Francesco
Crispi, Pensieri e profezie, Casa
Editrice Tiber 1920 – pag. 202
venerdì 18 luglio 2014
[...]
Se
la sentenza che lo condannava era politica, non si può escludere lo sia anche
quella che lo assolve. Se è fin troppo chiaro quale fosse il fine della sentenza
che lo condannava, occorre chiedersi quale sia quello della sentenza che lo
assolve. Dunque possiamo evitare di attendere le motivazioni che la Corte d’Appello
è tenuta a depositare entro i prossimi 90 giorni – daranno una lettura
diametralmente opposta a quelle della condanna in primo grado e, al pari di
quelle, saranno meramente funzionali al fine che oggi politicamente impone
altra lettura dei fatti di quell’ormai lontano 2010 – e passare a considerare
le ragioni politiche che hanno reso superflua la conferma della condanna o
perfino utile – sul piano politico, ovviamente – l’assoluzione odierna. Prima
di farlo, tuttavia, occorre chiederci cosa ci consenta di poter far nostra sia la
tesi che in questi anni è stata sostenuta da Berlusconi e dai suoi, e cioè che
la condanna fosse politica, sia quella che da domani in poi sarà a buon diritto
sostenuta da chi ci dirà che lo è stata anche l’assoluzione. Senza
contraddizione, peraltro, perché la politica ha occorrenze tutte contingenti, e
ovviamente mutevoli. Direi ce lo consenta la grande versatilità con quale la
magistratura legge gli atti: sempre gli stessi, ma lì a comprovare gravi reati
e qui a concludere non sussistano. La libera interpretazione, d’altronde, è
nella natura del giudizio. E sulla libertà, si sa, grava il rischio dell’errore.
In quanto all’errore, poi, è umano trovarsi ad esserne vittima o autore. Vai a
capire, così, se fu un errore condannare Berlusconi, allora, o non lo sia l’averlo
assolto, ora: impossibile cavare il ragno dal buco. Conviene rispettare le
sentenze, e questo è ovvio, ma anche evitare di commentarle, perché ogni
commento, positivo o negativo, finisce per essere, intenzionalmente o meno, un’opinione
politica. Ma non siamo nell’epoca in cui la politica dichiara con fierezza di
poter fare a meno delle opinioni per dover dare conto solo ai fatti? E allora
sia: ieri prevalevano le forze che volevano l’eliminazione politica di Berlusconi
per via giudiziaria, l’unica che si è rivelata efficace, e oggi prevalgono
quelle che gli concedono una via di fuga, in cambio di qualcosa. E non c’è bisogno
di pensare che la magistratura che oggi lo assolve sia organica a tale disegno,
come d’altronde non c’era bisogno di sospettare che quella che ieri lo ha
condannato fosse pedina del complotto ai suoi danni. Come diceva Gorgia: nulla
esiste; se esiste, non è conoscibile; se è conoscibile, non è comunicabile. Si
aggiunga: se è comunicabile, non è delicato.
Amor vincit omnia
Tale
è la quantità di cazzate che Marco Bona Castellotti riesce a stipare in poco
più di 3.500 battute spazi inclusi – parlo dell’articolo che firma per Il Foglio di mercoledì 16 luglio – che
viene un sospetto: avrà voluto divertirsi a pigliarci per il culo?
Scrive dell’Amor vincit omnia del Caravaggio e
attacca il pezzo con un aneddoto tratto da Le
vite de’ pittori messinesi di Francesco Susinno che potrebbe dare indizio
di «inclinazioni pedofile» del
Merisi, però afferma non ne costituisca prova. Perché citarlo, allora? Perché
allo Staatliche Museen di Berlino, dove è esposto il dipinto, «un gruppo di signori e signore tedeschi ne
hanno chiesto la rimozione con l’accusa di essere un’immagine che può
alimentare la pedofilia». Quand’anche l’alimentasse, dovrebbe indurci
almeno a sospettare che il Caravaggio fosse pedofilo? Di soggetti in età
prepuberale ritratti nudi è piena la storia dell’arte: la questione si solleva
anche per Il bagno del neonato di
Benozzo Gozzoli e per la Sacra famiglia
con San Giovannino di Andrea Mantegna?
Domande che oggi non hanno senso,
conviene consultare le fonti storiche per verificare se il dipinto del Caravaggio le
abbia sollevate in epoca anteriore a quella in cui la pedofilia ha cominciato
ad essere riconosciuta in quanto tale. Bene, c’è da constatare che non le abbia mai sollevate, e non è nemmeno difficile capire il perché: la nudità di un
fanciullo ha cominciato a scandalizzare solo da poco più di un secolo in qua. Quando
il Caravaggio si vedrà censurata la prima versione di San Matteo e l’angelo, il problema non era l’angelo prepubere seminudo
ma il santo con la faccia da rozzo contadino, per giunta coi piedi sporchi. Se la
Congregazione dei Palafrenieri gli rifiuterà la Madonna del serpe, non sarà per il Gesù sui sei-sette anni che lì è ritratto interamente
nudo, ma per gli abiti da pezzenti che stanno addosso alla Vergine e a Sant’Anna.
Alla Controriforma non dà alcun fastidio la nudità di bambini, ragazzi,
adolescenti o adulti, se si tratta di soggetti maschili: il problema si pone
solo per i soggetti femminili, uno per tutti valga l’esempio dei guai che capitarono ad Agostino Carracci per gli affreschi di Palazzo Farnese. C’è anzi
da rilevare che quando la nudità crea qualche problema, com’è nel caso in cui
si commissionano a Daniele da Volterra i mutandoni per le pudenda ritratte da
Michelangelo sulla volta della Cappella Sistina, la questione non tocca mai
soggetti in età prepuberale, e per una semplicissima ragione: il ragazzo nudo evoca sempre, o quasi, l’ideale di innocenza, non sollecita mai reazioni di scandalo, perché in
pratica è considerato un essere asessuato. E per l’Amor vincit omnia abbiamo una prova diretta in ciò che scrive il
cardinale Federico Borromeo nel suo De
pictura sacra: nulla da ridire sull’inverecondia del soggetto, si limita a biasimare l’eccessivo entusiasmo che l’impressionante realismo del dipinto provocava in
chi l’osservava.
Possiamo concludere che il dipinto abbia sempre turbato chi avesse modo di osservarlo, ma mai perché solleticasse un’invereconda prurigine. E allora come salta in testa a uno studioso d’arte come Marco Bona Castellotti di tirare in ballo la pedofilia? Sarà mica perché il Caravaggio era omosessuale? Sarebbe prova che al professore ha fatto male l’assidua frequentazione coi ciellini. Tanto male da impedirgli di considerare l’idealizzazione della figura del fanciullo di cui il neoplatonismo ha lasciato segni per tutto l’Umanesimo e il Rinascimento. Ma questo non è tutto, perché Marco Bona Castellotti scrive che «il Giustiniani, nella sua galleria, teneva [il dipinto] coperto da un drappo, perché essendo il migliore dei quadri da lui posseduti, temeva oscurasse gli altri». Vero, ma il professore dimentica di dire che questo timore non fu mai del Giustiniani, ma di Joachim von Sandrart, che per qualche tempo fu il curatore della collezione. Ed è proprio dalle memorie del von Sandrart che abbiamo ulteriore conferma del fatto che nessun visitatore di Palazzo Giustiniani fu mai turbato dal dipinto, ed è da queste pagine che apprendiamo che non furono pochi, sicché è sconcertante che il professore scriva: «L’opera era di destinazione privatissima ed eventuali scandali non avrebbero mai oltrepassato i muri di Palazzo Giustiniani»; ancor più sconcertante che, dopo aver affermato che il soggetto sia «allusivo di sottaciute inclinazioni omoerotiche», il professore aggiunga che tuttavia sia «avventato supporre che [il dipinto] fosse una specie di emblema di una ristretta cerchia di omosessuali romani d’alto lignaggio, capeggiata dal marchese». Più che avventato direi non abbia alcuna base, e dunque perché farvi cenno? In quanto al fatto che l’Amor vincit omnia possa alludere alla potenza del desiderio omoerotico che infrange ogni freno morale, è evidente che al professore manchi la lezione di Maurizio Calvesi, che ha dimostrato con ampiezza e profondità di argomentazione che il soggetto sintetizzato nel motto latino è di chiara ispirazione al Cremona fedelissima città… di Antonio Campi del 1585, e altro non è che un’esaltazione dell’«Amor Virtuoso, cioè pur sempre di un amore sacro, divino», che ha la meglio sulle scienze e sulle arti (Caravaggio o la ricerca, poi in Le realtà del Caravaggio, Einaudi 1990).
