mercoledì 15 luglio 2015

Meditazioni trascendentali / 2

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Ad ogni strofa che maledice l’Europa-così-com’è segue il ritornello che non-è-quella-del-Manifesto-di-Ventotene, ma fra quelli che cantano ’sta canzone – me lo chiedevo sentendola cantare pure da Renzi – vorrei sapere quanti l’hanno veramente letto.
Piluccando: «La rivoluzione europea, per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista... Le caratteristiche che hanno avuto in passato il diritto di proprietà e il diritto di successione hanno permesso di accumulare nelle mani di pochi privilegiati ricchezze che converrà distribuire durante una crisi rivoluzionaria in senso egalitario... Pensiamo ad una riforma agraria che passi la terra a chi la coltiva... Il concordato con cui in Italia il Vaticano ha concluso l’alleanza col fascismo andrà senz’altro abolito...».

martedì 14 luglio 2015

Fra parentesi

Non sembrerà, ma io sono assai sensibile alle critiche che mi muovono i miei lettori, e proprio oggi uno di loro mi ha rimproverato il «grave errore» di usare, per l«azione politica di una nazione», lo stesso metro di giudizio che potrebbe anche essere legittimo per l«azione di un individuo» nellaffermare che «nel momento di contrarre un debito si debba avere ben chiaro che per onorarlo si debba essere disposti anche a morire di fame». Anzi, fatemi dir meglio: il metro di giudizio che sostiene la mia affermazione sarebbe senza dubbio errato nellanalisi dell«azione politica di una nazione», ma non è detto che non lo sia pure nel caso di un individuo che contragga un debito infischiandosene della possibilità di onorarlo, e dico questo perché sul punto il lettore in questione mi è sembrato vago, limitandosi a definire il mio giudizio come operante attraverso gli «strumenti dell’etica», termine che occorre maneggiare con cautela perché assai pericoloso, e che infatti io cerco di evitare anche quando il contesto basterebbe a dargli il significato che vorrei gli fosse dato da chi mi legge, e chi mi legge da qualche tempo non dovrebbe ignorare che per me il «bene» a fondamento del discorso etico equivale a quell’«utile per il maggior numero di individui» che dovrebbe far coincidere la regola morale alla norma giuridica. In tal senso, sì, non ho fatica ad ammettere che l’«utile per il maggior numero di individui» sta nel fatto che ciascun individuo si assuma fino in fondo la responsabilità delle proprie azioni, per potersene dichiarare pienamente libero.
Ora, a me pare che la propria libertà non possa che consistere nel muoversi entro i limiti posti dalla libertà altrui, e che questi limiti debbano necessariamente essere concordati nella sede di un contratto sociale, nazionale o sovranazionale, che può anche essere violato, a patto di saperne subire le conseguenze, e senza avere alcun diritto di lamentarsene. Sarà per questo che, pur riuscendo a cogliere la differenza che corre tra un popolo e un individuo, presumo che entrambi siano tenuti ad essere responsabili delle proprie azioni? Certo, la differenza che corre tra un popolo e un individuo non mi impedisce di constatare che, per le scelte fatte da un governo, la responsabilità di un popolo che lo ha espresso sia solo indiretta, ma in fin dei conti non rimane tutta sua? Nel caso dei greci, è fuor di dubbio che il debito pubblico sia stato cumulato per le politiche di governi democraticamente eletti da un popolo che non è stato in grado di ponderarne a sufficienza le conseguenze.
Bene, il governo in carica non avrà le responsabilità di quelli che l’hanno preceduto, questo è perfino ovvio, ma il popolo greco è sempre quello, e non può pretendere che le conseguenze di scelte errate in precedenza siano emendate in virtù di un cambio di governo. Del debito che la Grecia ha cumulato può darsi non abbiano goduto in modo equo tutti greci, su questo non c’è dubbio, ma è di tutti i greci la responsabilità che questo sia accaduto, e questo mi pare che destini al solo dibattito interno l’analisi del come e del perché sia potuto accadere. Non è detto che da questa analisi possa necessariamente maturare un senso di responsabilità che riesca a farsi carico di ciò che il passato chiede all’oggi, ma può darsi aiuti finalmente a capire che dall’oggi dipende il domani.

Hanno solo lo yogurt?

