mercoledì 30 gennaio 2013

Uno spaccato clinico

Qualche settimana fa, commentando un articolo di Luigi Manconi (Il Foglio, 11.12.2012), ho messo in discussione  la più comune accezione di carisma che anch’egli dava segno di intendere come una sorta di grazia di cui può essere dotato un leader: ho scritto che  più correttamente deve essere inteso come una sorta di disgrazia nella quale incorrono quanti si fanno seguaci di un leader dalla personalità severamente disturbata, suggerendo che l’attenzione deve essere spostata dal «convesso» del leader al «concavo» del gruppo che lo accetta come tale (Malvino, 13.12.2012). In pratica, rigettavo la definizione del carisma data da Max Weber in Wirtschaft und Gesellschaft («qualità della personalità di un individuo, in virtù della quale egli si eleva sugli uomini comuni ed è trattato come uno dotato di qualità soprannaturali, sovrumane, o quanto meno specificamente eccezionali, non accessibili alle persone normali, considerate di origine divina, basate su poteri magici»), per accogliere quella di Otto Kernberg in Ideology, Conflict and Leadership (per il quale il carisma è tra gli «effetti paranoiagenetici» di una psicopatologia di gruppo).
Bene, oggi posso produrre un esempio che credo abbia forza di argomento. Si tratta di un passaggio tratto dall’intervento di Angiolo Bandinelli all’ultima Direzione nazionale di Radicali italiani (radioradicale.it, 29.1.2013). Non aspettatevi unillustrazione teorica dellassunto, si tratta più che altro di uno spaccato clinico. 

martedì 29 gennaio 2013

Formazione a vocazione settaria

Qualche settimana fa, in un’intervista concessa a John Hopper (The Guardian, 3.1.2013), Gianroberto Casaleggio ha azzardato un parallelo tra il grillismo e il cristianesimo primitivo: «It’s like Jesus Christ and the apostles. His message, too, became a virus». L’affermazione rivela un tratto di megalomania, ma in buona sintesi racchiude il fine cui ogni setta aspira, perché quella cristiana rappresenta il modello che ha incontrato maggior successo, e infatti quasi ogni setta riproduce in modo più o meno conscio lo schema che ha trovato fortuna nel cristianesimo: una verità indiscutibile incarnata da un capo carismatico, una ristretta cerchia di apostoli che stanno a difesa della fede e a cura del culto, una schiera di discepoli addetti a far proseliti. Nulla di nuovo, dunque.
Più interessante, invece, un’altra affermazione, stavolta sui malumori che da qualche mese serpeggiano nel M5S: «The statute contains rules. If they want to change the rules, they can create another movement». Il tono è risoluto, come di chi affermi il pieno diritto su una proprietà privata insidiata da illeciti appetiti di loschi malintenzionati, però nella sostanza è la dichiarazione dell’intoccabilità dello statuto. Volendo riprendere il parallelo col cristianesimo primitivo, saremmo alla condanna dei primi eretici, ma qui il parallelo non tiene, perché le eresie cristiane dei primi secoli nascevano sulle interpretazioni di quel testo, mentre lo statuto del M5S è assai meno ambiguo del passo che in Mt 16, 18 darebbe fondamento al primato petrino: «Il nome del M5S viene abbinato a un contrassegno registrato a nome di Beppe Grillo, unico titolare dei diritti d’uso dello stesso» (art. 3). E dunque Gianroberto Casaleggio ha ragione: il M5S è proprietà privata e chi ne è proprietario può decidere a suo piacimento chi ne fa parte e chi ne è fuori.
Più che un versetto evangelico, a me l’affermazione ha richiamato alla mente lo sbotto di reazione che un leghista o un cattolico tradizionalista potrebbe avere alle lamentele di immigrati musulmani cui sia stata negata la costruzione di una moschea: «Questo è un paese cattolico: se avete voglia di pregare Allah, tornate a casa vostra». Sono disposto a concedere che ci sono delle differenze, ma l’idea di una religione di stato non stride in egual misura con quella di un partito inteso come un club che abbia regole sulle quali non è ammesso discutere o con quella di un movimento politico il cui statuto non sia emendabile da una maggioranza qualificata? E tuttavia, anche se non si arriva quasi mai a esplicitarlo in modo così secco e liquidatorio, questo modo di intendere un partito non è caratteristico, seppure in vario grado, di quasi i tutti leader politici italiani? In altri termini, di fatto se non di diritto, tutti i partiti e i movimenti politici italiani non sono proprietà privata di una persona sola? È vero, c’è l’eccezione del Pd, che è in mano ad una oligarchia, ma per tutti gli altri partiti non vale la regola che la piena disponibilità della linea politica e delle risorse economiche siano nelle mani di uno solo? E allora cosa fa la differenza con una formazione a vocazione settaria? La risposta è nel carattere carismatico della leadership.
Ma del carisma del leader politico ho già parlato qualche mese fa.

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Due e tre mesi fa ero seriamente intenzionato ad astenermi dal voto. Era una decisione alla quale ero arrivato con grande sofferenza, perché ho sempre pensato che votare sia più un dovere che un diritto e un menopeggio – talvolta perfino un moltomenopeggio – non era mai mancato sulla scheda. Stalvolta no, non riuscivo proprio a vederlo: il voto mi sembrava l’avallo a una finzione di democrazia.
«Non ho smesso di credere nella democrazia – ho scritto – [e] con la decisione di astenermi alle prossime elezioni non ho alcuna intenzione di metter[e] in discussione [il principio democratico]: dico solo che in Italia ne è rimasto solo il guscio vuoto – le elezioni, appunto – ma di fatto col voto non si esercita alcun potere, neppure nell’infinitesima misura che un voto dovrebbe avere su milioni di voti. Il sistema dei partiti ha sospeso il principio democratico e si perpetua nella sua sospensione, che il voto rinnova, dandole legittimità. E nessun partito – nessuna coalizione di partiti, nessun fronte transpartitico – può volere sia diverso da com’è, pena il suo dissolversi».
Continuo a crederlo, ma poche settimane dopo c’era la salita in politica di Mario Monti e, non fosse bastato, la ridiscesa in campo di Silvio Berlusconi. Insomma, il menopeggio mi si materializzava dinanzi all’improvviso nel Pd, cui darò il mio voto, ben sapendo che me ne pentirò fin dal giorno dopo. D’altra parte devo confessare che le primarie, al netto dei mille limiti che le hanno contrassegnate, mi sono parse un merito in positivo del partito guidato da Pierluigi Bersani, ulteriormente valorizzato dalla lealtà fin qui mostrata da Matteo Renzi dopo la sconfitta che ha subìto al ballottaggio. Rimane quel che era, il Pd, e non sarà certo il mio voto a renderlo diverso, ma in due o tre mesi il resto è drammaticamente peggiorato: almeno per quanto mi riguarda, è buon pretesto per fuggire l’astensione nell’aleatoria convinzione del cosiddetto voto utile.
Quanto utile possa risultare, poi, è un altro paio di maniche. Ho già scritto, infatti, che, per «sgombrare il campo dalle velleità di chi lavora a un terzo polo, dalle illusioni revanchiste del Pdl, dalle tentazioni populiste e giustizialiste che spuntano ovunque come funghi, dal fardello di un’alleanza piena di incognite come quella con Sel», il Pd dovrebbe conquistare una larga rappresentanza in Parlamento che però gli sarebbe data solo dal successo in regioni nelle quali io non voto. Di fatto, dunque, il mio voto resta inutile, come sarebbe stata l’astensione. Ma sono grato a Berlusconi e Monti per avermi dato modo di non venir meno a ciò che a torto o ragione continuo a considerare più un dovere che un diritto. 