Possiamo concludere che il dipinto abbia sempre turbato chi avesse modo di osservarlo, ma mai perché solleticasse un’invereconda prurigine. E allora come salta in testa a uno studioso d’arte come Marco Bona Castellotti di tirare in ballo la pedofilia? Sarà mica perché il Caravaggio era omosessuale? Sarebbe prova che al professore ha fatto male l’assidua frequentazione coi ciellini. Tanto male da impedirgli di considerare l’idealizzazione della figura del fanciullo di cui il neoplatonismo ha lasciato segni per tutto l’Umanesimo e il Rinascimento. Ma questo non è tutto, perché Marco Bona Castellotti scrive che «il Giustiniani, nella sua galleria, teneva [il dipinto] coperto da un drappo, perché essendo il migliore dei quadri da lui posseduti, temeva oscurasse gli altri». Vero, ma il professore dimentica di dire che questo timore non fu mai del Giustiniani, ma di Joachim von Sandrart, che per qualche tempo fu il curatore della collezione. Ed è proprio dalle memorie del von Sandrart che abbiamo ulteriore conferma del fatto che nessun visitatore di Palazzo Giustiniani fu mai turbato dal dipinto, ed è da queste pagine che apprendiamo che non furono pochi, sicché è sconcertante che il professore scriva: «L’opera era di destinazione privatissima ed eventuali scandali non avrebbero mai oltrepassato i muri di Palazzo Giustiniani»; ancor più sconcertante che, dopo aver affermato che il soggetto sia «allusivo di sottaciute inclinazioni omoerotiche», il professore aggiunga che tuttavia sia «avventato supporre che [il dipinto] fosse una specie di emblema di una ristretta cerchia di omosessuali romani d’alto lignaggio, capeggiata dal marchese». Più che avventato direi non abbia alcuna base, e dunque perché farvi cenno? In quanto al fatto che l’Amor vincit omnia possa alludere alla potenza del desiderio omoerotico che infrange ogni freno morale, è evidente che al professore manchi la lezione di Maurizio Calvesi, che ha dimostrato con ampiezza e profondità di argomentazione che il soggetto sintetizzato nel motto latino è di chiara ispirazione al Cremona fedelissima città… di Antonio Campi del 1585, e altro non è che un’esaltazione dell’«Amor Virtuoso, cioè pur sempre di un amore sacro, divino», che ha la meglio sulle scienze e sulle arti (Caravaggio o la ricerca, poi in Le realtà del Caravaggio, Einaudi 1990).
Ma
siamo solo a metà dell’articolo e il peggio ha ancora da venire. Eccolo: «Nel quadro, saggio di straordinaria abilità
mimetica, Caravaggio ha versato una dose abbondante d’ironia. A osservarlo bene
questo Amore stradaiolo, ridanciano e spudorato, ha un corpo disarmonico,
spiccando una certa sproporzione tra il braccio destro troppo corto, le gambe troppo
lunghe, la testa al limite dell’acromegalia, il busto tozzo. È impensabile che
l’insigne autore fosse incorso in errori anatomici; è invece probabile che
abbia provato diletto e soddisfazione nel volgarizzare qualche modello illustre».
Ora, a parte il fatto che da Bernardo Berenson in poi non si contano gli
studiosi che hanno segnalato i numerosi impacci che il Caravaggio mostra in
anatomia, mai come nel caso dell’Amor
vincit omnia le dette osservazioni sono fuori luogo. Procedendo, infatti, dai piani posteriori a quelli anteriori della scena, affiorano via via la spalla sinistra, la piega del gomito destro, l’avambraccio e la mano dello stesso lato, la parte superiore del torso, la spalla destra, il ventre, il volto, la gamba destra, il piede dello stesso lato, la coscia sinistra, la coscia destra e infine il ginocchio dello stesso lato: questa progressione dà ampia ragione della lunghezza dei segmenti, sicché le sproporzioni rilevate da Marco Bona Castellotti
risultano del tutto illusorie, mentre l’osservazione che in queste inesistenti sproporzioni
il Merisi abbia voluto metterci ironia, beh, lascia davvero senza parole. A margine, è da
rilevare che il professore non abbia la ben che minima idea di cosa sia davvero
l’acromegalia.
È
tutto? Niente affatto, perché il professore ravvisa che per l’Amor vincit omnia il Caravaggio «aveva attinto a una delle figure più
tragiche del “Giudizio Universale” di Michelangelo: il San Bartolomeo scuoiato,
con la pelle in mano, su cui è rimasto impresso il proprio ritratto deformato.
Un colpo di virtuosismo pittorico sensazionale». Qui di sensazionale pare
esservi soltanto un’affermazione che non poggia su alcuna fonte e non trova
alcun serio fondamento nell’analisi formale. D’altronde a questa affermazione
arriva grazie a un unico elemento che accomuna i due soggetti, seppure solo in
modo assai vago: la postura assunta dalla coscia sinistra. Trattandosi di una
postura che ritroviamo in mille altre opere d’arte, si potrebbe liquidare l’osservazione
come arbitraria e del tutto gratuita. Se è vero, infatti, che chi «vincit» è
spesso raffigurato con una coscia divaricata rispetto all’asse sagittale mediano del corpo e con un
ginocchio poggiato sul «victum», su cosa sarebbe «victor» il San
Bartolomeo michelangiolesco? Volendo a tutti i costi trovare un modello del
Buonarroti nell’Amor caravaggesco, perché non la Vittoria di Palazzo Vecchio? Il fatto è sul modello da cui il
Caravaggio ha attinto per raffigurare l’Amor proprio in quella postura c’è chi ha studiato il necessario per poter sennatamente dimostrare che si trova nei cartoni di Simone Peterzano, che del Merisi, guarda caso, fu il maestro.
In
quanto al fatto che Roberto Longhi abbia notato una somiglianza dei tratti
faciali tra il soggetto del quadro di cui stiamo discutendo e il Cristo della Cena in Emmaus, è vero, ma che valore
assume il rilievo che «entrambi i dipinti
furono realizzati nel 1602, il che vanifica l’ipotesi di una mutazione del
soma, determinata da un intervallo temporale»? «Se l’ignoto modello, per nulla ragazzino, fosse stato reclutato a
svolgere funzioni fra loro concettualmente lontanissime, significherebbe che il
pittore lo aveva voluto adattare ai differenti ruoli, invecchiandolo o
ringiovanendolo secondo la bisogna». E grazie al cazzo, c’era bisogno di precisarlo?
mercoledì 16 luglio 2014
Appunti per una «Psicologia del Supercazzola»
1. Fausto
Bertinotti ha di recente raccontato che Riccardo Lombardi dissuadeva dal rovistare nel
passato di un uomo giunto ad occupare una carica pubblica di rilievo, perché «anche un giovanotto crapulone – diceva –
può diventare un eccellente vescovo».