Restano dubbi su Tsipras? A me pare che dopo la dichiarazione ufficiale da lui rilasciata al termine dell’eurosummit del 12 luglio – la riporta il manifesto, oggi, e qui vale la pena di analizzarla in dettaglio – non ne restino neppure per chi ha commesso la leggerezza di considerarlo, se non un rivoluzionario, uno tosto, uno con le palle, uno capace di mettere l’Europa con le spalle al muro, costringendola ad accettare una ristrutturazione del debito, se non un suo drastico taglio, che consentisse alla Grecia di riprender fiato dalla morsa delle misure alle quali era stata sottoposta dai governi precedenti, sennò fanculo all’euro, fanculo all’Europa, e che i burocrati dell’Eurozona se la sbrigassero a far fronte alle conseguenze di una Grexit, che a chiacchiere poteva essere una liberazione, ma poteva pure rivelarsi un buco nero in cui sarebbero finite prima o poi il Portogallo, la Spagna, l’Italia e tutto il resto. Macché, neanche capace di un ricatto che, se andava fatto, doveva essere fatale: un demagogo da quattro soldi, uno buono solo a infinocchiare qualche fessacchiotto dei nostri.
In realtà, almeno per quanto mi riguarda, non restavano dubbi già al momento in cui ha deciso di indire un referendum che non era difficile intuire si sarebbe rivelato inutile e dannoso proprio se il risultato fosse stato quello cui sembrava mirasse, anche se poteva non essere così balzana l’ipotesi che mirasse a perderlo, per potersi dimettere, risparmiarsi la figura di merda che oggi lo inscrive nella galleria dei più patetici bluffer di ogni tempo, tornare a fare l’opposizione, che in fondo è la più bella delle occupazioni per chi non sa governare, se vuole scansare ogni altro lavoro di un comune mortale.
«Abbiamo lottato duramente per sei mesi, fino alla fine», ha detto questo stronzo cagato a forza, e c’è da supporre non sia nemmeno risparmiato uno di quei sorrisi da piacione coi quali ha mandato in sollucchero la climaterica sinistra di mezza Europa. «Abbiamo lottato duramente per ottenere il miglior risultato possibile, un accordo che consentirà alla Grecia di rimettersi in piedi e al popolo greco di essere in grado di continuare a combattere». La pressoché unanime opinione è che sia stato costretto ad accettare tutto quello che gli hanno imposto, fatta eccezione per il contentino di avere i controllori in casa, che già è cosa umiliante, piuttosto che dover portare i registri di cassa a Bruxelles. Ancorché unanime, tuttavia, l’opinione che abbia dovuto cedere su tutto può anche essere fallace. E allora c’è da chiedersi cosa ci abbia davvero guadagnato, la Grecia. Oggettivamente, nulla. Per meglio dire, è solo Tsipras che ci guadagna il mantenere la guida del governo, ma solo a patto di rimpiazzare in Parlamento chi gli toglierà la fiducia con chi al referendum si è espresso per il sì, il che neanche è sicuro, sicché sarà più comico che tragico dover vedere la caduta del suo governo non per un «golpe post-moderno» deciso a Berlino, ma per una resa di conti tutta interna a Syriza, mentre in piazza i delusi ne bruciano le bandiere. Perfino il fatuo Varoufakis finisce per ricavare un’inimmaginabile aura di serietà gridando al tradimento.
Ma Tsipras, come tutti demagoghi, ha una faccia a prova di schiaffi: «Abbiamo affrontato decisioni difficili e difficili dilemmi. Ci siamo assunti la responsabilità di una decisione per evitare l’attuazione degli obiettivi più estremi portati avanti dalle forze conservatrici più estreme dell’Unione europea». Come chi, dopo aver subìto uno stupro, vanti di aver ridotto lo stupratore a un poveraccio col cazzo moscio.
«Questo accordo prevede misure severe. Tuttavia, abbiamo impedito il trasferimento di proprietà pubbliche all’estero, abbiamo impedito l’asfissia finanziaria e il crollo del sistema finanziario - che erano già stati pianificati nei minimi dettagli e alla perfezione - che erano in corso di attuazione. Infine, in questa battaglia dura, siamo riusciti a ottenere la ristrutturazione del debito e un processo di finanziamento a medio termine. Eravamo consapevoli che non sarebbe stato un compito facile, ma abbiamo creato un patrimonio molto importante. Un lascito importante, e un cambiamento tanto necessario per tutta l’Europa. La Grecia continuerà a combattere, noi continueremo a combattere, in modo da poter tornare a crescere, a recuperare la nostra sovranità nazionale persa. Abbiamo guadagnato la nostra sovranità. Abbiamo inviato un messaggio di democrazia, un messaggio di dignità, in Europa e nel mondo. Questa è l’eredità più importante di questi giorni». Tutto sta, adesso, nel cercare di convincere i greci che si è trattato proprio di questa strabiliante vittoria. Non ci riuscisse, pazienza. Però ai greci sarebbe data un’occasione irripetibile per mostrare all’Europa intera che, a dispetto dell’odiosa vulgata che li dipinge come italiani appena un po’ più scemi, sono un popolo serio. Hanno solo lo yogurt? Una volta tanto ci affogassero dentro un premier. 

[...]

Il quesito posto ai greci col referendum del 5 luglio era il seguente: «Deve essere accettato il progetto di accordo presentato da Commissione europea, Bce e Fmi nell’Eurogruppo del 25 giugno 2015, composto da due parti che costituiscono la loro proposta?». Dobbiamo dare per scontato che chi si è recato alle urne abbia letto i due documenti che costituivano il progetto di accordo? Ne avrà avuto il tempo, visto che il referendum è stato indetto solo pochi giorni prima del voto? In altri termini, i greci sapevano con esattezza a cosa stessero dicendo sì o no? Non lo sapremo mai, ovviamente, ma unidea possiamo ricavarla a posteriori, per la delusione che accompagna chi in Grecia e fuori dalla Grecia voleva vincesse il no. Se, infatti, l’accordo che Tsipras ha sottoscritto ieri è meno pesante di quello che ha rifiutato il 25 giugno, la delusione avrebbe senso solo a ipotizzare che chi è stato soddisfatto dellesito del referendum non fosse a conoscenza di cosa fosse scritto in quei due documenti. Cè da chiedersi, dunque, a cosa abbia detto no. Per meglio dire, cè da chiedersi a cosa gli sia stato fatto credere dicesse no, e poi se il farglielo credere sia stato intenzionale o meno.
Per risolvere la questione non c’è che da riandare ai giorni che hanno preceduto il referendum per rileggere le dichiarazioni di chi parteggiava per il no. Rileggendole, si capisce il perché della delusione: nulla di ciò che avrebbe dovuto far forti le ragioni della Grecia con la vittoria del no ha trovato modo di realizzarsi nel modo che si riteneva dovesse esser ovvio. Si dirà che è proprio la vittoria del no ad aver irrigidito l’Eurogruppo del 12 luglio nella richiesta di condizioni che sono in tanti, fra quanti parteggiavano per il no, a ritenere pesanti almeno quanto quelle del 25 giugno. Bene, non era prevedibile? Voglio dire: chi ha deciso di indire il referendum non doveva mettere in conto questa reazione?
Si badi bene: qui non ho alcuna intenzione di dare un giudizio di merito sull’intera vicenda, voglio limitarmi a considerare perché sia stato indetto il referendum, quale significato avesse realmente e quale invece gli si è voluto dare, e quali risultati pratici abbia avuto. Se mi astengo dall’esprimere la mia opinione sull’intera vicenda, è per una ragione estremamente semplice: non le do molto peso, perché è della stessa natura che ha spinto tanti a parteggiare per il no, ma di segno diametralmente opposto. Io, ad esempio, ritengo che nel momento di contrarre un debito si debba avere ben chiaro che per onorarlo si debba essere disposti anche a morire di fame. Poi ritengo che, nel momento di entrare a far parte di una comunità che si è data alcune regole, quelle regole vadano rispettate, sennò si possa trarre la sola conclusione di non farne più parte. Più in generale, ritengo che la Grecia non avrebbe mai dovuto entrare nell’Eurozona o uscirne già da tempo. Per parametri che avrebbero imposto analoghe misure anche per altri paesi? Non mi interessa, d’altronde qui stiamo parlando della Grecia, ma in ogni caso, sì, sarebbe stato meglio se analoghe misure si fossero prese anche per altri paesi, se avessero posto gli stessi problemi posti dalla Grecia. Di fatto, almeno fino ad ora, questi problemi si sono posti solo per la Grecia, e a mio modesto avviso questo doveva bastare a dichiararla fuori dall’Eurozona. Sarebbe stato un problema anche per i paesi che ne fanno parte? Peggio per loro, se non in grado di far fronte ad una decisione che era imposta dalle regole che si erano dati.
Come vedete, si tratta di ragioni che non tengono in alcun conto la logica che guida verso il compromesso per motivi di opportunità. Insomma, sono le ragioni di uno che non può pretendere di avere alcuna voce in capitolo nella costruzione di un’Europa come quella che abbiamo. Ecco, credo che sarebbe bello se allo stesso modo la pensassero anche quelli che ritengono impensabile una Grecia fuori dall’Europa o una Grecia in default, e pensano che questo debba essere evitato ad ogni costo, anche a fronte delle resistenze della Grecia ad uniformarsi alle richieste che le vengono dagli organismi che a torto o a ragione sono deputati a dettare una linea comune: sarebbe bello se anche loro ammettessero di non poter pretendere di avere voce in capitolo, e si limitassero a considerare le questioni di metodo. Su queste, soprattutto per come si sono messe le cose, credo si possa concordare: Tsipras ha ingannato il suo popolo, il referendum si è dimostrato ancora una volta uno strumento inutile e dannoso.
Giorni, settimane, mesi a parlare della Grecia come culla della democrazia, dimenticando che nella stessa culla vi è cresciuta pure la demagogia. 