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L’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas) rileva un dato incongruente nella compilazione delle schede di dimissione ospedaliera delle gravide che hanno partorito con taglio cesareo: il numero dei feti in presentazione anomala, una delle indicazioni al parto per via chirurgica, è più alto di quanto statisticamente atteso, sicché nasce il sospetto che in molti casi la diagnosi di presentazione anomala sia fasulla e serva a giustificare il ricorso al taglio cesareo anche quando il parto potrebbe essere espletato in modo «naturale». Si profilerebbe il reato di truffa ai danni dello stato, che sborsa 2.457 euro per un taglio cesareo e solo 1.139 euro per un parto spontaneo, con un aggravio di spesa quantizzabile tra gli 80 e gli 85 milioni di euro ogni anno. Tuttavia parrebbe che allo stato non stia a cuore solo il portafoglio, ma pure la salute della donna, che col taglio cesareo sarebbe messa a rischio in misura assai maggiore di quanto accada col parto «naturale». Donde si tragga questo dato, e quanto sia significativo al fine di lanciare l’allarme, non è dato sapere. In realtà, gli studi statistici non mettono in rilievo alcuna sostanziale differenza di rischio per la donna tra parto spontaneo e taglio cesareo, anzi, per quanto attiene alla morbilità del nascituro, il parto per via chirurgica sembrerebbe addirittura un po’ più conveniente rispetto a quello «naturale». Si sbandierano, è vero, dei dati che vorrebbero il taglio cesareo 37 volte più pericoloso del parto spontaneo, ma si omette che è relativo a complicanze di pertinenza urinaria, di entità non più grave a quella che si riscontra nella cateterizzazione. Sospetto per sospetto, viene da pensare che la tutela della salute delle donne sia solo la foglia di fico a coprire la pur legittima tutela delle casse dello stato. Quando si fa spending review, d’altronde, star dietro al portatore d’handicap per vedere se non sia per caso un falso invalido è più facile che tagliare privilegi alle caste e qui parliamo di 80-85 milioni di euro ogni anno, che fa quanto costano 250 auto blu. Non vorrei essere frainteso: personalmente penso che sarebbe giusto fare entrambe le cose. Di fatto, però, tra le due, risulta sempre più facile la prima rispetto alla seconda, e dunque sia, discutiamo di questo enorme numero di tagli cesarei che sarebbero effettuati anche quando le gravide potrebbero partorire in modo «naturale», senza altra ragione – pare – che il furto di denaro pubblico.
Prima di tutto, però, penso che sia necessario un inciso per spiegare perché metto le virgolette a «naturale». È presto detto: «natura» è termine sommamente ambiguo. Se, infatti, il parto per via vaginale è da considerare «naturale», il taglio cesareo sarebbe da considerare «contro natura». Ma questo non vale anche per ogni altro intervento medico che tenda a correggere un evento «naturale» com’è la malattia o a dilazionarne quanto più possibile un altro, altrettanto «naturale», com’è la morte? Non sto dicendo che la gravidanza o il parto spontaneo siano da intendere come momenti patologici: dico che al pari di ogni evento parafisiologico, anche la gestazione e il parto possono presentare momenti di patologia che il medico è chiamato a risolvere con artifici miranti a correggere la «natura», quando questa sembra opporsi a ciò che è da considerare desiderabile. Il punto è un altro: a chi spetta la decisione e a chi tocca assumersene la responsabilità? Forse sarà il caso di ricorrere a un esempio. Anche la riduzione chirurgica di una frattura, quando si suppone che la sua riparazione spontanea possa procedere in modo insufficiente o irregolare portando ad esiti indesiderati, è da considerare «contro natura». In senso stretto, anche un tutore è artificio innaturale e, in generale, potremmo dire che si ricorre sempre ad una pratica «contro natura» quando in campo clinico prende corpo la supposizione che, a lasciar fare alla «natura», il risultato non sarebbe soddisfacente. E tuttavia, di fronte a una frattura ridotta chirurgicamente, non è mai possibile avere la certezza che lo stesso risultato, se non migliore, si sarebbe ottenuto lasciando fare alla «natura». Per meglio dire, sui grandi numeri è possibile discutere e trarre qualche conclusione, perché si tratta di inferire dati che in campo clinico indirizzano la supposizione in un senso o in quello opposto, ma il singolo caso non offre mai l’assoluta certezza che la scelta scartata fosse la migliore, perché non si presta mai a controprova. Così è anche per il taglio cesareo: sui grandi numeri è possibile supporre che in molti casi sia stato inutile e che lo stesso risultato desiderato si sarebbe ottenuto col parto spontaneo, ma sul singolo caso è impossibile dimostrarlo. In pratica, è impossibile considerare inutile la riduzione chirurgica di una frattura che abbia dato buon esito: si può supporlo, ma senza poterne avere certezza.
Ovviamente parliamo dei casi in cui tutto vada bene, quando l’osso torna a posto, non importa se grazie a un semplice tutore o grazie a un intervento chirurgico di riduzione. Nel nostro caso, stiamo parlando dei casi in cui il parto vada a buon fine, spontaneo o no che sia, lasciando fuori dalla discussione quelli nei quali madre e/o figlio abbiano riportato un danno dall’espletamento di un parto spontaneo, lì dove un taglio cesareo avrebbe potuto evitarlo, o viceversa, ammesso sia possibile esserne assolutamente certi. Tuttavia una differenza c’è nel parallelo tra taglio cesareo e riduzione chirurgica di una frattura, perché l’ortopedico a differenza dell’ostetrico arriva alla decisione di intervenire chirurgicamente sulla base di elementi clinici che solo assai di rado vengono messi in discussione dal Ministero della Salute. Di fatto, il numero di riduzioni chirurgiche delle fratture ossee è andato assai aumentando negli ultimi decenni, ma nessuno solleva il sospetto che dietro ci sia una frode. Non è così col taglio cesareo, dove si dà per altamente probabile che la causa stia nella malafede del medico che l’ha considerato necessario. Nel caso in oggetto, però, e stiamo parlando dei dati riscontrati dall’Agenas, cioè della probabile falsificazione di diagnosi di anomala presentazione fetale, si tratta di un falso che è praticamente impossibile accertare una volta che il feto sia venuto alla luce. Che fare, allora, per evitare la truffa?
Non vedo altra soluzione che in un apposito organo dello stato che avalli o no la decisione di un taglio cesareo che il medico abbia eventualmente concertato con la gravida. Insomma, un apposito timbro di autorizzazione all’intervento chirurgico. Questo dovrebbe valere non soltanto nei casi in cui l’indicazione al taglio cesareo sia stata posta da una anomala presentazione fetale, ma in tutti i casi in cui è altrettanto possibile una diagnosi fasulla. In pratica, lo stato dovrebbe assumersi in pieno la responsabilità di decidere al posto del medico il modo in cui una donna deve partorire e, già che ci troviamo, il modo più conveniente di trattare una frattura ossea. Quanto costerebbe? Se costasse meno di 80-85 milioni di euro ogni anno, sarebbe conveniente. Ma, ammesso pure che lo fosse, sarebbe lecito? A me pare che verrebbero lesi alcuni diritti della donna e l’autonomia professionale del medico. D’altronde non sarebbe la prima volta che lo stato italiano sia chiamato a interferire sulla vita sessuale e riproduttiva dei suoi sudditi, perché non arrivare al punto da mettergli in mano anche la decisione che fino ad oggi è stata del medico, ma che comunque trovava realizzazione solo col consenso della donna? A qualcuno fa paura che sia lo stato a decidere la modalità del parto? Può farsela passare pensando al fatto che il fine sarebbe il bene pubblico, come accade sempre, d’altronde, quando lo stato avanza l’amorevole pretesa di prendersi cura dei propri sudditi, risparmiando loro tutte quelle fastidiose decisioni che implicano l’esercizio della libertà e della responsabilità. Oppure? Se non in questo modo, che potrebbe trovare qualche ostacolo nella nostra Costituzione, come può porsi argine all’alta percentuale di tagli cesarei oggi effettuati in Italia? Le statistiche dicono che siamo i primi in Europa. Non potendo liberarci troppo in fretta di ben più infami primati, non vogliamo provare a far diminuire il numero di tagli cesarei? Sì, ma come?
Tra chi sente l’urgenza del problema – un po’ tutti, tranne le donne che hanno partorito con un taglio cesareo – nessuno sembra avere una soluzione: lamentano «l’inarrestabile medicalizzazione di un evento naturale come il parto» (Assuntina Morresi su Avvenire di sabato 19 gennaio, e come argomento non porta altro che l’aver «partorito tre figli per vie naturali», affermando che il «diritto al parto senza dolore è quantomeno discutibile»); denunciano quello che sarebbe uno «scandalo nazionale» (Roberto Volpi su Il Foglio di martedì 22 gennaio, che approfitta dell’occasione per lagnarsi dell’eccesso di attenzioni diagnostiche in gravidanza, che rappresentano «un fattore di rischio per chi deve mettere al mono un figlio»); addirittura paragonano il taglio cesareo a una «mutilazione genitale femminile» (Angiolo Bandinelli nei suoi senescenti sproloqui nei forum radicale); ma nessuno sa dire quale alternativa ci sia.
Chi può impedire ad una donna che non voglia partorire spontaneamente di optare per il taglio cesareo? Chi può contestare la condotta clinica di un ostetrico che in questo o quel caso decide che il taglio cesareo è da preferire al parto spontaneo? Soprattutto, come si può impedirlo? Non si sa, nessuno azzarda una proposta. E dire che, una volta trovata, andrebbe bene pure per mettere un freno a piercing e tatuaggi.   