L’aneddoto è saltato fuori nel corso della presentazione di uno dei tanti
volumi – il quinto, se non ho perso il conto – che negli ultimi mesi sono arrivati
in libreria per spiegarci chi sia Matteo Renzi. Il consiglio del «Linge» (così
lo chiamava Gramsci) poteva andar bene per la Prima Repubblica, quando per
arrivare anche soltanto a un mezzo strapuntino nel Comitato Centrale del Pci o
nel Consiglio Nazionale della Dc era necessario il lungo apprendistato toccato
a Parsifal per farsi degno di accostarsi al Santo Graal. Col declino delle
tradizionali culture politiche italiane, col venir meno del principio che per
costruirti un piccolo feudo elettorale in Lucania dovevi aver studiato almeno
la Dottrina Sociale della Chiesa e per gestire la partita di giro tra le Coop e
le Botteghe Oscure dovevi come minimo aver seguito le lezioni di Paolo Spriano alle
Frattocchie, col sopravvento del cerone sulle rughe e della battuta spiritosa
sull’arzigogolo fumoso, con la rivoluzione che ha segnato il sopravvento dei
finti giovani sui finti vecchi, oggi basta una frangetta che faccia tenerezza al
Dario, due o tre comparsate televisive per sostenere il Pierluigi e sei pronta
a fare la vice del Matteo, al quale può bastare un brodo di coltura
neocatecumenale, un babbo da impresario e una faccia da social network per
esser pronto alla guida del governo. Non senza merito, sia chiaro, ma è che i
tempi cambiano, e coi tempi, ciò che dà merito: ieri era il darsi interamente
al proprio partito, oggi saperselo fare interamente proprio. In altri termini,
se prima era il partito alla continua ricerca dei propri quadri dirigenti e di
un leader che riuscisse ad incarnarne il portato etico-estetico, oggi chi ha la
vocazione di farsi leader la persegue e la soddisfa nel riuscire a fare di un
partito lo strumento del suo Io narrante, sicché in buona sostanza si può dire che egli è veramente leader quando il partito riesce a far propri i tratti di quel narrato. Detto in modo ancora più brutale: se
ieri era il partito a dettare i precetti di un dover-essere che nel consenso
cercava di porre le fondamenta di una comunità per quanto più gli era possibile
(come più ampia pars possibile) e il leader era colui che li traduceva in un
modello, oggi è l’essere del leader che si offre alla più ampia pars possibile
di una comunità come modello cui ispirarsi per farsi partito di maggioranza.
Più brutalmente ancora? Ieri il leader era la sintesi simbolica di un quid che
oggi è sintesi simbolica del leader. Rovistare nel passato del «giovanotto», allora, può dare ampia
spiegazione dell’operato del «vescovo»:
il suo episcopato non esprime più lo spirito di un’ecclesia che si dà il segno
del suo carisma, ma il modo in cui un’ecclesia cerca il suo spirito in quel segno, e il «vescovo» può dirsi «eccellente» solo quando questa ricerca trova soluzione. Se ieri, dunque, la psicogenesi di un leader era in tutto funzionale al ruolo che
gli avrebbe affidato il partito, oggi è il suo profilo psicologico ad
improntare il ruolo che egli dà al partito. Vien meno, in buona sostanza,
quella «rigidità di contrapposizione tra
psicologia individuale e psicologia sociale o delle masse» che già nel
1921, «a una considerazione più attenta»,
per Sigmund Freud era solo apparente, giacché «la massa è straordinariamente influenzabile e credula, è acritica, per
essa non esiste l’inverosimile [e] pensa
per immagini [sicché] chi desidera
influenzarla non ha bisogno di argomentazioni»: basta che «le doti personali di costui corrispondano
alle sue aspettative» (Massenpsychologie
un Ich-Analyse).
2. Il limite più grosso di ogni tentativo fin qui fatto per
capire chi sia Matteo Renzi andando a rovistare nel suo passato è stato quello
di aneddotizzarne i tratti salienti per costruire un modello coincidente a una tipologia di personaggio: nulla mi pare sia stato seriamente fatto per un approccio di tipo psicologico alla personalità. Ritengo sia superfluo in questa sede rimandare a ciò che nel personaggio va perso della personalità, basti rammentare che il profilo psicologico di una persona dramatis è in tutto funzionale alla rappresentazione di un evento scenico, mentre il piano sul quale va in scena il drama personae trova teatro in tutt’altra dimensione (cfr. Maria Pia Arrigoni e Gian Luca Barbieri, Narrazione e psicoanalisi, Raffaello Cortina Editore 1998 - in particolare, pagg. 101-115). Senza entrare nel merito di quanto questa semplificazione abbia sottratto alla possibilità di comprensione dei moventi primi che fanno dell’attore (in senso stretto) una maschera (in senso lato), mi limiterò a darne un esempio. Nel corso di un talk show andato in onda su La 7 lo scorso 27 febbraio una antropologa, la professoressa Amalia Signorelli ha detto: «Mi pare che il carattere predominante nel carattere di Renzi sia il suo tirocinio di boyscout», e ha spiegato che tutto l’armamentario di «vestiti, borracce, zaini, coltelli, cappelli speciali e tutto il resto» che quel corpo ritiene necessario «per convincersi che una gita su una collina alta non più di mille metri sia simile a una spedizione nella foresta dell’Amazzonia» rivela una forma di esaltazione che può sennatamente dirsi ridicola. Considerazioni da antropologo, appunto. Nulla che vada più in là del profilo psicologico che accomuna tutti i boyscout. In questo caso, viene meno l’analisi in un fattore come l’empowerment, che è basilare nella formazione dello scout. La notazione, peraltro acuta, perde così specifico nella psicogenesi del leader con Io ipertrofico ed esasperato bisogno di controllo delle attività dei gregari. Basterebbe un cenno ai lavori di Julien Rapaport e Marc Zimmerman o, per citare uno studio in italiano, il contributo essenziale di Gian Piero Quaglino (cfr. Scritti di formazione 1976-2006, vol. IV, Franco Angeli Editore 2007), accostando tali dati alle tracce autobiografiche disseminate nelle numerose interviste rilasciate negli ultimi anni. Per questo aspetto, come per altri, quella che maggiormente offre spunti di diagnosi è senza dubbio quella rilasciata a Michele Cucuzza e poi raccolta con altre in Sotto i 40 - Storie di giovani in un paese vecchio, Donzelli 2007 (pagg. 51-66): «Tra i diciassette e i vent’anni, l’età in cui vuoi dare un calcio al mondo e hai fiducia in te stesso forse in eccesso, ho capito quanto fosse importante [...] il cogliere la soddisfazione dell’avanzata passo dopo passo, più che il conseguimento della meta in sé». Il muoversi per muoversi, il fare per fare, per la mera gratificazione che se ne può trarre. E così per un altro capitolo del romanzo di formazione, che rivela un altro tratto nel processo di fissazione che, vedremo, è l’elemento psicopatologico di contesto: l’esaltazione nella decisione rapida, rivelata nella descrizione dell’esperienza di arbitro di calcio: «Fare l’arbitro significa che devi decidere. Lo devi fare in una frazione di secondo, senza possibilità di delegare ad altri. Devi avere grande autocontrollo, serenità e capacità di dialogo, ma quando hai deciso, hai deciso». In questo caso, come in quello precedente e in quelli che analizzeremo successivamente, non mette conto dare per attestate in Renzi le virtù dello scout e dell’arbitro di calcio per quelle che sono, ma per come sono descritte. Il passaggio dalla trama aneddotica alle tappe della psicogenesi si ha nel tradurre l’esperienza nel suo narrato, per procedere da questo a ciò che esso implica come costruzione dell’ideale dell’Io (qui inteso nel senso in cui Janine Chasseguet-Smirgel l’ha posto in relazione alla «malattia dell’idealità» - cfr. Raffaello Cortina Editore 1991).