lunedì 13 luglio 2015

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«Se sento ancora qualcuno dire che
il referendum di domenica non è servito a niente,
metto le mani alla pistola»
Alessandro Gilioli, 10.7.2015 (*)


Gilio’, quando hai finito le munizioni, mi faresti il piacere di spiegarmi a cosa è servito il referendum greco?

sabato 11 luglio 2015

venerdì 10 luglio 2015

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E dunque le condizioni che la Grecia si appresta ad accettare per evitare il default e rimanere in Europa sarebbero uguali, se non peggiori, rispetto a quelle che Tsipras intendeva rifiutare in forza dell’esito del referendum da lui voluto. Sfiora il sospetto che quel referendum non servisse a ciò che si diceva dovesse servire?
Parlo a quei due o tre che mi hanno rimproverato di aver scritto che lo strumento referendario è quasi sempre inutile o dannoso, sennò inutile e dannoso. Ecco qui un ottimo esempio ad illustrare il paradigma: la democrazia diretta è detta così perché c’è sempre qualcuno a dirigerla, e quasi sempre in culo a chi ci crede. 

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In Platone è «pseudoargomento filosofico», ma non ha ancora la specifica connotazione di categoria retorica che in Aristotele troverà la specie del «sillogismo eristico» e il modo della «ignoratio elenchi» (αγνοια ελεγχου), che poi sarebbe l’errore del presumere di confutare un’affermazione senza avere «esatta conoscenza dei motivi, materiali o formali, che possano determinare tale confutazione» (Guido Calogero, Storia della logica antica).
Parlo di quello che è più comunemente conosciuto come «ragionamento a cazzo di cane», di cui abbiamo avuto in questi giorni un saggio nello pseudoargomento di chi contesta la condanna in primo grado che Silvio Berlusconi aggiunge alla sua collezione, perché «tanto andrà tutto in prescrizione», con ciò intendendo suggerire (ma in taluni casi arrivando ad affermarlo esplicitamente) che il processo neanche andasse celebrato, e che quindi, se sè celebrato, laccusa non voleva far giustizia, ma solo molestare un povero cristo.
È qui che la definizione di «ragionamento a cazzo di cane» rivela quanto sia impropria. Se, infatti, un argomento può darsi in paragone a un cazzo, quello del cane non rappresenta in modo congruo questo pseudoargomento: più appropriata limmagine del pene umano affetto da induratio penis plastica (morbo di La Peyronie). Giacché «tanto andrà tutto in prescrizione», il magistrato avrebbe dovuto archiviare? Non arrivano a dirlo perché sanno bene che non sarebbe stato possibile, dunque è il caso di illustrare i motivi materiali e formali che in questo caso rendono risibile la contestazione quanto la pretesa di mandare la pallina in rete per finire a pisciarsi sui piedi?