Il Dio che non esiste ma è necessario

L’ultimo numero di MicroMega (1/2013) chiude con un breve saggio di George Steiner (La morte sta morendo? – pagg. 205-218) che a stralci è stato ripreso da la Repubblica di giovedì 17 gennaio (Addio alla morte – pag. 37). George Steiner si chiede: «La condizione e la fenomenologia della morte classica, rimasta dominante per moltissimi secoli, è in crisi?». È domanda retorica, d’altronde lo sarebbe con qualsiasi altro oggetto «classico» volessimo considerare al posto della morte. Non è in «crisi» pure il modo di concepire la sessualità che dominò per moltissimi secoli? E il modo di concepire la nascita? E la malattia? Sì, ovviamente, perché la «crisi» riguarda sempre ciò che è «classico». Per meglio dire: è «classico» proprio tutto ciò che è andato in «crisi», e per il fatto stesso di essere andato in «crisi». Ancora: il «classico» diventa tale solo quando una «crisi» costituisce ragion sufficiente di considerarne definitivamente chiusa l’esperienza diretta. Che senso ha, allora, la domanda posta da George Steiner? Vediamo se riusciamo ad individuarne il fine, visto che ogni domanda retorica ne ha uno.
Prima di tutto chiediamoci: i «classici» sapevano di essere «classici»? No, ovviamente, perché la «classicità» è sempre antecedente ad ogni presente. Potremmo dire che l’autopercezione della «classicità» sia una contraddizione in termini: nel presente, il «classico» è solo in potenza. È che ogni presente ha nel suo passato un punto rappresentabile come «classico», cioè esemplare, degno di essere preso a modello, anche se la regola vuole sia inarrivabile. Con ciò siamo dinanzi a una percezione della storia come sequenza di cataratte che di «crisi» in «crisi» porta al progressivo deterioramento di un modello ritenuto ideale. In altri termini, siamo dinanzi al culto della tradizione come modello ideale di esperienza che è irreparabilmente perso. Per dirla in altro modo: siamo alla percezione di una rottura nel continuum.
Per George Steiner questa rottura è una «mutazione», dando così per assodato che «la fenomenologia della morte classica» fosse nel patrimonio genetico umano, non già frutto a sua volta di altre «mutazioni», ma cifra connaturata, sennò punto di arrivo di altre «mutazioni», sì, ma tutte necessarie a determinare un modello ideale, tappe di un processo che aveva per fine quello di portare ad uno stadio di insuperabile perfezione, oltre la quale era possibile solo la corruzione.
Leggere la storia umana in questo modo, però, pone un problema insormontabile. Dal Neolitico alla polis greca, infatti, e dall’antica Roma al Medioevo, dal Rinascimento all’Età dei Lumi, la morte non è mai stata uguale a stessa: quando si moriva al modo «classico»? E quando si è smesso? La risposta di George Steiner non è molto diversa da quella di chi lamenta la secolarizzazione: «Mano a mano che i valori scientifici saturano la nostra coscienza, e che le tecnologie si evolvono con un’accelerazione esponenziale, le fantasie sulla trascendenza si fanno ancora più sbiadite o puramente convenzionali».
Non sfugga che quelle relative alla trascendenza sono «fantasie»: siamo alla tesi del Dio che non esiste ma è necessario.

lunedì 28 gennaio 2013

«Occhi terrificanti e agghiaccianti»

Sulla Domenica de Il Sole 24Ore, pag. 21, Gianfranco Ravasi recensisce 



Si tratta del Cristo che riproduco qui sotto.