[segue]
martedì 15 luglio 2014
[...]
Non
fosse sempre stata guastata dal palese intento di infierire sul cadavere del comunismo, la
revisione storica che fa della Resistenza un affresco in cui si affollano,
furiosi, solo vili e fessi, tutti affratellati, seppure irriducibili nemici, da
miserabili interessi, non ultimo quello di salvar la pelle, che in fondo,
quando si millanta vocazione eroica, è il più miserabile di tutti – non
fosse mossa da mera fregola iconoclasta, insomma – la revisione storica della
Resistenza avrebbe l’indubbio pregio di rammentarci che, fatte salve le anime
belle che della partita in gioco regolarmente finiscono per capir poco o
niente, riuscendo tutt’al più a immortalarsi in tragici cammei, gli italiani
non son tagliati per l’epica, se non per quella che si declama quando è il momento
del brindisi, quando si è già un pochino alticci. Nell’immaginarsi un finale di partita coi berlusconiani
all’assalto del Palazzo di Giustizia, per esempio, Nanni Moretti voleva darci il
brivido della guerra civile, e in un buona misura ci è riuscito, ma eccolo lì, il popolo dei fedelissimi che per
Silvio Berlusconi giurava avrebbe versato fino all’ultima goccia di sangue:
Dudù, la Santanchè e il poco che resta della servitù, peraltro molto anemica. O
forse sarà stata una scaramanzia, quel chiudere Il Caimano con sì fosco
presagio di torbidi e lutti e pianti a straziare il paese. O forse – perché no
– sarà stato un peloso concedergli l’onore delle armi: ti ritraggo da tiranno, e con piena dignità di tiranno, così il tuo fallimento politico sembrerà un vero tirannicidio. Sono i brutti tiri che gioca la retorica, perché pare che pure
Benito Mussolini abbia implorato gli salvassero il culo, e in cambio avrebbe
dato tutto quello che poteva: robe che non avrebbero fatto onore né ai fascisti
né agli antifascisti, e allora andasse in scena – secondo il punto di vista che
offriva la poltrona in platea – il «pietà l’è morta», il «giustizia è fatta!», il
«così va il mondo», ecc.
Sic stantibus rebus, la sentenza d’appello sul
cosiddetto caso Ruby corre il serio rischio di essere degradata alla scivolata su una merda. Il sangue, ancora una volta manca il sangue.
venerdì 11 luglio 2014
[...]
Chi
fruga nell’altrui intimità con la disinvoltura di chi ha ottenuto un diploma di
psicologo grazie ai punti della spesa fatta alla Lidl dovrebbe esser disposto a
concedere pari licenza a chi voglia frugare nella sua. Mi auguro che Mario
Adinolfi voglia perciò permettermi una domanda a margine del post in cui
scandaglia l’animo del figlio che Sherri Shepherd «aveva acquistato con il meccanismo dell’utero in affitto», per poi
«rifiutarlo», per sostenere con la
sicurezza di chi coi punti restanti s’è portato a casa pure un diploma in pedagogia
e una pratica pirofila con presa ignifuga che per il pargolo si prospetta un sicuro destino da
infelice (segue appuntamento per il tal giorno, alla ora x, «per combattere i retrogradi che vogliono
portarci a due millenni fa, quando le persone erano cose»); e la domanda è questa:
essere concepiti senza il ricorso a queste diavolerie mette al riparo dal
sentirsi «non voluto più da nessuno» e
«lasciato nella solitudine» anche
solo un po’ di più che ad essere stati concepiti ricorrendovi? Per meglio dire:
sulla base di quali dati statistici si può trarre questa convinzione? Oppure: non
si può essere abbandonati anche da genitori che ti hanno concepito secondo natura? Di più: non ci si può
sentire abbandonato, rifiutato, anche senza mai esserlo stato nel modo in cui è
toccato al figlio di Sherri Shepherd? E allora: con quale ottusa determinazione
si può affermare che «in tutto questo
delirio molto americano, c’è un essere indifeso, solo, che sta per nascere
nella desolazione totale»? Non è meglio nascere comunque, come afferma chi è
contro l’aborto? La vita non vale la pena di essere vissuta comunque, come
afferma chi è contro l’eutanasia?
Visto, Adino’?
Dalla premessa avrai temuto che stessi per tirare in ballo il suicidio di tua
sorella, concepita come si deve, ma per delicatezza mi sono trattenuto, anche se ti confesso che l’intenzione c’era. È che sotto
casa ho la Carrefour e non raccolgo punti.
giovedì 10 luglio 2014
In buona evidenza
Si immagini un Parlamento in cui il 55% degli
eletti corrisponda al 37% dei votanti per il partito che li candidava in una
lista bloccata. Niente preferenze, il loro posto in lista l’ha scelto chi è
padrone di quel partito, che col 37% dei voti va dritto dritto alla guida del
governo. Con un Parlamento in cui la maggioranza assoluta è composta di uomini
che ha scelto lui, e che non saranno ricandidati se non gli mostreranno cieca obbedienza,
si confeziona le leggi che vuole, e con ciò potere esecutivo e potere legislativo
vanno a finire nelle stesse mani, le sue. Non basta, perché con una riforma
della giustizia che così avrà modo di costruirsi come cazzo gli pare non avrà
difficoltà a limitare autonomia e indipendenza della magistratura, rendendola
soggetta ai suoi voleri.
Dovrà ritoccare la Costituzione? Ne avrà la
forza. Quand’anche non ne avesse a sufficienza, avrà una Corte Costituzionale
che per un terzo sarà composta dai membri scelti dal suo Parlamento e per un
terzo da quelli scelti dal Presidente della Repubblica che si sarà eletto a suo piacimento,
perché col 55% dei seggi alla Camera (340 su 630) gli basterà poco più un terzo
del Senato che avrà provveduto per tempo a riformare come cazzo gli pare per
mandare al Quirinale chi più gli possa tornar comodo: 10 membri su 15 della
Corte Costituzionale vidimeranno ogni sua porcata.
Superfluo dire che di
contorno sarà necessario il controllo della comunicazione televisiva, il placet
della finanza, forze di opposizione ricattabili se non velleitarie e
irrilevanti, ma soprattutto un popolo da lungo tempo degradato a plebe. Mi pare che non manchi niente.
In buona evidenza, non c’è più bisogno di un
colpo di stato per avere una dittatura. Dittatura, poi, è termine che ormai provoca l’eczema anche a chi ha una pellaccia:
meglio dire post-democrazia. Idem per colpo di stato, espressione così desueta
che quasi ha un che di romantico. Meglio dire, come d’altronde il battage
propagandistico non smette di ripetere, che serve governabilità e stabilità, fanculo
a gufi e parrucconi.
In buona evidenza, non c’è più bisogno di un grugno truce
da colonnello per dichiarare lo stato di emergenza: esecutivo, legislativo e
giudiziario possono finire nelle mani di uno solo anche se si ritrova la faccia
da cretino, basta non gli facciano difetto lo scilinguagnolo e i modi spicci.
Se poi si tratta di uno che non ha perso tempo a rovinarsi gli occhi sui libri,
ma l’ha proficuamente impiegato a imparare il know-how del venditore, basta ne
imbrocchi due o tre di quelle furbe e riesce in niente a costruirsi una squadra
di leccaculo e di sciacquette a drogarlo di autostima. Nel venire a galla, la merda acquista abbrivio.