giovedì 9 luglio 2015

Cazzabubboli rozzi e cazzabubboli sofisticati

Quanti parlamentari sono passati dal centrodestra al centrosinistra? Tutti corrotti come De Gregorio? E poi il governo Prodi è caduto per la campagna acquisti che Berlusconi avrebbe promosso al Senato? Non è caduto perché gli venne meno lappoggio di Mastella?
Più o meno a questo si riducono gli argomenti dei berlusconiani allindomani della condanna di Berlusconi, come se larticolo del Codice Penale che ci dice cosè corruzione non avesse al centro quella «retribuzione non dovuta» che in questo caso l’accusa è riuscita a dimostrare esserci stata: in questione non era il cambio di casacca, né il fine che si intendeva raggiungere col promuoverlo, tanto meno poi se il mezzo si sia rivelato efficace, ma il fatto che sia intercorso un «contratto illecito» tra soggetti che in esso si son fatti corrotto e corruttore.
Niente di nuovo, sia chiaro. Ogni volta che Berlusconi è raggiunto dalle conseguenze delle sue disinvolture – chiamiamole così, va’ – i rozzi cazzabubboli che per contratto gli reggono l’ormai logoro strascico da reuccio di operetta sono capaci delle più inverosimili piroette logiche. Quello che in questa occasione, invece, risulta notevole è lo spuntare, qua e là, di cazzabubboli un po’ più sofisticati, che per quel malsano esercizio di mettersi in posa da personcine libere dal pregiudizio antiberlusconiano – preferisco non fare nomi – sfidano il buonsenso, prima che il diritto, sostenendo che addirittura non sia ipotizzabile il reato di corruzione per chi, da parlamentare, sia costituzionalmente sciolto da vincolo di mandato. In sostanza, un eletto potrebbe fare ciò che vuole del proprio voto. E grazie al cazzo, diciamo loro, ma non può venderlo. Perché è suo solo finché è gratis, o almeno riesce a dimostrarlo tale. Per meglio dire: finché non è dimostrabile il contrario, come è accaduto nel caso in questione.
De Gregorio ha dichiarato, dando prova di quanto dichiarava, che per togliere il suo voto al centrosinistra, e darlo al centrodestra, ha percepito un bel pacco di milioni di euro, e da Berlusconi. Sbraitassero pure, i suoi servi, ormai siamo abituati a sentirne il coro che lamenta di persecuzioni giudiziarie e di sentenze politiche. Ma i garantisti un tanto all’etto, per piacere, avessero il buon gusto di star zitti.

martedì 7 luglio 2015

Corrispondenze (Tutto è ormai già perso)

Dove ho mai scritto che «i greci sono un popolo di fannulloni»? Dove ho mai scritto che «per anni e anni hanno scialacquato allegramente a spese dellEuropa»? Ho riletto gli unici due post che ho dedicato alla questione greca, caro ***, e non ho trovato traccia di affermazioni simili, né mi pare di aver insinuato nulla del genere: in uno mi sono limitato a dire che la Grecia doggi non centra niente con la Grecia antica, il cui lascito è ormai da secoli patrimonio dellintera umanità, sicché è ridicolo pretendere che possa pareggiare o anche soltanto alleggerire i debiti che la Grecia ha cumulato negli ultimi decenni nei confronti di mezzo mondo; nellaltro ho posto l’attenzione su ciò che fa del referendum uno strumento inutile o dannoso, cercando di dimostrare perché quello voluto da Tsipras non risolva nulla, ed anzi possa rivelarsi addirittura pericoloso, innanzitutto per la Grecia, ma anche per l’Europa.
In realtà, alla questione greca ho dedicato anche un terzo post, ma si trattava solo del copia-incolla di un’intervista concessa a Libero da Antonio Martino: la facevo precedere da una rapida nota con la quale dichiaravo di far mia la sua opinione («Se la Grecia non può onorare i suoi debiti deve fallire, i titoli diventano carta straccia e quelli che li hanno comprati subiscono una perdita in conto capitale, del resto hanno lucrato sugli alti tassi di interesse per molto tempo. Vuol dire che gli è andata male, hanno fatto l’investimento sbagliato»). Ecco, rileggendo questintervista, trovo unaffermazione dalla quale, forse, avrei fatto meglio a dissociarmi: «I greci sono abituati a vivere a spese degli altri». Ti riferisci a questaffermazione nellattribuirmi frasi che comunque non sono mai uscite dalla mia penna? Allora, sì, ti devo una spiegazione, e ovviamente non sono autorizzato a chiarire il senso che Antonio Martino voleva dare a quella frase, ma penso di poter dire che anche lui, come me che ho sottoscritto quella frase, non intendeva generalizzare. Voglio dire che gli stereotipi sono sempre da rigettare quando si parla di realtà complesse come un’intera nazione, e aggiungerei che questo è tanto più sentito da un liberale, che in una nazione non perde di vista la varietà degli individui che la compongono, vedendoli accomunati da una storia, non da un carattere. «I greci sono abituati a vivere a spese degli altri», dunque, sarà unaffermazione che si presta ad essere fraintesa – convengo – ma che trova ragione nellassunzione di un dato inoppugnabile: i governi greci hanno amministrato la cosa pubblica in modo irresponsabile, facendo affidamento – un folle affidamento – sullinesauribilità delle risorse che derivavano dallemissione di titoli di stato. La Grecia, in sostanza, ha pensato di poter vivere facendo debiti il cui pagamento potesse essere rinviato allinfinito. La cosa assurda è che pensa di poterlo fare ancora, rifiutandosi di metter mano ad un riassetto del sistema che lha portata al fallimento.
Un sistema, bada bene, che è la vera causa dellimpoverimento di tanti greci, a dispetto di chi blatera che sia Germania ad affamarli. Mentre leconomia greca aveva un tasso di crescita del 4% – parlo del periodo tra il 1998 e il 2007, prima che la crisi economica si abbattesse sugli Stati Uniti e da lì allEuropa – la spesa sociale ammontava a meno della metà di quanto ammontasse in Germania. Certo, si tratta di un’odiosa vulgata che i greci siano dei fannulloni, e infatti sono al primo posto in Europa per ore annue di lavoro pro capite, sta di fatto che si sono dati dei governi che hanno continuato a concedere esenzioni fiscali ad armatori, grandi proprietari terrieri e Chiesa ortodossa. Prendi questultimo caso: la Chiesa ortodossa è il più grande proprietario terriero del paese, possiede catene alberghiere, centri turistici, proprietà immobiliari, aziende nei più svariati settori, e non ha mai pagato una dracma di tasse, né un euro, grazie ad un articolo della Costituzione del 1975, un articolo che neppure la nuova classe dirigente del paese riesce ad emendare, alla faccia del marxismo-leninismo che li ispira. Si calcola che negli ultimi dieci anni siano quasi 600 i miliardi di euro che dalla Grecia siano stati trasferiti allestero: passi che i governi di destra chiudessero un occhio, ma sti benedetti bolscevichi di Syriza, invece di andare col cappello in mano a chiedere la carità in Europa, cosa aspettano a nazionalizzare tutto?
Ok, stavo scaldandomi, ora mi calmo. Vedi, caro ***, non c’era bisogno che la Grecia danzasse sull’orlo del default per capire che lEuropa non va assolutamente bene così comè, ma, se doveva essere la Grecia a farlo capire a chi ancora non lha capito, non cera altro modo? I greci sono stati fottuti per lennesima volta, e stavolta da un cazzaro, uno che è della stessa pasta di Renzi, solo un poco più disperato, perché davvero ha poco da perdere, perché tutto è ormai già perso.