«Occhi terrificanti e agghiaccianti»? A isolarlo dal contesto, sì. Il fatto è che, nell’opus sectile della domus di Porta marina a Ostia, tutti i soggetti raffigurati (animali compresi) hanno lo stesso genere di occhi.


Tutti cogli «occhi terrificanti e agghiaccianti»? Macché. È che nel IV secolo, com’è d’altronde in tutta larte antica almeno fino al Basso Medioevo, in tutto il bacino del Mediterraneo e oltre, molti pittori e molti scultori ricorrono allespediente di occhi sproporzionati al volto per dar risalto all’espressione del soggetto. Non di rado, per ottenere questo effetto, si arriva a veri e propri esoftalmi. 


Non basta, perché non è così scontato che il personaggio barbuto raffigurato in posa benedicente e con aureola sia proprio Cristo. «In tutta la Grecia e l’Asia Minore spiega chi ha curato il restauro della domus di Porta Marina –  sono stati scoperti dei personaggi definiti “sacri”, “ispirati”, ovvero dei filosofi. E tutti questi personaggi, in un momento in cui si registrava una grande esigenza di spiritualità, avevano il segno distintivo dell’aureola. Quindi, non c’è un contesto per poter affermare con precisione se si tratti di una figura sacra, oppure pagana».
In definitiva, potremmo dire che Gianfranco Ravasi e gli succede spesso – si è fatto prendere la mano.

martedì 15 gennaio 2013

martedì 8 gennaio 2013

Roberto Saviano accusato di concorso esterno

L’anno scorso, con un post dal titolo “Pensar male” e “pensar bene” (Malvino, 18.4.2012), ho rigettato l’accusa di essere un “malpensante” rivoltami da Giovanni Fontana, contestandola in radice, sull’improprietà del termine. Concludevo in questo modo: «Ogni volta che “penso male” di qualcosa o di qualcuno faccio esercizio di un sospetto che è metodo scettico applicato alla logica interna a un sistema: formulo un giudizio negativo o esprimo una cattiva opinione non già sul piano morale ma su quello logico, sicché non dico mai “questa tal cosa (questa tal persona) è cattiva”, ma “forma o sostanza di questa tal cosa (affermazioni o azioni di questa tal persona) non mi convincono della ratio che ostentano”, e dunque il mio sospetto non si appunta mai su ciò che le rivelerebbe “cattive”, ma su quanto, a mio parere, sempre argomentato, le rivela intrinsecamente contraddittorie, dunque soggette ad implosione logica».
Ripensandoci, potevo essere più sintetico. Potevo dire: «Annuso: se sento puzza di ipocrisia, faccio abuso di sincerità». La sintesi, però, comporta sempre un rischio e, in questo caso, ciò che in quel post era “contraddizione” sarebbe diventato “simulazione”, termine che implica un connotato morale del tutto irrilevante sul piano logico, e ciò che era “parere argomentato” sarebbe diventato “fiuto”, che è la piena negazione dell’argomentare. Con la sintesi, insomma, avrei corso un serio pericolo.
Troppo complicato? Sarà il caso di fare un esempio.

Quando Roberto Saviano ha rifiutato la candidatura offertagli da Marco Pannella, ho affidato a questo tweet il mio commento:


“Malpensante”? Macché. Date un occhio a questa coltellata.



Peggio che sentirsi dare del cretino: Saviano è reo di “concorso esterno alla mafiosità criminale del nostro Stato e dei suoi massimi responsabili”, per aver fatto cosa? Per non aver reso onore alle flebo di Pannella. 
Il mio era “fiuto”? Macché, ore ed ore, giorni e giorni, mesi e mesi di studio sugli audiovideo dell’archivio di Radio Radicale. Unanalisi seria e rigorosa, altro che naso.
“Fiuto”, piuttosto, può dirsi quello di Saviano, che ha dedicato il suo studio ad altre organizzazioni: è nel suo caso che possiamo parlare di naso, finissimo peraltro. Immaginatevi, infatti, se avesse detto sì alla candidatura nella “lista di scopo” con la quale Pannella e il suo cerchio magico stanno tentando di non lasciare a secco la cassa: ora si trovava a fare la Cicciolina, strusciando una tetta sul loden di Monti e implorando Casini di chiudere un occhio. 