Voilà, l’«orribile
dispotismo» che Montesquieu descrive ne De
l’esprit des lois (XI, 6), e senza alcuna speranza che il despota si
ritrovi una spanna di lama in pancia.
venerdì 4 luglio 2014
Corrispondenze
Malvino,
so che questo non è un jukebox, ma non riesco a non esprimere il vero desiderio
di leggere un suo commento sull’ultima uscita dell’amico Adinolfi, a commento
della foto che ritrae i due padri che in Canada prendono in braccio la “loro”
bambina in sala parto.
Davvero,
non lo dico riferendomi alla sicura ironia che quel nome genera, ma realmente
rispetto all’immagine in sé di fronte alla quale non riesco a sentirmi su una
posizione che mi appaia chiara e in questi casi le sue direzioni sono spesso d’aiuto.
Lo
chiedo a lei perché medico, perché espositore chiaro quando il tema è quello,
perché padre, perché non cattolico e solo alla fine perché abile ironico quando
di Adinolfi si tratta.
Per
dire che quell’ultima parte può anche non esserci, la mia è davvero la
richiesta di una possibile direzione, perché quella foto mi lascia in una
condizione sospesa che non mi capita spesso e per questo non le chiedo una
lettura della foto ma del perché possa lasciare sospesi, cosa di quella foto
impedisce o rende difficile una lettura unica e sicura.
Il nodo
è la questione del primo contatto di pelle che quella foto racconta.
Non
riesco a dirlo giusto ma non so perché, essendo intimamente sicuro di non
essere a rischio di qualsiasi forma di omofobia.
Parlo
proprio di simbiosi biologica corpo madre-corpo figlio.
È davvero solo un problema etico?
È davvero solo un problema etico?
Bruno
A mio modesto avviso, lei si fa troppi scrupoli: “condizione sospesa” è una carineria, dica “disagio”, ché non fa differenza. Ora, nel pormi la questione, lei implicitamente mi chiede se io senta un analogo “disagio”, dando per scontato ch’io non possa non sentirlo, salvo congrua spiegazione del perché non lo senta. In pratica, dà per assodato che la foto debba provocarlo, e per ragioni autoevidenti, mentre è il fatto che non lo provochi a rendere necessaria una spiegazione. Superfluo chiedersi il perché: la situazione ritratta nella foto le sembra più o meno palesemente “innaturale”.
E qui, consenta, siamo alle solite: siamo al cosa
sia “natura”, se una realtà che sta prima e sopra l’essere umano o la
particolare idea che si coltiva di sé, degli altri e delle cose tutte, idea
che, pur lentamente, è soggetta a ineluttabili cambiamenti, spesso con veri e propri salti.
E non c’è dubbio che, a considerare la riproduzione umana in tutti i suoi
aspetti come qualcosa che sta prima e dopo l’uomo, la foto può provocare un
certo disagio. “Un certo disagio”, perché in fondo il neonato è per metà dell’uomo
che commosso lo stringe al seno. Di fatto, egli è un padre. E allora cos’è che
rende la foto “innaturale”? È il fatto che la donna che ha partorito quel
neonato è l’altro genitore biologico, ma qualcosa ci informa che non sarà lei ad allevarlo: al suo posto ci sarà il compagno del
padre biologico.
È condizione che in “natura” avviene non di rado, ma qui
scatena l’ampia gamma di reazioni che va dalla perplessità allo sgomento, e la “simbiosi
biologica corpo madre-corpo figlio”, come la chiama lei, diventa l’immagine di
un principio che qui pare violato. Prim’ancora di rimarcare che
questa “simbiosi” cessa con la recisione del cordone ombelicale, c’è da
ribadire che paternità e maternità sono “anche” questione biologica, ma questa
non le esaurisce, né esse cadono al cadere di quella.
È che col matrimonio sta
accadendo quello che è avvenuto col patrimonio: il termine comincia a includere
altri modi di essere marito e moglie, padre e madre. Turba, mi rendo conto, ma
è impossibile far resistenza, se non nella speranza di frenare un po’, per quel
che può tornare di rassicurante nell’illudersi di impedirlo, invece che a pensare come dargli adeguato quadro normativo. E per adeguato non intendo atto a renderlo tollerabile, ma ragionevolmente accettabile.
Per questo come per altro, siamo alla resa
dei conti - tanto più drammatica perché tocca i fondamentali - tra il
creaturale e il culturale, e il primo sembra spacciato. A posteriori, la stagione delle “guerre culturali” attorno alle “questioni non negoziabili” era il colpo di coda di un animale che già agonizzava. Mancherà solo a chi piace polemizzare per polemizzare.
giovedì 3 luglio 2014
mercoledì 2 luglio 2014
[...]
Riprendo
da ciò che ho scritto una ventina di giorni fa: «La cosiddetta personalizzazione della politica è vecchia quanto la
politica, la cosiddetta morte delle ideologie non ha fatto altro che metterne
in evidenza alcuni aspetti che fino ad alcuni decenni fa erano in larga misura
mascherati dall’assumere la figura del leader politico come migliore interprete
di questa o quella ideologia. Venuta meno l’automatica identificazione di un
partito in una posizione ideologica, al leader non è rimasto che interpretare
un narrato personale che includesse al meglio le evocazioni dei fattori in
grado di surrogare un’appartenenza su altre basi. Diremmo che il simpatetico
che fidelizzava i militanti di un partito e gli individui di un corpo
elettorale sia stato degradato dal piano etico che l’ideologia aveva la pretesa
di rappresentare a quello estetico sul quale la persona del leader oggi
pretende di ritagliare l’hortus conclusus di una storia – la sua – come
rappresentazione di un’unità di intenti».
Se
le cose stanno a questo modo, non è più possibile alcuna difesa argomentata di
una posizione politica, ma solo esprimere il proprio gradimento in favore del
suo succedaneo. Ugualmente, il confutarla sarà giocoforza surrogato in un
giudizio di carattere eminentemente estetico: viene meno ogni fondamento al
potersi esprimere con la formula «condivido/disapprovo»,
e a disposizione resta solo il poter dire «mi
piace/non mi piace». È in questo che si rivela il tratto essenzialmente
autoritario di una società che al confronto tra quei diversi, opposti,
irriducibili «complessi di credenze,
opinioni, rappresentazioni, valori che orientano un determinato gruppo sociale»
(Treccani), che chiamavamo «ideologie»,
sostituisce la rappresentazione di patterns estetici alla quale si è chiamati
per dare o no il proprio «like»: dall’appartenenza
a un gruppo sociale, a una classe, ad un partito, fondata sulla condivisione di
una Weltanschauung, si passa all’inerenza che separa una platea in settori di
gradimento, e il cittadino si trasforma in spettatore.
La crisi della democrazia – la sua deriva populista – ha trasferito alla politica i caratteri della competizione sportiva. Non a caso le metafore sportive sono diventate d’uso quotidiano nel commento dell’evenemenzialità politica proprio da quando al cittadino si è concesso il mero ruolo di tifoso, al quale non è dato di decidere la formazione del team o lo schema tattico, ma solo eventualmente di cambiare squadra per cui tifare. E il campionato si è ridotto a due o tre squadre.
La crisi della democrazia – la sua deriva populista – ha trasferito alla politica i caratteri della competizione sportiva. Non a caso le metafore sportive sono diventate d’uso quotidiano nel commento dell’evenemenzialità politica proprio da quando al cittadino si è concesso il mero ruolo di tifoso, al quale non è dato di decidere la formazione del team o lo schema tattico, ma solo eventualmente di cambiare squadra per cui tifare. E il campionato si è ridotto a due o tre squadre.
martedì 1 luglio 2014
[...]