lunedì 6 luglio 2015

Un Oxi che non vuol dire niente


Giusto due anni fa intrattenevo il mio lettore sulle ragioni che mi avevano portato a rivedere la mia posizione sullistituto referendario, arrivando a definirlo inutile o dannoso. Non starò qui a ripetermi, dirò solo che la mia riflessione era partita dagli articoli che Arturo Labriola dedicò a questo strumento di democrazia diretta, su Critica Sociale, nel 1897, per poi passare allanalisi di ciò che listituto referendario ha significato in Italia, ma al netto di tutta la retorica che ne ha magnificato i risultati, comè evidente soprattutto per quello sul divorzio del 1974 e per quello sullaborto del 1981, che in fondo non servirono ad altro che a confermare due leggi approvate da un parlamento di eletti. Chi ne ha voglia potrà riandare a quei post per prendere atto che la critica allistituto referendario veniva a trarre ulteriore motivo dalla natura inevitabilmente ambigua che assume un quesito quando sia posto come variabile indipendente dal contesto generale nel quale trovi modo di essere formulato come chiave di un cambiamento che si ritenga possibile in virtù del mero desiderio di realizzarlo, perché non cè mai stato velleitarismo che alla lunga non abbia mostrato i propri limiti nel trascurare le resistenze al cambiamento.
Inutile o dannoso, il referendum, perché strumento che si rivela quasi sempre essenzialmente inefficace a opporre la volontà degli elettori a quella dei propri governanti, quando queste confliggano, o addirittura facilmente utilizzabile per coartare le forze che si esprimono attraverso l’una ai disegni che mirano a realizzare laltra, nelle forme di quella deriva plebiscitaria che quasi sempre ha per fine lasservimento delle masse agli interessi di uno o di pochi, non importa se folli avventurieri o freddi delinquenti. Ma direi di più: quandanche il referendum non riveli la sua inutilità con l’irrilevanza sostanziale data a ciò che formalmente ha espresso come volontà popolare, resta il problema che non possa far tabula rasa delle conseguenze che il passato ha sul presente. Un referendum può trasformare una monarchia in repubblica, ma questo, di per se stesso, non trasforma un tracollo bellico in vittoria militare.
Bene, direi che il referendum tenuto ieri in Grecia possa dirsi senza dubbio inutile e per molti versi dannoso. Anche in questo caso era rispettata la regola di interrogare un popolo su questioni che erano state enucleate da un problema assai più ampio, che daltronde nella sua portata generale non poteva non restare del tutto fuori dalla possibilità di essere rimesso alla volontà popolare, in primo luogo per vincoli di natura giuridica, speciosamente e strumentalmente elusi per dar da credere che il risultato delle urne potesse in qualche modo esprimere la volontà dei greci riguardo al restare o meno nell’Eurozona, qualsiasi cosa voglia intendersi per Eurozona, o ci sia interessa che si intenda. In sostanza, il referendum non decideva sulla permanenza della Grecia nella Comunità europea, né sul corso delleuro in Grecia, ma lintenzione di chi lo ha indetto, e in fretta, e senza preoccuparsi troppo di chiarirne il senso a chi chiamava alle urne, era quella di farsi forte di un risultato in gran parte previsto, e proprio in virtù del significato che si era certi di poter ingannevolmente attribuire alla consultazione, per riaprire i negoziati con i creditori in una condizione che sul piano interno e su quello esterno almeno apparisse migliore, se pure non potesse esserlo, rispetto a quella in cui si era al momento in cui le trattative si erano interrotte. In parole povere, i greci sono stati ingannati come daltronde è stato fatto per decenni: i predecessori di Tsipras hanno fatto creder loro che potessero entrare in Europa continuando a vivere da greci, e Tsipras ha fatto creder loro che ora ne possano uscire per tornare a vivere come prima che lEuropa esistesse, e naturalmente per Europa qui è da intendere quel che è lEuropa è oggi, ed è tutto tranne quel che voleva essere, o diceva di voler essere, certo, sta di fatto tuttavia che a ciò che è si è giunti anche per lassenso dei governi greci, che hanno sottoscritto impegni non solo per il loro oggi, ma anche per il loro domani.
È chiaro, poi, che si possa chiedere di rinegoziare gli impegni presi, ma pretendere che questi vengano rinegoziati nei modi voluti, e senza che la controparte batta ciglio, in virtù poi del fatto che un referendum abbia solo aleatoriamente dichiarati nulli quegli impegni, prima assunti con evidente leggerezza, non dice nulla riguardo al fatto che chi è investito della responsabilità di rappresentare il proprio paese lo inganni al punto da rappresentarne anche linaffidabilità rispetto agli impegni presi? La Grecia è libera di uscire dalla Comunità europea, è libera di tornare alla dracma, è libera perfino di non pagare i propri debiti, e ovviamente è libera di diventare uno stato socialista, però deve assumersene tutti gli oneri e le conseguenze. Non può pretendere di farlo solo a parole, per giunta con un Oxi che non vuol dire niente. Perché una cosa deve esser chiara, al netto del tanto rumore che ha preceduto questo referendum, e la cui eco ancora sarà udibile per qualche settimana: la Grecia è nella stessa situazione in cui era prima, e di certo non è più forte, anche se ieri sera si è illusa desserlo.



