso per caso, tocca stabilire quale sia la pena giusta tra il minimo e il massimo stabiliti dalla legge; ai parenti della vittima e a quelli dell’omicida tocca chinarsi dinanzi alla sentenza. Facile a dirsi, più difficile a ottenersi. Lo dimostra il caso che di recente ha visto per protagonista Giovanni Scattone, riconosciuto colpevole dell’omicidio di Marta Russo con una sentenza definitiva.
Non ha troppa importanza ricostruire nel dettaglio la vicenda e le tappe giudiziarie che hanno portato Scattone a scontare una pena di sei anni di detenzione per omicidio colposo (il massimo della pena per tale reato è di sette), basti dire che nessun pm si è mai azzardato a formulare un’ipotesi accusatoria più grave. Potremmo eventualmente aggiungere che, a detta di molti osservatori non a digiuno di materia penale, a carico dell’imputato fossero più gli indizi che le prove, e che Scattone si è sempre dichiarato innocente del reato chi cui era accusato e per il quale è stato poi condannato, ma si tratta di considerazioni tutto sommato irrilevanti: abbiamo il dovere di tener conto unicamente della verità processuale e di ritenerla coincidente con quella storica, prendere atto che Scattone è stato riconosciuto colpevole, ma anche di tener conto che ha scontato la pena ed è tornato un libero cittadino, nella pienezza dei suoi diritti.
Parimenti irrilevanti, dunque, dobbiamo ritenere le lamentele, anche abbastanza vivaci, che sono state prontamente raccolte e rilanciate dai media in seguito a un incarico di supplenza concesso a Scattone, oggi insegnante di scuola media superiore, presso il liceo frequentato a suo tempo da Marta Russo. Basti solo riportare le ragioni che le hanno sollevate, così come motivate dal rappresentante di un movimento giovanile di estrema destra che si è distinto tra i più attivi sostenitori della protesta: “Secondo noi lui ha diritto di lavorare perché comunque ha scontato la pena e ha pagato il suo debito con la giustizia, quello che troviamo aberrante è che venga proposto come modello di educatore una persona che ha sparato nel mucchio di alcuni studenti universitari per provare una pistola”. Posizione in tutto coincidente a quella di Tiziana Russo, sorella della vittima: “Ognuno ha diritto di ricostruirsi una vita, ma ritengo che un uomo che ha afferrato una pistola, ci ha giocato, l’ha puntata sul vialetto di un’università piena di gente e ha poi ucciso una studentessa non può insegnare a dei ragazzi. Può fare altri lavori, non il professore di un liceo”.
Se è irrilevante che Scattone si sia sempre dichiarato innocente e che l’accusa non abbia mai prodotto elementi di prova certa, sono irrilevanti anche queste proteste: se ci tocca accettare la sentenza e la verità che in essa è contenuta, ci tocca anche il rispetto del dispositivo che restituisce al condannato i suoi pieni diritti dopo che ha scontato la pena. Ovviamente non possiamo pretendere che Tiziana Russo taccia, ma, ad evitare che la sua protesta corra il rischio di essere fraintesa come un’odiosa pretesa di pena suppletiva, sarebbe più proficuo che ella si spendesse perché ciò che chiede diventi legge dello Stato in ogni caso analogo al suo. Non ci risulta che l’abbia mai fatto prima che a Scattone fosse dato l’incarico presso il liceo frequentato dalla sorella, epppure questi ha insegnato in almeno altri dieci istituti romani dopo essere uscito dal carcere.

venerdì 16 dicembre 2011

13.4.1949 - 15.12.2011



“What can be asserted without proof
can be dismissed without proof”



mercoledì 14 dicembre 2011

martedì 13 dicembre 2011

Volendo

«La literatura no habla de la realidad, habla de la
literatura: y no se puede fingir que esto no se sabe»

Due pagine dell’ultimo numero della Domenica de Il Sole-24 Ore sono dedicate alle confessioni di «scrittori, attori, politici [che] raccontano il gesto di cui più si vergognano, anche dopo molti anni», e che finiranno in un volume a cura di Augusto Bianchi Rizzi, edito da Tropea, dal titolo Il Bene e il Male, nel quale troveranno spazio anche gli «inconfessabili misfatti» dei lettori, invitati a partecipare.
Senza entrare nel merito dei contributi pubblicati dal giornale – dico solo che sembravano un campo di mammole – l’iniziativa mi pare balorda fin nella premessa, perché il misfatto davvero inconfessabile è appunto davvero inconfessabile: ciò che si confessa è per lo più la confettura letteraria dell’inconfessabile, per giunta questo accade solo quando ciò che si confessa abbia realmente attinenza al gesto del quale maggiormente ci si vergogna, perché spesso quello non è neanche sfiorato, se non è addirittura irrecuperabile, perché rimosso. Al contrario, ciò di cui più ci si vergogna può avere sì stretta attinenza al misfatto che si confessa, ma non esserne affatto la conseguenza… Ma forse sarà meglio che mi spieghi con un esempio.
Quando ho saputo che a *** restava poco da vivere perché un cancro gli aveva mangiato il fegato e disseminato metastasi dappertutto, non ho saputo fare a meno di telefonargli. Quando ha sentito la mia voce, ha detto: “Che piacere sentirti”. Io gli ho risposto: “A me, invece, fa piacere sapere che stai morendo, e fartelo sapere”, e ho riattaccato.
Non starò qui a spiegare perché lo odiassi tanto, mi pare irrilevante, siete autorizzati a immaginarvi quello che volete. Dico solo che il gesto di cui più mi vergogno non è quella telefonata, per la semplice ragione che in realtà non c’è mai stata: mi vergogno di aver desiderato farla, di non esserci riuscito, ma di averne spesso fatta una confessione, mentendo, quando c’era da confessare l’inconfessabile.
Siamo complicati, via, difficilmente siamo davvero cattivi. E non per bontà, ma proprio per mancanza di cattiveria. Volendo, possiamo vergognarci di questo.