giovedì 3 gennaio 2013

Molte cose sono cambiate

Molte cose sono cambiate in questi ultimi due mesi, direi che le più significative siano la ridiscesa in campo di Silvio Berlusconi e la salita in politica di Mario Monti, due eventi che ritengo mostruosi in egual misura.
Nel primo caso, torna in scena un tizio che ha smerdato il paese, sfasciato la coalizione che lo teneva al governo, azzoppato il partito di cui comunque rimane il padrone e ha finito col perdere anche l’appoggio della Chiesa, che quando ha da guadagnarci va a braccetto con chiunque. È che ormai non poteva dare più niente e infatti, con sollievo, gli ottimisti lo avevano dato per morto. Ma ora torna e i sondaggi lo danno in ripresa, seppur lieve. Il suo quadro psichiatrico è notevolmente peggiorato rispetto a un anno fa, dunque è più pericoloso di quanto è sempre stato, eppure circa un quinto degli italiani lo voterà ancora, e questo valga da lezione per chi ritiene che prima o poi saremo un paese normale: lo rivedremo in Parlamento, come minimo, insieme alla masnada che gli si stringe attorno.
Nel caso del premier uscente, che fino a qualche settimana fa giurava che avrebbe fatto come Cincinnato, la mostruosità sta nel fatto che intende incarnare quella quota di sovranità che inevitabilmente l’Italia dovrà cedere a una Comunità Europea che in ogni caso è ancora da venire. In altri termini, cerca consenso politico per essere legittimato come commissario tecnico che l’Europa avrebbe scelto per l’Italia e mostra segni di insofferenza come se questa legittimazione fosse una seccatura. Non si candida, ritiene che la sua candidatura sia nei fatti e, più la campagna elettorale entra nel vivo, più monta in arroganza e sbraca in patenti scorrettezze, come se i concorrenti al governo del paese fossero fastidiosi intralci all’unica soluzione possibile. Il professore s’è montato la testa, è evidente. Poteva starsene in disparte e tra qualche mese sarebbe andato al Quirinale, ma s’è fatto pizzicare dalla tarantola.
Altre novità non mancavano, ma queste due le hanno sgonfiate. Tutto rimane confuso, in pieno movimento, e tuttavia mi pare che, facendo rapidamente zoom indietro, il quadro generale non sia troppo diverso da quello di due mesi fa, quando scrivevo che «il sistema dei partiti ha sospeso il principio democratico e si perpetua nella sua sospensione, che il voto rinnova, dandole legittimità». Scrivevo che paradossalmente «il voto si è ridotto all’avallo di questa finzione: la democrazia è rappresentata – è data mera rappresentazione della democrazia – da quanti vogliono convincersi e convincere che la democrazia stia nell’andare a votare di tanto in tanto. Tra chi vota e chi si astiene c’è ormai una sola piccola differenza: i primi sono convinti che la finzione mantenga in vita il principio, i secondi si rifiutano di crederlo. Per quanto mi riguarda, mi è diventato intollerabile prestarmi alla finzione». Tuttavia tenevo a precisare che «con la decisione di astenermi alle prossime elezioni – il post cercava di spiegare le ragioni di questa scelta, e dire quanto fosse sofferta – non [avevo] alcuna intenzione di metter[e] in discussione [il principio democratico]». Scrivevo: «Non ho smesso di credere nella democrazia, dico solo che in Italia ne è rimasto solo il guscio vuoto – le elezioni, appunto – ma di fatto col voto non si esercita alcun potere, neppure nell’infinitesima misura che un voto dovrebbe avere su milioni di voti». Lo penso anche adesso, ma alcune cose mi hanno dissuaso dalla decisione di astenermi alle prossime elezioni politiche.
La prima è che adesso un menopeggio c’è, ed è il Pd. In parte per la presenza di Berlusconi e Monti sulla scena politica, in parte per la prova data con le primarie, il Pd è il menopeggio e lo voterò. Ho ben presenti quelli che per le mie personali convinzioni ritengo siano i suoi enormi limiti, peraltro destinati immancabilmente ad essere più evidenti quando è al governo, dunque voterò Pd con la serena disposizione d’animo a maledirmi per averlo votato. I sondaggi lo danno intorno al 30%, ma ritengo che solo sopra il 34-35% potrà sgombrare il campo dalle velleità di chi lavora a un terzo polo, dalle illusioni revanchiste del Pdl, dalle tentazioni populiste e giustizialiste che spuntano ovunque come funghi, e dal fardello di un’alleanza piena di incognite come quella con Sel: intendo contribuire a questo traguardo.
Una sola cosa potrebbe farmi cambiare ancora idea tenendomi alla larga dalle urne, ed è l’ospitalità che eventualmente dovesse essere offerta agli Amicone – per dirne uno – coi quali Pannella sta infarcendo le sue liste di scopo: un’altra Binetti sarebbe intollerabile. Altra cosa sarebbe se l’ospitalità fosse offerta a singoli esponenti radicali, chessò, penso a un Viale, a un Cappato, a una Bonino, a un Turco... Non accetterebbero mai, significherebbe dover rompere con Pannella, e tuttavia, fossi in Bersani, questa proposta la farei: un rifiuto tornerebbe utile, a posteriori.

mercoledì 2 gennaio 2013

Io non so se Delfo Zorzi sia responsabile della strage di Piazza Fontana...


... ma penso che per le sue borse meriterebbe comunque l’ergastolo.  

lunedì 31 dicembre 2012

[...]



Venditore: Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi. Bisognano, signore, almanacchi?
Passeggere: Almanacchi per l’anno nuovo?
V.: Sì signore.
P.: Credete che sarà felice quest’anno nuovo?
V.: Oh illustrissimo sì, certo.
P.: Come quest’anno passato?
V.: Più più assai.
P.: Come quello di là?
V.: Più più, illustrissimo.
P.: Ma come qual altro? Non vi piacerebb’egli che l’anno nuovo fosse come qualcuno di questi anni ultimi?
V.: Signor no, non mi piacerebbe.
P.: Quanti anni nuovi sono passati da che voi vendete almanacchi?
V.: Saranno vent’anni, illustrissimo.
P.: A quale di cotesti vent’anni vorreste che somigliasse l’anno venturo?
V.: Io? Non saprei.
P.: Non vi ricordate di nessun anno in particolare, che vi paresse felice?
V.: No in verità, illustrissimo.
P.: E pure la vita è una cosa bella. Non è vero?
V.: Cotesto si sa.
P.: Non tornereste voi a vivere cotesti vent’anni, e anche tutto il tempo passato, cominciando da che nasceste?
V.: Eh, caro signore, piacesse a Dio che si potesse.
P.: Ma se aveste a rifare la vita che avete fatta né più né meno, con tutti i piaceri e i dispiaceri che avete passati?
V.: Cotesto non vorrei.
P.: Oh che altra vita vorreste rifare? La vita ch’ho fatta io, o quella del principe, o di chi altro? O non credete che io, e che il principe, e che chiunque altro, risponderebbe come voi per l’appunto; e che avendo a rifare la stessa vita che avesse fatta, nessuno vorrebbe tornare indietro?
V.: Lo credo cotesto.
P.: Né anche voi tornereste indietro con questo patto, non potendo in altro modo?
V.: Signor no davvero, non tornerei.
P.: Oh che vita vorreste voi dunque?
V.: Vorrei una vita così, come Dio me la mandasse, senz’altri patti.
P.: Una vita a caso, e non saperne altro avanti, come non si sa dell’anno nuovo?
V.: Appunto.
P.: Così vorrei ancor io se avessi a rivivere, e così tutti. Ma questo è segno che il caso, fino a tutto quest’anno, ha trattato tutti male. E si vede chiaro che ciascuno è d’opinione che sia stato più o di più peso il male che gli è toccato, che il bene; se a patto di riavere la vita di prima, con tutto il suo bene e il suo male, nessuno vorrebbe rinascere. Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?
V.: Speriamo.
P.: Dunque mostratemi l’almanacco più bello che avete.
V.: Ecco, illustrissimo. Cotesto vale trenta soldi.
P.: Ecco trenta soldi.
V.: Grazie, illustrissimo: a rivederla. Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi.

sabato 29 dicembre 2012

[...]