Meditazioni trascendentali / 1

Adesso è facile capire la differenza che cera tra i due, ma nel 1972 tutti pensavano che Alan Sorrenti fosse una specie di Demetrios Stratos, è che i gargarismi in falsetto del primo sembravano apparentati alle diplofonie e alle trifonie del secondo, colpa del cerume che da un po intasava l’italico orecchio medio (e qui «medio» ha il suo bravo doppio senso). Non ci fu bisogno di aspettare molto per capire che appartenevano a due razze diverse, perché Alan Sorrenti passò quasi subito dalla progressive alla disco e Demetrios Stratos morì. Non fosse morto, poteva passare dallovertone a un qualche inutile trallallèro, chi può dirlo? Sicché laudato si, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente po scappare, salvo scoraggiarla, mostrandosi al naturale.

domenica 5 luglio 2015

[...]

Un lettore mi ha chiesto: «Perché lei evita sempre di entrare nel merito delle questioni economiche?». Alla domanda ho risposto in modo elusivo: «Perché implicano una dichiarazione di fede». Me ne sono subito pentito, ma ho rimosso. Poi mi è capitata sotto gli occhi lintervista che Antonio Martino ha concesso a Sandro Iacometti (Libero, 3.7.2015) e mi ci sono specchiato di quel tanto che qui mi consente di riparare, riproducendola.  


Professor Antonio Martino, perché siamo arrivati a questa situazione con la Grecia, di chi è la colpa?
«La responsabilità fondamentale è dell’Europa. Dagli alti ideali del processo di unificazione economica, partito proprio in Italia grazie anche a mio padre, del cui lavoro sono molto orgoglioso, si è passati ad un meccanismo con cui redistribuire reddito da un Paese all’altro. Fuori dai denti, per dare fregature ad alcuni Stati e vantaggi ad altri».
Ma ora come si risolve?
«La parola spread è inglese,ma non ho mai sentito un americano che si preoccupasse dello spread fra il tasso di interesse californiano e quello texano.
Perché a uno è mai venuto in mente che se la California non riesce a collocare i titoli di Stato i texani li debbano comprare. La California fallisce e quelli che hanno i titoli se ne fanno una ragione».
Quindi la Grecia dovrebbe fallire?
«Quello che vale per il governo federale americano da oltre due secoli perché non dovrebbe valere per l’Europa? Se la Grecia non può onorare i suoi debiti deve fallire, i titoli diventano carta straccia e quelli che li hanno comprati subiscono una perdita in conto capitale, del resto hanno lucrato sugli alti tassi di interesse per molto tempo. Vuol dire che gli è andata male, hanno fatto l’investimento sbagliato».
Però ci sono gli aiuti pubblici da restituire...
«E’ stato sbagliato, insensato e demenziale darglieli. Si rende conto che i protagonisti di questo psicodramma sono tre persone che nessuno ha eletto, una delle quali è a capo di una istituzione che avrebbe dovuto essere abolita nel 1967? La signora Lagarde del Fondo monetario internazionale non ha ragione di mettere bocca. L’Fmi è stato creato nel 1944 a Bretton Woods con lo scopo di finanziare i Paesi in deficit per evitare che svalutassero la loro moneta. Quando nel 1967 venne sciolto il Consorzio dell’oro e la convertibilità dei dollari in oro smise di essere pensabile, il Fondo avrebbe dovuto essere abolito. Invece fu mantenuto in vita, malgrado non serva assolutamente a niente tranne che a distribuire laute prebende a quelli che ci lavorano».
E i soldi che ha messo l’Italia, che fine fanno?
«Non dobbiamo più dare un euro a nessuno».
Ma quelli già dati?
«Niente, quelli sono persi».
Se la Grecia fallisce non rischia di saltare anche l’euro?
«Luigi Einaudi riteneva che la moneta unica avrebbe impedito agli Stati di pagare le spese pubbliche facendo stampare denaro alle banche centrali e dando vita alla più iniqua di tutte le imposte che è l’inflazione. Ma quell’idea è stata tradita, perché quello che sta facendo Mario Draghi con il QE altro non è che monetizzare il debito degli Stati membri, una cosa non prevista dai trattati».
Molti sostengono che se non ci fosse stata la Bce andava tutto all’aria...
«Molti sbagliano. Il QE produrrà i suoi effetti tra un anno e mezzo o due e la sua utilità è ancora lungi dall’essere provata. Il lavoro della Bce è stato superfluo e potenzialmente pericoloso perché potrebbe far partire un processo inflazionistico difficile da controllare».
Atene avrà pure qualche responsabilità...
«I Paesi europei devono capire che non si può avere contemporaneamente sviluppo economico, alta spesa pubblica e pareggio di bilancio. I greci inoltre sono abituati a vivere a spese degli altri, il problema è che gli altri prima o poi finiscono».