«Sono
sicuro che il potere degli interessi costituiti è assai esagerato in confronto
con l’affermazione progressiva delle idee», così John
Maynard Keynes in Teoria
generale dell’occupazione, dell’interesse, della moneta (Utet, 2005 - pag.577). Ed è espressione di fiducia nel progresso che non tiene dovuto conto del fatto che gli interessi costituiti riciclano costantemente le idee che li hanno resi tali. Talvolta a muoversi è il paesaggio, anche sfrecciando, ma il treno resta fermo: chi ci finisce sotto, in pratica, ci si infila risucchiato.
lunedì 30 giugno 2014
Gli torna utile anche una faccia da cretino
Alcuni
lettori mi hanno pregato di spiegare meglio il senso della frase che apriva uno
dei miei ultimi post: «Ogni parallelismo
tra Matteo Renzi e gli altri Uomini della Provvidenza della nostra storia
patria – scrivevo – corre il serio
rischio di rivelarsi sghembo dopo le prime due o tre analogie». Credo nella
Provvidenza? Ignoro il rischio che comporta ogni parallelismo in sede storica?
Cos’è che rende Renzi un caso a parte rispetto a «gli altri Uomini della Provvidenza della nostra storia patria» che
ho dato per inteso abbiano tra loro un maggior numero di analogie? Queste – pressappoco
– le domande che accompagnavano le richieste di chiarimento. E dunque.
No,
non credo nella Provvidenza, ma suppongo fosse chiaro il riferimento alla
locuzione usata da Pio XI per Benito Mussolini, e dunque alla perifrasi del
ruolo che il θεoς απo μηχανης ha nella tragedia greca: compare all’improvviso,
in virtù dei suoi poteri sovrumani mette ordine con fare risoluto a uno stallo
della trama e la soluzione sembra soddisfare tutti, o quasi. Occorre tuttavia
riflettere su un dato: se l’Uomo della Provvidenza è tale quando torna di
qualche utilità nel farsi soluzione di un conflitto del quale non si riesce a
prevedere la durata, né lo sviluppo, né l’esito, lasciando presagire solo il
logorarsi delle forze in campo, con ricadute negative sull’intero corpo sociale,
è giocoforza che egli assuma tratti costanti che sono indipendenti dal contesto.
E
dunque no, non ignoro il rischio che comporta ogni parallelismo in sede storica,
ma ritengo che analogie tra l’uno e l’altro Uomo della Provvidenza siano
possibili, anzi, direi che esse vadano costantemente alla conquista del rango
di veri e propri marcatori genetici della eccezionalità del loro carattere,
facendo da architrave alla costruzione mitopoietica di un destino. Quand’anche
siano surrettizie, dunque, le analogie sono cercate, prima, e ottenute, poi,
nel tentativo più o meno deliberato di suggerire che l’Uomo della Provvidenza
sia una delle risorse intrinseche alla communitas
intesa come organismo. Che le analogie siano di fatto o si propongano come tali,
dunque, non fa differenza: esse sono in gioco come credenziali di un carisma sempre
uguale (straordinaria abilità nella comunicazione, notevole capacità di
manovrare gli individui e di affascinare le masse, incrollabile autostima,
piglio autoritario, ecc.) che di tanto in tanto è chiamato ad incarnarsi in un tizio
dai modi spicci che dinanzi al nodo di Gordio non si scoraggia e lo scioglie
recidendolo di netto.
E
allora cos’è che non consente di andare più in là di poche analogie nel
tentativo di costruire un parallelismo tra Renzi e Berlusconi, o tra Renzi e
Craxi, o tra Renzi e Mussolini? Semplice a dirsi: Renzi arriva nel momento in
cui all’Uomo della Provvidenza non è più richiesto né un profilo ideologico, né
una dottrina politica, né una visione del futuro, né un progetto di società. Renzi
può muoversi al di fuori delle categorie che la postmodernità sembra avere
archiviato per sempre. Le enormi differenze che caratterizzano la crisi dello Stato
liberale, la crisi del Movimento operaio, la crisi della Prima repubblica non
impediscono di individuare un pur esile tratto comune tra il ventennio di
Mussolini, il ventennio di Craxi e il ventennio di Berlusconi: l’azzardo era
nel chiedere la piena e indiscussa facoltà di governo in cambio di un’idea di
società. L’azzardo di Renzi sta nell’identica richiesta ma in cambio della mera
governabilità.
Renzi
non ha un profilo ideologico, né una dottrina politica, né una visione del
futuro, né un progetto di società, per la semplice ragione che oggi non ce n’è
bisogno per ottenere consenso. D’altronde, la crisi della democrazia e la
deriva populista che ne è conseguita hanno svuotato il consenso del significato
che gli attribuivano l’adesione ad un’analisi e ad una proposta, la concordanza
sui modi e sui mezzi, quell’idem sentire che prima era sentito come sorte e in tempi più recenti ha preso forma di narrato.
In tal senso, per ottenere ciò che vuole, a Renzi non è necessario neanche un
consenso che abbia i modi della partecipazione fanatizzata. Il suo modello di
populismo non è quello dal basso, che cerca di comporre le contraddittorie
pulsioni che salgono da un popolo ridotto a plebe, ma quello dall’alto (la
letteratura di scuola marxiana gli ha dato la definizione di neobonapartismo),
che momento per momento si fa forte della pulsione predominante per
incrementare la presa di dominio che può fare a meno di sostenersi su quelle
che l’hanno preceduta, dunque senza doversi porre il problema di risponderne.
Ecco perché non ha alcun senso pensare di poter togliere credibilità all’offerta
di Renzi coll’inchiodarlo a ciò che ha detto due giorni, due mesi o due anni fa,
tanto meno col segnalare le continue prove di quanto sia a digiuno di
ogni cultura che non sia quella televisiva, men che meno col caricaturizzarne i
tratti del maneggione senza scrupoli: il non aver in alcun conto l’onore che si
fonda sulla parola data e sulla coerenza tra il dire e il fare, la sua grassa
ignoranza, il suo prestarsi con compiaciuta strafottenza ad ogni genere di
critica sono i suoi punti di forza, e perfino avere una faccia da cretino gli
torna utile da arma micidiale. La dictatura
cui mira (e uso il termine latino per fare chiaro riferimento al suo
significato nel diritto romano) è quella che trova ragione nell’urgenza dell’eterno
presente che è in ciascuna delle figure retoriche di cui grondano i suoi
discorsi, che non a caso sono privi di ogni congrua articolazione e di un
intellegibile costrutto. In due parole, Renzi è il trionfo del vuoto che divora
tutto ciò che sfiora.
Non
ce ne libereremo facilmente, comunque non nel modo col quale ci siamo liberati
degli altri Uomini della Provvidenza. In quel modo non conviene neppure
provarci.
[...]
Stiamo
per assistere al primo dei grandi successi di Bergoglio come diplomatico: a
giorni, forse a ore, palestinesi e israeliani si stringeranno in un grande e fraterno
abbraccio.
sabato 28 giugno 2014
[...]
Ogni
parallelismo tra Matteo Renzi e gli altri Uomini della Provvidenza della nostra storia patria (Benito Mussolini, Bettino Craxi, Silvio Berlusconi)
corre il serio rischio di rivelarsi sghembo dopo le prime due o tre analogie.
Solo una cosa unisce saldamente tutte e quattro le esperienze: la qualità umana
e il livello intellettuale dei gregari. Mussoliniani (prim’ancora che
fascisti), craxiani (prim’ancora che socialisti), leccaculo di Berlusconi (prim’ancora
che berlusconiani) e renziani (prim’ancora che avanzi d’apparato) hanno
identico profilo psicologico e patterns behaviouriani straordinariamente simili: viene il sospetto che sullo stesso canovaccio si susseguano inestinguibili dinastie di caratteri della Commedia dell’Arte.