Le pentite

La cronaca ci ha offerto di recente due storie che in apparenza avevano in comune il solo fatto che le protagoniste fossero ragazze minorenni. La prima, incinta, si è infine convinta fosse meglio abortire, ma solo dopo avere per un po’ insistito nel voler portare avanti la gravidanza contro il parere dei genitori, che la ritenevano immatura per diventare madre e si erano rivolti a un giudice per costringerla a piegarsi al loro consiglio, ignari che in casi come questi è indispensabile la volontà della gravida, anche se minore. La seconda, dopo aver perso la verginità, è stata presa dalla paura di doverne dar conto ai propri genitori, ai quali aveva promesso di mantenersi illibata fino all’altare, e ha pensato bene di inventarsi uno stupro di gruppo, per poi confessare di aver mentito, raccontando com’erano davvero andate le cose.
Da questa breve sintesi delle due vicende ho volutamente tenuto fuori l’elemento che pure si è voluto intravvedere come comune a entrambi i casi, e sul quale si è maggiormente discusso, e cioè quello della xenofobia: nel primo caso, infatti, la ragazza era rimasta incinta di un ragazzo albanese e si è detto che in realtà questa fosse la vera ragione che muoveva i suoi genitori a chiederle di abortire; nel secondo caso, invece, la ragazza ha mosso la falsa accusa di stupro ad alcuni esponenti di una comunità di nomadi, provocando come reazione di solidarietà in suo favore una spedizione punitiva al loro accampamento.
In entrambi i casi sembra aver vinto ancora una volta il pregiudizio xenofobico, ma non possiamo averne prova certa. Non sappiamo, infatti, se l’aborto ci sarebbe stato comunque, chiunque fosse stato a ingravidare la ragazza. Né sappiamo se una spedizione punitiva avrebbe comunque preso di mira la comunità di appartenenza dei presunti stupratori, indipendentemente dall’etnia. Direi che l’elemento xenofobico può aver avuto rilevanza, ma solo nel potenziarne un altro, che mi pare sia in entrambi i casi quello che ha dato impronta e senso agli eventi. Parlo del dovere che famiglia e società si danno nel decidere per il meglio della sessualità e della riproduttività di una donna, quando è minore, ma non solo, perché il corpo della donna non appartiene mai del tutto alla donna, ma è sempre, in qualche misura, un bene comune, alla difesa del quale è chiamato chiunque se ne dichiari responsabile, oltre ad esserlo, quando realmente lo è, per legge.
In entrambi i casi si trattava di ragazze minorenni, in entrambi i casi i genitori avevano pieno diritto di dirsi responsabili delle figlie, in entrambi i casi la loro responsabilità prendeva diritto sul loro futuro di donne maggiorenni, in entrambi i casi le figlie hanno dapprima rifiutato e poi accettato quanto era stato deciso per loro. Piegandosi ad abortire, nel primo caso, e cercando di negare la propria responsabilità nella decisione di perdere la verginità, nel secondo, siamo dinanzi alla stessa resipiscenza: siamo dinanzi a due donne che, sebbene minorenni, potevano rivendicare il diritto di autodeterminazione, ma si sono limitate a rifiutare il ruolo che per loro era stato deciso come migliore, per poi farlo proprio. Per entrambe è possibile pentirsi anche di questo, ancora una volta. L’unica cosa che non è mai negata a una donna è il pentimento.

lunedì 12 dicembre 2011

[...]

Dopo il forte richiamo di Benedetto XVI ad una “economia solidale”, oggi, già immagino la folla di quanti si recheranno allo Ior, domani, per chiedere il mutuo che è stato negato loro da tante altre banche. Ci vorranno le guardie svizzere per evitare la calca. 

Disse la vacca al mulo

«Cacciato con l’editto di Sofia, “Il Fatto” di Enzo Biagi venne sostituito con una striscia satirica a cura di Massimo Lopez e Tullio Solenghi, si chiamava “Max & Tux”. I due andarono in onda per 38 puntate nel 2002, poi furono chiusi per ascolti indecenti: media del 20,6 per cento di share e 5,676 milioni di telespettatori. Vediamo il confronto impietoso con Ferrara. Il direttore del Foglio ha chiuso le prime 46 puntate fra marzo e maggio con il 18,21% di share e 4,714 milioni di telespettatori, adesso registra una media del 15,45% di share e 4 milioni di telespettatori. Facciamo una piccola sottrazione, ed ecco che si scopre il fallimento: “Qui Radio Londra” va peggio di “Max & Tux” di 5 punti di share e segna -1,6 milioni di italiani»
Il Fatto Quotidiano, 8.10.2011

«Ho saputo che Santoro è passato dal 12 al 5 per cento degli ascolti, che è sempre un risultato di spicco in un sistema di trasmissione alternativo, ma insomma siamo in discesa»
Il Foglio, 12.12.2011