Massimo Bontempelli, Stato di grazia, Sansoni 1942


giovedì 2 luglio 2015

Moria di gatti


I

Suor Angelina, al secolo Genoveffa Poltronieri, era zoppa da sempre. «Cumme me lassaje cummenzaje a truculia’», confessò un giorno che era in vena di confidenze. Displasia dell’anca, probabilmente, ma a settant’anni e più, tanti ne aveva ai tempi cui rivanno queste memorie, con l’artrosi e l’osteoporosi che dovevano aver fatto il resto, sarebbe stata impossibile una diagnosi certa. Aveva sempre rifiutato una radiografia, disse, e da bambina era stata convinta dai suoi ad accettare la cosa come la volontà di Dio, col sollievo di sei centimetri di rialzo al tacco di una scarpa, che davano al suo passo il ritmo di una duina: struscio di spazzola e pedale di cassa, struscio di spazzola e pedale di cassa, struscio di spazzola e pedale di cassa. Praticamente da sempre era il factotum nella clinica in cui da una dozzina d’anni tenevo ambulatorio il mercoledì e il sabato, e nella quale era riuscita a sistemare tre nipoti, giardiniere, cuoco e barelliere, fatti venire dal paesino incastrato su un cocuzzolo del Molisano nel quale era nata.
Era lei a venirmi ad aprire, verso le sei del mattino, e la scena si ripeteva sempre uguale: il trillo del campanello, l’inconfondibile rumore dei suoi passi, le due mandate di chiavistello, la sua faccia da topo, l’immancabile «venite, ché mo è asciuto ’o cafè». Una chiavica di caffè, a onor del vero, ma per fumarci sopra la seconda sigaretta della mattinata si poteva pure chiudere un occhio.
La prima sigaretta della mattinata la fumavo in auto, una mezz’ora dopo essermi mosso da casa. Per arrivare in clinica alle sei partivo intorno alle cinque, passavo a prendere i giornali all’unica edicola aperta a quell’ora in città e mi avviavo, controllando di tanto in tanto nello specchietto retrovisore l’alba che mi seguiva fino a superarmi.
Era il momento più bello della giornata. Ormai conoscevo la strada così bene che avrei potuto percorrerla ad occhi chiusi, ma i fari dell’auto proiettavano una luce imperdibile sui costoni di tufo che bordavano da un lato la carreggiata, di un ocra che trascolorava ad ogni curva in suggestioni sempre diverse, talvolta davvero sorprendenti.
Di tanto in tanto incrociavo un camion carico di ortaggi o di legname, qualche pazzo che si allenava per una gara di fondo e, data l’ora, i cumuli di spazzatura che al ritorno non avrei visto più perché di lì a poco rimossi dai netturbini. Al ritorno non c’era più traccia neppure dei topi stecchiti dagli pneumatici delle auto che, abbagliandoli nel bel mezzo del guado, li paralizzavano al centro della carreggiata, lasciandoli lì, ridotti a oscene poltiglie dalle forme a volta davvero assai bizzarre. Spettacoli da dare il voltastomaco, comprensibile che la vita ridotta a carne scomposta venga sottratta alla vista delle donne che vanno a far la spesa e dei bambini che vanno a scuola, e così, premurosamente, accadeva. Tanto più se si trattasse di un gatto o di un cane.
Quei fagotti di viscere esplose sotto le ruote di un’auto mi infliggevano ogni volta domande che non trovavano risposte. Cosa poteva aver valso il rischio di attraversare la strada? Domanda idiota, cui un’altra tentava una risposta: un topo è in grado di concepire ciò che noi umani chiamiamo rischio? Ma pure questa mi sembrava idiota, e un’altra domanda, in risposta a quella, non meno idiota di quella, veniva a tentare invano una risposta: quella inutile traccia di frenata era un segno di superiorità dell’uomo sull’animale? Non sul piano dei riflessi, concludevo, ma senza aver concluso niente. Tutte le questioni sollevate restavano aperte, sicché passavo a un altro ordine di problemi. È più pena o ribrezzo? E perché si tratta in ogni caso di un sentimento che inesorabilmente è via via crescente all’aumentare della taglia dell’animale ucciso?
Anche queste erano domande che rimanevano senza risposta, ma il caffè di suor Angelina le dissolveva, e senza che ne restasse traccia lungo la giornata. Tornavano lungo la strada che mi riportava a casa, dopo il lavoro, ma in altra forma. Ripensavo al cancro ovarico della quindicenne, al seminoma testicolare del trentenne, al linfoma del settantenne, e con dispetto facevo i conti con quella gerarchia emotiva che mi dettava una palese disparità di pena da caso a caso. E anche qui non sapevo se fosse giusto o no.



II

Intorno alla fine di gennaio dell’anno in cui si svolsero i fatti che mi accingo a narrare accadde qualcosa di inquietante: settimana dopo settimana aumentava il numero dei gatti che trovavo morti sulla strada che facevo. A pensarci bene, la cosa doveva essere cominciata già negli ultimi mesi dell’anno che si era appena chiuso, ma ora non c’era settimana che non ne contassi almeno quattro o cinque, e il numero era destinato a crescere, perché nella sola seconda settimana di aprile ne contai quattro il mercoledì e tre il sabato.
Non era solo questo a darmi inquietudine. I corpi giacevano senza vita lungo un tratto di strada relativamente ridotto, non più di quattro o cinque chilometri, gli ultimi prima del mio arrivo, ma nell’area, almeno quando vi passavo, non vi era alcun segno del movimento cui i gatti avrebbero dovuto dar vita per dare in qualche modo spiegazione di un così elevato numero di cadaverini: non un gatto vivo ai margini della carreggiata, solo gatti morti. Era come se si dessero appuntamento in gran numero in quella zona apposta per farsi mettere sotto le ruote delle auto che passavano di lì, per poi sparire, e darsi appuntamento la notte dopo.
Un convegno suicidiario? Decine, forse centinaia di felini, per qualche ora si affollavano lungo quei quattro o cinque chilometri di strada, in attesa di un’auto, di un furgone, di un camion, per andare spiaccicarvisi sotto? Per essere una strada così poco trafficata di notte, la cosa sollevava molti dubbi, in primo luogo riguardo al fatto che nessuno se ne fosse accorto. Di fatto, nessuno ne parlava.
Altri dettagli rendevano il mistero ancora più inspiegabile. In primo luogo, col crescere del loro numero, i gatti morti non giacevano più in modo casuale sulla carreggiata, ma quasi esclusivamente sul suo lato destro, a un metro o poco più dalla striscia gialla che la delimitava. Poi, e qui la cosa dava davvero da pensare, non vi era alcuna traccia di frenata degli pneumatici sull’asfalto. L’ipotesi del convegno suicidiario perdeva peso, ma forse era più credibile che qualcuno si fosse inventato un nuovo sport? Una combriccola di automobilisti batteva quel tratto di strada per la loro notturna caccia al gatto? Ipotesi ancor più balzana. Per cercare di capirne qualcosa avrei dovuto dedicare del tempo alla faccenda, ma non potevo permettermelo, sicché cercai di accantonarla, anche se ogni mercoledì e ogni sabato tornava a pungolarmi.
Durò poco, perché un sabato mattina mi si presentò davanti Angelo D’Esposito, un omino sulla cinquantina, capo netturbino. Da qualche tempo aveva una febbricola accompagnata da nausea, inappetenza, dolore al fianco destro, un lieve ittero e perdita di peso. L’ecografia chiarì che si trattava di un grosso ascesso, presumibilmente amebico, che gli aveva mangiato quasi tutto il lobo sinistro epatico. Accolse la diagnosi quasi sollevato, perché aveva pensato si trattasse di molto peggio e, giacché era l’ultimo paziente della giornata, ci trattenemmo un po’ a chiacchierare. E così arrivai a chiedergli dei gatti.
«Com’è che ne muoiono così tanti da queste parti?».
Fece una smorfia come se si trattasse di una questione ormai archiviata senza spiegazione.
«Non me ne parli. Ne abbiamo discusso per settimane coi colleghi dei comuni della zona e non siamo riusciti ad arrivare a niente. Nessuno che sia riuscito a capire cosa accada, ma per i nostri uomini il mercoledì e il sabato sono i giorni più faticosi. Perché non è tanto la rimozione dei corpi, ma pulire l’asfalto è un lavoraccio che richiede...».
«Come? – lo interruppi – Li trovate solo il mercoledì e il sabato?».
«Non se n’è accorto? Solo in quei due giorni».