Si prenda un Matteo Orfini: «Vendola non cerchi nelle pressioni del Pd le cause
della crisi di Sel: due anni fa diceva “mescoliamoci”, oggi cambia radicalmente
linea. Davvero crede che la sinistra possa essere rappresentata dal salotto di
Barbara Spinelli?». Non ha il physique du rôle dello squadrista, su questo non
ci piove. Almeno dieci centimetri di troppo per poterlo dire nano e almeno venti
o trenta di meno per poterselo immaginare come ballerina. Cortigiano ad Arcore,
neanche a parlarne: troppo peloso, tristissima sciarpetta a strisce, sorriso da
far abortire anche la più sfiziosa delle barzellette. E tuttavia, al netto di quello
che gli manca, stessa arroganza, stessa postura del pidocchio assiso in trono
sulla testa di Zeus, stessa livrea da maggiordomo che si esalta nel bere dal
bicchiere del suo padrone.
venerdì 27 giugno 2014
«Essere di sinistra»? «Una cosa egoista».
Gilioli si sente un privilegiato. Non ha torto, perché lo è rispetto a tanti. Volendo,
tuttavia, non potrebbe sentirsi tale. Voglio dire che potrebbe non bastargli
quello che ha e sentire privilegiato chi ha più di lui. Sennò pensare di avere esattamente quel che merita e che dunque parlare di privilegio sia per lo meno improprio. Invece dice che gli
basta quello che ha e che per dirsi felice – sì, parla proprio di «felicità» – gli
manca solo «che lo siano anche quelli che vedo intorno a me». Non poco, direi,
perché questo implicherebbe non solo che tutti avessero ciò che rende quasi
felice lui, ma che riuscissero pure a farselo bastare.
Ora, non c’è dubbio che,
ad avere quello che lui ha – ma anche di meno, probabilmente, e forse anche molto di meno – chi non l’ha
potrebbe anche star meglio di come sta, e tuttavia pretendere che a costui possa bastare al
punto da potersi dire felice implica che Gilioli vuole l’impossibile, cioè che il
concetto di «felicità» sia uguale per tutti.
Si badi bene, non gli contesto che
si dichiari quasi felice per ciò che si fa bastare: penso anch’io che solidi
affetti, bisogni non eccedenti le proprie disponibilità e un lavoro che piace non
siano affatto poco, anzi, non ho alcuna difficoltà ad ammettere che siano
moltissimo. Quello che gli contesto è il vagheggiamento, sul piano ideale, e la
ricerca, su quello pratico, della sua piena «felicità» nella pretesa, sul piano ideale, e nella proposta, su quello pratico, che quanto
essa rappresenta per lui possa, e dunque debba, rappresentarsi in quanto tale
per tutti.
Nella migliore delle ipotesi direi si tratti di un filantropismo un
po’ paternalistico, nella peggiore direi si tratti di un cristianesimo senza Cristo, discretamente appiccicaticcio.
Quello che però ritengo sia assai più significativo
è il motivo che Gilioli adduce al
bisogno che il suo concetto di «felicità» possa, dunque debba, essere uguale
per tutti: dice che si tratta di «senso di colpa», «un po’ quel meccanismo che
ha portato a suicidarsi non pochi degli scampati all’Olocausto, che non sopportavano
di essere tali, più o meno a caso, mentre altri, più o meno a caso, non ne
erano scampati».
È questo che ci consente di escludere l’ipotesi di comunismo,
che è roba più scientifica che psicologica. Dunque rimane quella del filantropismo un po’
paternalistico, e allora credo la questione – se di questione vogliamo parlare –
si ponga nel chiederci cosa autorizzi Gilioli ad amare il prossimo suo come non
è detto il prossimo suo voglia essere amato. E naturalmente non parlo di quella
porzione del prossimo suo che ne condivide il concetto di «felicità» (lì
dentro, in fondo, non mi troverei a disagio neppure io), ma di quella che lo
rigetta perché immune dai problemi psicologici di Gilioli. Il quale non è un
fesso e intelligentemente ammette che quanto è a fondamento del suo «essere di
sinistra» è «una cosa egoista».
Viene da chiedersi quale sia lo spettro psicologico
che include questo «essere di sinistra», perché, se dall’avere ciò che si ritiene basti
a rendere quasi felice è naturale attendersi un «senso di colpa», dal non
averne è naturale attendersi quell’«invidia» che per taluni sarebbe a
fondamento psicologico dell’«essere di sinistra». Un Gilioli così
inconsapevolmente berlusconiano, e chi se lo aspettava?
Comparo
questo «essere di sinistra» a quello di un Diciottobrumaio o di un Alterlucas e ci sento
passare la stessa differenza che passa tra Florence Nightingale e Marie Curie. Scopro un Gilioli umorale, disarmato e disarmante, e nel giudicarlo così mi sembra quasi di fargli un torto, sicché mando un sms a chi penso possa dare un giudizio più avveduto: «I primi tre aggettivi che ti vengono per Gilioli?», chiedo. E la risposta è: «Autentico, appassionato e un po’
pirlone».
[...]
Insieme
a quella della squadra del Napoli, sulla bara di Ciro Esposito c’era la
bandiera con lo stemma di Casa Borbone, sotto la quale si raccolgono da una
ventina d’anni i neoborbonici napoletani. Segnalata la presenza del signor
Sindaco e di altre autorevoli personalità istituzionali della Repubblica, mentre
spiccava l’assenza di Sua Maestà, re Felipe VI.
giovedì 26 giugno 2014
Capra e cavolo
Dinanzi
al problema posto dal numero estremamente alto di ginecologi che in Italia oppongono
obiezione di coscienza alla pratica dell’interruzione volontaria di gravidanza,
da un lato, e dall’obbligo da parte dello stato di assicurare che tale
prestazione medica sia effettuata nei casi previsti della legge 194, dall’altro,
io penso esista un modo per salvare capra e cavolo, anzi, penso ne esistano
addirittura due: la modifica dell’art. 8 della suddetta legge al punto in cui
recita che la prestazione medica può essere fornita esclusivamente da una
struttura pubblica o il prepensionamento obbligatorio dei ginecologi obiettori operanti
in strutture pubbliche e il loro rimpiazzo con ginecologi non obiettori.
Non
faccio fatica a cogliere quali possano essere le perplessità riguardo a queste
due soluzioni, ma credo non abbiano ragion d’essere entrando nel dettaglio.
Nel
primo caso, le perplessità saranno relative al rispetto dei limiti che la legge
pone alla possibilità di un’interruzione volontaria di gravidanza entro i primi
90 giorni (art. 4) o dopo tale epoca (art. 6): si può sospettare che consentire
alle strutture private di fornire la prestazione possa indurre a violare tali
limiti per basse ragioni di profitto. È sospetto che concedo abbia ragion d’essere,
ma il rischio che questo accada può facilmente essere evitato con l’inasprimento
delle sanzioni penali attualmente contemplate per chi si renda responsabile di
analoghe violazioni o semplicemente fornisca la prestazione fuori dal circuito
delle strutture pubbliche, anche se nel rispetto delle indicazioni e dei limiti
temporali contemplati dalla legge. A questo si potrebbe aggiungere un ulteriore
deterrente sanzionatorio, stavolta a carico della struttura privata dove si è
materialmente compiuto l’illecito, fino al ritiro delle autorizzazioni all’esercizio
e alla chiusura di ogni attività sanitaria. Prim’ancora, tuttavia, è da considerare che il rischio di illeciti sarebbe minimo nel caso di strutture private convenzionate, praticamente uguale a zero nel caso in cui la concessione della convenzione preveda che le interruzioni volontarie di gravidanza siano assicurate dalla carta di servizio.