Le elezioni politiche del 2008 avevano dato al centrodestra una schiacciante maggioranza in Parlamento e a Palazzo Chigi c’era l’uomo che don Gianni Baget Bozzo, don Luigi Giussani e don Luigi Verzé assicuravano fosse stato mandato dalla Provvidenza. Benedetto XVI diceva: «Avvertiamo con particolare gioia i segnali di un clima nuovo», e Silvio Berlusconi ricambiava: «L’attività del Governo non può che compiacere il Papa e la sua Chiesa». L’idillio era perfetto, destinato a durare a lungo. Fare la lista delle reciproche cortesie prenderebbe due pagine, ma da subito si intuì che ci sarebbe stato un leggero sbilanciamento nell’essersi utili a vicenda avrebbe avuto. Al primo incontro ufficiale, infatti, il Presidente del Consiglio porta in dono finanziamenti alle scuole cattoliche, difesa dei valori non negoziabili e una croce da pettorale in oro tempestata di diamanti e topazi, mentre Sua Santità ricambia con penna commemorativa dei 500 anni della Basilica di San Pietro e una profezia di quelle da scolpire nel granito: sente – dice – che sta per aprirsi «una nuova stagione di crescita economica ma anche civile e morale». 
Non ridete, per piacere. Anche un sorriso amaro, trattenetelo. Daltronde il resto lo sapete, è storia che si ripete sempre uguale: quando  l’uomo della Provvidenza non serve più, si butta via e ne arriva un altro. 
 


venerdì 28 dicembre 2012

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Personalmente la cosa non mi interessa perché non ho battezzato nemmeno il mio terzo figlio, però faccio notare a chi ne abbia uno concepito fuori dal matrimonio che per lo Stato italiano non c’è più alcuna differenza tra quelli che prima erano chiamati legittimi e illegittimi, mentre per il Codice di Diritto Canonico continuano ad essere “legittimi [solo] i figli concepiti o nati da matrimonio valido o putativo” (Can. 1137). Battezzarlo lo rende bastardo.

giovedì 27 dicembre 2012

Abbattete pure la bestia, se credete

Dare addosso a don Piero Corsi è come chiedere l’abbattimento del pitbull che ha sbranato un bambino: viene d’istinto, d’altronde abbatterlo può essere anche necessario, ma farlo distoglie l’attenzione che andrebbe posta sull’addestramento ricevuto dalla bestia, portando a attenuare o addirittura a trascurare la responsabilità del suo padrone.
Se il parallelo non convince, basta dare una rinfrescatina alla galleria degli orrori misogini che dalle Lettere di Paolo scorre lungo la Patristica e la Scolastica, e oltre, fino alle encicliche e alle pastorali che non a caso il parroco di Lerici ha citato nel suo manifesto: la condanna dei succinti abiti muliebri come tentazione alla debolezza della carne virile ricorre inalterata lungo due millenni, almeno fino alla maledizione che padre Pio scagliò sulle «puttane» che si mettono in bikini.
Don Piero Corsi si sviluppa in questo brodo di coltura, si forma sui testi che gli hanno dato da leggere in seminario: legge in Tertulliano che la donna è «la porta del diavolo», in Girolamo che sessualmente è «sempre insaziabile», in Agostino che deve essere «serva di suo marito», giù, giù, fino a Pio XI, per il quale «il matrimonio cristiano implica la supremazia del marito sulla moglie», e a Pio XII, per il quale è «Dio stesso [che] ha voluto questa dipendenza delle mogli». Che la donna debba vestire in modo castigato, sennò si fa oggetto di concupiscenza e provoca intenti lascivi, l’ha letto in Paolo, in Giovanni Crisostomo, e ancora in Agostino, in Gregorio Magno e in Bernardino da Siena, giù, giù, fino alla condanna della minigonna di monsignor Lefebvre.
Date addosso a don Piero Corsi, se credete, ma non dimenticate cosa gli hanno insegnato. Fino a qualche anno fa, nei seminari, era ancora consigliato il Manuale dei Confessori di monsignor Jean-Baptiste Bouvier: «Le donne sono sempre più inclini degli uomini al peccato di lascivia, perché attirando con la loro toeletta gli sguardi degli uomini, offrono ad essi occasione di spirituale rovina. Perciò le donne che non hanno marito, né vogliono averlo, né sono in condizione di averlo, peccano mortalmente – come dice San Tommaso – se si adornano con l’intenzione di ispirare amore negli uomini, giacché in questo caso sarebbe un amore necessariamente impuro». Se volete, abbattete la bestia. Ma non dimenticate chi e come l’ha addestrata.


Nota Poi, volendo, sì, ci si può pure scherzare sopra. Questa, per esempio, penso sia deliziosa: «Quindi, visto che i gay sono una minaccia per la pace e le donne istigano alla violenza, non restano che i bambini. Un alibi di ferro» (*). 

Poi, d’un tratto, la catarsi



Non gli mancherebbe niente per essere occasione di polemica anticlericale, basterebbero le interviste rilasciate a Pontifex.roma.it (1, 2), e poi il suo ruolo a dir poco ambiguo e reticente nella vicenda di Elisa Claps (3, 4), le accuse di aver protetto un sacerdote che aveva commesso abuso su un disabile (5), la sua fiera opposizione alla sperimentazione della Ru486 nella città di cui è vescovo (6), i suoi intrallazzi con i politici locali per scroccare denaro pubblico (7)... E infatti Sua Eccellenza è stato per anni oggetto delle puntute critiche dei radicali lucani (8), che nelle sue pastorali sentivano addirittura «l’eco del Sillabo» (9), la minaccia di uno «tzunami clericale» (10)... Per le ingerenze di monsignor Agostino Superbo, la Basilicata correva «il rischio di diventare una sorta di repubblica islamica» (11). Sua Eccellenza, insomma, era un bersaglio perfetto, perfino il suo cognome si prestava al vizietto radicale di inchiodare gli avversari al nomen omen (12)... Poi, d’un tratto, la catarsi: Sua Eccellenza annuncia che aderisce alla marcia per l’amnistia del 25 aprile (13) e i radicali proclamano le sue virtù eroiche e lo beatificano. Manca poco a farlo santo, perché ha fatto anche un miracolo: una sua telefonata ha convinto Pannella a bere un bicchiere d’acqua.
Niente di nuovo. Quando torni utile ai radicali  – puoi essere una pornostar, un boss della  ’ndrangheta, un terrorista rosso o nero, perfino un vescovo – sei una persona eccezionale. Paola Turci accetta di candidarsi nelle liste radicali? Vedrete, sarà paragonata a Maria Callas. Aprisse gli occhi e capisse di aver fatto una cazzata, ridiventerebbe Paola Turci. Lo dichiarasse pubblicamente, si direbbe che canta come una cagna. Questo, ovviamente, puoi farlo con Paola Turci, non con Sua Eccellenza. Sua Eccellenza è Sua Eccellenza, è lui che ti usa fino a quando gli fa comodo. E a monsignor Agostino Superbo, al momento, torna di grande utilità questa insolita joint venture: ad aprile, quando annunciava la sua adesione alla marcia per l’amnistia, scadeva il suo quinquennio di vicepresidenza della Cei (14), aveva bisogno di qualcosa, qualcuno, che lo mantenesse sulla ribalta, e lo ha trovato in un cinico e spregiudicato par suo.  