In quanto alla seconda soluzione,
suppongo si sollevi la questione della gestione organizzativa del comparto fino
all’ottenimento del ricambio di personale. Anche qui penso si tratti di un
problema facilmente risolvibile. Da un lato, infatti, c’è da supporre che il
fenomeno dell’obiezione di coscienza abbia a trovare un drastico
ridimensionamento dinanzi alla scelta imposta ai ginecologi che operano in
strutture pubbliche. Avanzo dubbi sulla genuinità dell’imperativo etico che li
induce all’obiezione di coscienza? Avranno modo di smentirli decidendo di
dedicarsi alla libera professione. D’altro canto, il ricambio sarebbe
progressivo e non impatterebbe eccessivamente sulle carriere professionali dei
ginecologi obiettori, consentendo peraltro uno svecchiamento delle piante
organiche, immobili da decenni.
Nulla, ovviamente, potrà impedire che un nuovo assunto
divenga obiettore dopo l’assunzione, ma anche qui sarà possibile minimizzarne
le conseguenze con meccanismi di natura retributiva che scoraggino il
prepensionamento: non sarà da intendere come misura ritorsiva perché indotta da ragioni legate esclusivamente all’efficienza di un servizio, né sarà una tragedia perdere il posto fin lì occupato in una
struttura pubblica con una liquidazione e una pensione di entità irrisorie a
fronte di aver dato sollievo a un assillo d’ordine morale, potendo peraltro
continuare ad esercitare nel privato. Perché su una cosa credo occorra intendersi: quando la propria coscienza è in attrito anche indiretto con le leggi dello stato, si ha il diritto di darle ristoro nel modo che meglio si ritiene, ma senza poter pretendere che tale ristoro sia a carico della comunità che nel suo insieme è tenuta al rispetto formale e sostanziale delle leggi dello stato. Si può considerarle ingiuste, ma occorre si paghi un prezzo personale alla decisione di osteggiarle col sabotaggio.
Questo ovviamente vale anche per i farmacisti obiettori che si rifiutino di fornire i farmaci per la contraccezione di urgenza ai clienti che ne facciano richiesta dietro prescrizione medica: liberi di farlo, ma rinunciando al convenzionamento col sistema sanitario pubblico. Nessuno ti obbliga alla carriera militare, ma se la scegli, e la Costituzione vede riforma dell’art. 11, e il Parlamento decide di entrare in guerra, hai solo due possibili scelte: dimetterti per tempo dall’esercito o dichiararti disertore e assumertene la piena responsabilità. Nessuno ti vieta di essere un Testimone di Geova, ma questo non ti dà diritto, da medico, di rifiutare una trasfusione a chi stia crepando per una emorragia.
Questo ovviamente vale anche per i farmacisti obiettori che si rifiutino di fornire i farmaci per la contraccezione di urgenza ai clienti che ne facciano richiesta dietro prescrizione medica: liberi di farlo, ma rinunciando al convenzionamento col sistema sanitario pubblico. Nessuno ti obbliga alla carriera militare, ma se la scegli, e la Costituzione vede riforma dell’art. 11, e il Parlamento decide di entrare in guerra, hai solo due possibili scelte: dimetterti per tempo dall’esercito o dichiararti disertore e assumertene la piena responsabilità. Nessuno ti vieta di essere un Testimone di Geova, ma questo non ti dà diritto, da medico, di rifiutare una trasfusione a chi stia crepando per una emorragia.
Mi
pare sia chiaro che qui ho messo sullo stesso piano due esigenze cui penso sia
opportuno dare lo stesso peso: la libertà del ginecologo di praticare o meno
interruzioni volontarie di gravidanza e l’obbligo dello stato di assicurare che
una sua legge sia applicata a dovere. Personalmente penso abbiano peso diverso,
ma da legislatore in erba mi sono imposto un profilo equanime.
mercoledì 25 giugno 2014
Tentare di salire sul carro del vincitore
Tentare
di salire sul carro del vincitore quando già è affollato può rivelarsi operazione
estremamente ardua e a rischio di mortificanti frustrazioni, ma basta avere
avuto in dote dalla natura il quanto basta di faccia tosta a compensare il
quanto manca di decoro per non scoraggiarsi, ritentare, e ritentare ancora,
anche se una volta sbagli l’aggancio e finisci a mordere la polvere, un’altra ci
riesci ma chi sta sopra ti pesta le nocche e un’altra ancora ti stendi davanti
al carro sperando che si fermi per non travolgerti, così da approfittarne per
guizzarvi sopra, ma quello non frena – si sa che la vittoria corre – e ti
arrota: se ti interessa salire lì sopra, metti da parte ogni rispetto per te
stesso, fregatene del disprezzo che ti pioverà addosso se riesci nell’impresa,
e ancor più del disprezzo se fallirai, e insisti, a dispetto di tutto ciò che
ragionevolmente dovrebbe farti disperare di riuscire, anzi, nei limiti di ciò
che ti è possibile, fai in modo di lasciar credere a chi guida il carro che
averti a bordo gli tornerebbe utile, mentre lasciarti a terra sarebbe un’occasione
persa e in fondo pure un’ingiustizia: vanta di aver sempre creduto in lui, esagera
in lodi ma non far mancare qualche critica, che però abbia il tono dell’esortazione,
e soprattutto millanta doti che non hai, gonfia il curriculum con accorta cura
degli aggettivi e degli avverbi, abusa senza pudore di eufemismi e reticenze,
glissa su quanto sarebbe motivo di imbarazzo, sennò rivoltalo a dovere per
dargli un aspetto decente: insomma, fai come Mario Adinolfi fa da mesi con
Matteo Renzi, e non demordere: ti rideranno addosso ad ogni tentativo andato a
vuoto, ma a te che importa? O a bordo o nella merda: hai 43 anni, hai rotto il
cazzo a mezza Italia col ricambio generazionale e, quando finalmente arriva, corri
il serio rischio – più del serio rischio: praticamente la minaccia – di finire
nel mucchio degli scarti inservibili: è l’ultima occasione, poi da controversa
macchietta da avanspettacolo della politica blaterata sarai declassato a triste
fetecchia da talk show di quart’ordine per la miseria di un gettone di presenza,
e sarai costretto a contendertelo con un’Alba Parietti o una Flavia Vento,
sennò ad arrotondare per bische. Il mondo è crudele e non riesce a cogliere la
tragedia personale dietro il comico affanno a non uscire definitivamente dal cono
di luce ai cui margini sei aggrappato a dispetto di una ormai irresistibile forza
centrifuga: non mollare, non risparmiarti nel metterci la faccia, non farti
scrupolo se a tutti sembra in tutto uguale al culo. Può darsi che Matteo Renzi
abbia dimenticato la stratosferica figura di merda che gli facesti fare all’indomani
delle primarie che perse, quando da furbacchione seppe fare un passo indietro,
mentre tu ne facevi uno in avanti e chiedevi a suo nome il Ministero delle
Comunicazioni. Può darsi si sia distratto e non rammenti più che uscisti dal Pd
per rincorrere l’evanescente miraggio di Scelta civica e per elemosinare il
rientro solo dopo aver acchiappato il seggio alla Camera da primo dei non
eletti recuperato a fine legislatura. Al Berluschino non fa difetto una faccia
rotonda come la tua, quindi è possibile comprenda, chiuda un occhio, voglia
fare un’opera di bene e ti prenda a bordo – in fondo sei la negativa del
fallimento che il suo azzardo gli ha consentito di schivare, può darsi ti dia
uno strapuntino con lo stesso animo grato con cui si accende un cero alla
Madonna – e dunque non desistere: ne va della tua vita, e poi, in fondo, torni
buono anche come cattivo esempio. Io, per esempio, al mio Michele, che pure è
ancora troppo piccino per capire, già l’ho detto: prova a diventarmi una roba
simile e ti spezzo le gambe.
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