domenica 16 dicembre 2012

sabato 15 dicembre 2012

venerdì 14 dicembre 2012

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@ladygaga                     @Pontifex_it

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giovedì 13 dicembre 2012

Il cosiddetto carisma



parafrasando l’adagio sull’araba fenice,
che ci sia ognun lo dice, cosa sia niun lo sa
 

1. Luigi Manconi scrive: «Da secoli sappiamo che il carisma, nella sua origine religiosa come in quella laica, rimanda a una sorta di grazia: qualcosa, cioè, che eccede la dimensione razionale per mobilitare risorse emotive e stati d’animo profondi, influenze sottili e suggestioni tanto impalpabili quanto coinvolgenti, dalla dedizione alla trance» (Il Foglio, 11.12.2012).
È vero, il carisma ha caratteri sostanziali e formali in tutto simili nel leader di un movimento religioso e nel leader di un movimento politico. È sempre una leadership di tipo carismatico, d’altronde, a conferire carattere religioso ad un movimento politico o carattere politico ad un movimento religioso. Direi di più: senza un leader carismatico è praticamente impossibile che un partito assuma forma di chiesa o una chiesa assuma forma di partito. La formula è apodittica, ma non conosco caso che smentisca.
Altrettanto vero, inoltre, è che in un movimento a guida carismatica sono sempre rintracciabili, e con estrema facilità, elementi di natura psichica, per lo più inconsci, che inducono ad una dipendenza, la cui più peculiare espressione sta nella cieca devozione al leader, al quale Dio – o la Natura – avrebbe conferito poteri eccezionali e virtù straordinarie.
Quando si parla di carisma, è inevitabile citare Max Weber, che in un saggio più citato che letto afferma che si tratta di quella «qualità della personalità di un individuo, in virtù della quale egli si eleva sugli uomini comuni ed è trattato come uno dotato di qualità soprannaturali, sovrumane, o quanto meno specificamente eccezionali, non accessibili alle persone normali, considerate di origine divina, basate su poteri magici» (Wirtschaft und Gesellschaft, 1922). È la «qualità» che in Luigi Manconi diventa «una sorta di grazia».
È su questo punto ch’io ritengo si commetta un grave errore, che è quello di considerare il carisma come un dato oggettivo, incontestabilmente reale. A mio modesto avviso, invece, il carisma è un prodotto relazionale e, anticipando le conclusioni, penso che si dovrebbe smettere di considerarlo come «una sorta di grazia» della quale un leader può essere dotato o meno, ma «una sorta di disgrazia» nella quale incorrono quanti si fanno seguaci di un leader dalla personalità severamente disturbata.
Luigi Manconi pare non trascurare questo aspetto e infatti scrive: «Non mi interessano in alcun modo le conseguenze direttamente politiche e tanto meno sociali di una simile condizione. Mi interessa, qui, solo ed esclusivamente il suo effetto psichico: e, tra le conseguenze che ciò ha sulla coscienza individuale, lo stato di dipendenza che comporta. Per dipendenza intendo una peculiare forma di sudditanza fisica o psichica (ma anche fisica e psichica) da un singolo o da un gruppo, da un comportamento o da una sostanza, da una combinazione di eventi o da un clima. […] Dipendenza [che] non offre scampo né tregua e non ha un andamento progressivo e una crescita lineare [ma] si presenta, da subito, in forma parossistica, come pandemia e come emergenza clinica».
Tutto esatto, anzi, direi che qui siamo ad un passo dal liberarci dall’errore di fissare il significato di ciò che chiamiamo carisma al suo etimo – siamo, cioè, vicinissimi al capire che un movimento a guida carismatica realizza una «psicopatologia di gruppo» – ma per allontanarcene con uno scarto che francamente è incomprensibile, perché Luigi Manconi conclude: «Eppure deve essere bellissimo precipitarvici, perdersi in quell’“inconscio mare calmo”, smarrirsi in quella vertigine».
Lo spunto per parlare del carisma e dell’«effetto gorgo» cui si abbandonano i seguaci di un leader carismatico gli è offerto da un editoriale di Giuliano Ferrara nel quale una «feroce rappresentazione» della leadership di Beppe Grillo s’attaglia pure a quella di Silvio Berlusconi, dunque è probabile che in quel «deve essere bellissimo…» vi sia una buona dose d’ironia. E tuttavia, se pure così fosse, sarebbe ironia fuori luogo: non si ironizza su uno stato patologico, non si sfotte chi è malato, non è affatto divertente dire «beato te» a un tossicodipendente.

2. Su queste pagine ho più volte affrontato la questione del carisma, anche se non l’ho mai trattato come un problema isolato dal contesto in cui si riscontra più di frequente, che è quello del gruppo ad impronta settaria. Nel discutere degli elementi che caratterizzano questo genere di gruppo ho quasi sempre fatto ampio ricorso ai contributi che la letteratura psicoanalitica fornisce al riguardo e la stretta correlazione tra leadership di tipo carismatico e settarismo, che qui può darsi appaia non adeguatamente argomentata, è tutta nelle voci bibliografiche cui ho rimandato (Otto Kernberg, Le relazioni nei gruppi, Raffaello Cortina Editore 1999; Marc Galanter, Culti, SugarCo 1993; Robert Cialdini, Le armi della persuasione, Giunti 1995; Manfred Kets De Vries, Leader, giullari e impostori, Raffaello Cortina Editore 1994): testi nei quali il gruppo ad impronta settaria trova ragione del suo “momento” psicopatologico nella natura della rete relazionale che si realizza tra i suoi componenti, ma solo nella dimensione della dipendenza dell’intero gruppo ad un leader dai connotati caratteriali e comportamentali ben precisi, seppure in un ventaglio di variabili discretamente ampio. Bene, questi connotati sono costantemente funzionali alla rappresentazione delle virtù e dei poteri che il sociologo considera come il «convesso» del leader, ma che lo psicoanalista riconosce come il «concavo» del gruppo.
Qui non citerò ancora i passi già citati in passato, ma approfitterò della felice coincidenza della traduzione in italiano di un breve saggio di Alexander Haslam e Stephen Reicher (Il segreto del carisma) pubblicato su un fascicolo di Le Scienze (Mente, X/96 – pagg. 24-31), ancora in edicola, che ha il pregio di sintetizzare assai bene le ragioni del guardare al «concavo» del problema, lasciando perdere il «convesso» di cui Dio – o la Natura – avrebbero dotato un leader al quale sia unanimemente riconosciuto il carisma fuori e dentro al gruppo che guida.
«Sono i seguaci a distinguere il leader dagli altri [individui del gruppo] e così gli conferiscono carisma. Ricerche empiriche [lo] confermano, e in particolare il lavoro svolto da James Meindl della State University of New York a Buffalo e dai suoi colleghi. Meindl […] ha analizzato 30.000 articoli di quotidiani che menzionavano la leadership di manager aziendali. Nel 1985 riportarono una forte correlazione fra riferimenti a leadership carismatiche e migliori performance dell’azienda. La scoperta suggeriva due possibilità: o le decisioni del leader avevano condotto a miglioramenti organizzativi, o quando la gente nota che una società ha performance migliori, ne deduce che il risultato dipende da una leadership carismatica. Per risolvere questo problema Meindl ideò un esperimento che completasse lo studio. […] Presentò ad alcuni studenti di business school le informazioni biografiche sull’amministratore delegato di una società di fast food, insieme alle performance dell’azienda per un periodo di dieci anni. Ad alcuni partecipanti venne detto come la compagnia fosse passata dal fare profitti a subire perdite (crisis decline), ad altri fu mostrato come gli affari fossero sempre rimasti in perdita o in uno stabile profitto, e ad un terzo gruppo venne detto che si era passati da perdite a profitti (crisis turnaround). Infine fu chiesto ai partecipanti di valutare il carisma del leader in una serie di scale che valutavano le performance dell’azienda. Sebbene il carattere fosse sempre descritto allo stesso modo, il leader venne ritenuto carismatico quando le fortune dell’azienda erano migliorate. Meindl concluse che il carisma non è una caratteristica personale del leader, ma un attributo creato dai seguaci sedotti dalla “storia d’amore della leadership”. In breve, il carisma è più un’illusione che un tratto caratteriale». Aggiungerei: quando le cose mettono male per un movimento a guida carismatica, non si è soliti sospettare che il leader abbia perso il suo carisma?
Ma non è tutto. «Nel vedere il carisma c’è di più che osservare il successo. Prove ottenute in altre ricerche suggeriscono che difficilmente attribuiamo carisma all’allenatore di una squadra avversaria che straccia la nostra, o al leader di un partito rivale che sconfigge il nostro alle elezioni. Ci vuole, insomma, un leader che abbia successo per noi». È in gioco – proseguono gli autori – «il senso di us-ness (in italiano potremmo dire senso di “noi-ezza”) che riconosciamo quando ci riferiamo a “noi americani”, “noi studenti”, “noi tifosi della Juventus” e così via. […] Quando ci definiamo appartenenti a un gruppo […] cominciamo a vedere quel collettivo come diverso, e migliore, di altri gruppi. […] Tendiamo anche a riconoscere gli altri membri del nostro gruppo come più utili a far progredire gli interessi del gruppo di quanto possano esserlo degli estranei. Una ricerca condotta dalla psicologa Daan van Knippenberg dell’Università Erasmus da Rotterdam e dai suoi colleghi Nathalie Lossie e Henk Wilke ha mostrato che indipendentemente dagli argomenti addotti dai leader per spiegare nuove strategie politiche […] [i seguaci] sembrano più influenzati da quei leader i cui punti di vista sembrano rappresentativi di quelli del [movimento politico che guidano] […] In altre parole, prima di affidarci ad un leader abbiamo soprattutto bisogno di credere che sia “uno di noi”».

3. Siamo dinanzi ad evidenze di tipo sperimentale, ma che ci consentono di trovare significative concordanze con quanto abbiamo acquisito dalla teoria psicoanalitica dei gruppi.
Nelle straordinarie virtù e negli eccezionali poteri che attribuiamo ad un leader, ma che invece riteniamo egli possegga per «una sorta di grazia», vi è l’investimento emotivo di un “noi” che mira a un successo: il leader carismatico risponde ad un bisogno che va dalla più bassa frustrazione dinanzi ad ostacoli che riteniamo insormontabili alla più alata speranza di essere il sale della terra e di essere destinati a fecondarla del meglio del meglio. In altri termini, potremmo dire che col conferimento del carisma ad un leader troviamo sollievo alla nostra impotenza ed investiamo energie psichiche nella costruzione di un prodigio che ce ne liberi. Di qui quella tensione soteriologica che dà coloriture messianiche a un leader politico e che lo rende in tutto simile al sommo sacerdote che amministra un culto religioso facendoci da ponte per una dimensione ultraterrena. Di qui la sostanziale e formale similitudine vi ho fatto cenno in precedenza che viene a realizzarsi tra partito e chiesa quando al leader politico o a quello religioso viene attribuita «una sorta di grazia»: il leader politico diventa incarnazione di una potenza divina, il leader religioso diventa il mandatario di un progetto divino da compiersi nel sociale.
E tuttavia non tutto torna, perché non sono affatto rari i casi in cui, a fronte di un evidente «crisis decline» del gruppo, un leader carismatico non perde affatto carisma agli occhi dei suoi seguaci. Sembrerebbe paradossale, ma non lo è affatto quando agli elementi fin qui considerati se ne aggiunge un altro, che è quello più patognomonico del leader – cito Otto Kernberg – «con imponenti caratteristiche paranoidi e narcisistiche». In questo caso, il gruppo è indotto a considerare il «crisis decline» come effetto non già di una perdita delle eccezionali virtù e dei poteri soprannaturali di cui prima il leader era dotato, e ora non più, ma come segmento di una parabola che porta al «crisis turnaround» solo attraverso un atto sacrificale, che altro non è che forma sublimata delle pulsioni autodistruttive del leader.
Troppo complicato? Si fa presto a rendere tutto semplice con un esempio: quello dei radicali di Marco Pannella, un caso di scuola in cui il carisma si trasforma in marasma senza che venga meno la devozione dei seguaci al proprio leader, con quanto di patologico è da attendersi nella rappresentazione della «us-ness» (Kernberg parla di «effetti paranoiagenetici» che si strutturano in una dimensione morale - cap. VII e cap. IX). Ma della «cosa radicale» ho già parlato tanto e non penso che sia il caso di annoiare il mio lettore ripetendo il già detto.   

mercoledì 12 dicembre 2012