III

Tornando a casa, cercai di mettere un po’ d’ordine ai pensieri che avevano cominciato ad affollarsi attorno a quanto avevo appreso dal D’Esposito.
E dunque. Da alcuni mesi sempre più gatti morivano sotto le ruote delle auto su un tratto di strada lungo sette o otto chilometri, perché a quelli che percorrevo io – così mi aveva rivelato il D’Esposito – se ne dovevano aggiungere almeno altri due, proseguendo oltre, sui quali la cosa era fin lì stata in tutto simile. I corpi venivano trovati quasi soltanto il mercoledì e il sabato, era solo grazie a questa coincidenza coi giorni in cui avevo ambulatorio in clinica che avevo potuto accorgermi della cosa. Chi investiva i gatti non accennava neppure a un tentativo di frenata e tuttavia non era evidente un chiaro intento di passarci sopra perché la posizione in cui venivano trovati i corpi era compatibile con una traiettoria dell’auto sulla carreggiata del tutto ordinaria, sicché la cosa risultava due volte inspiegabile, sia a voler ipotizzare una caccia al gatto, sia a pensare che si trattasse di un suicidio di massa. La cosa, poi. Continuavo a dire «la cosa», ed era solo per negare a me stesso che fosse diventata una vera e propria ossessione. Cominciavo a sognare gatti morti, e risparmio a queste pagine i dettagli. Risolsi che avrei dovuto interessarmi alla faccenda.
Quasi avesse intuito, il D’Esposito mi lasciò in clinica un plico con una relazione dettagliata su quanto aveva registrato negli ultimi mesi, corredata perfino da alcuni grafici, da alcune foto, da fotocopie di circolari, di esposti alle autorità competenti: dal dicembre dell’anno precedente al luglio corrente, centoundici gatti morti trovati il mercoledì e il sabato, a fronte dei soli quattro trovati negli altri giorni della settimana; conferma dell’uniformità dei dati relativi alla posizione dei corpi sulla carreggiata, quasi tutti giacenti sul suo margine destro, col loro asse maggiore perpendicolare a quello della corsa degli pneumatici; dato che mi sorprese, perché fin lì non ero stato in grado di rilevarlo, uniforme era anche il tipo di lesione che aveva causato tutte quelle morti, quasi sempre a carico del solo cranio, tutt’al più del cranio e del torace; a ulteriore e maggiore sorpresa, la concorde strafottenza alle segnalazioni che il D’Esposito aveva inviato alle forze dell’ordine, agli uffici comunali, alla locale società protettrice degli animali, ecc.
Il plico era accompagnato da una lettera:

«Caro dottore,
le scrivo da Brescia, dove sono arrivato la settimana scorsa, perché non mi fidavo delle cure che avrei potuto aspettarmi rimanendo a casa. Qui il primario mi prega di farle i complimenti per la diagnosi: dice che non era facile pensare che si trattasse proprio di un ascesso amebico, e infatti prima di crederci mi hanno fatto una tac e un sacco di altre analisi. Ora sono in terapia e ogni tre giorni mi fanno un’ecografia di controllo. Pare che l’ascesso vada regredendo, adesso è di quarantadue millimetri, e comunque la febbre va sparendo. Insomma, se Dio vuole, tra due o tre settimane dovrebbero dimettermi, almeno così dicono.
Come ha visto, le ho lasciato un po’ di materiale relativo alla questione di cui discutemmo. All’inizio ci stavo perdendo la testa e mi ero fatto delle idee assai strane che comunque abbandonai subito perché tiravano in ballo persone che non riuscivo neanche a immaginare capaci del fatto. Ho pensato che sia meglio se ne interessi lei, se ne ha voglia e se riuscirà a trovare tempo, ma l’impressione che la faccenda nasconda qualcosa di grosso non mi è mai passata, quindi avrei piacere se al mio ritorno mi facesse sapere cosa è riuscito a capire, visto che qui mi dicono che avrò bisogno di un’ecografia ogni tre mesi per almeno un anno. Dicono che si tratta di ascessi che possono dare recidiva e qui mi consenta, con rispetto parlando, una scaramantica grattata di palle.
A presto, suo

Angelo D’Esposito

P.S.: Pensa che quello che mi è accaduto possa avere qualche relazione col mio lavoro? Crede possa esserci possibilità di iniziare una pratica per il pensionamento anticipato da malattia professionale?».

Cosa intendeva dire, il D’Esposito, quando parlava di «persone che non riuscivo neanche a immaginare capaci del fatto»? A cosa l’avevano portato, le sue indagini? Quali erano i suoi sospetti?


IV

Decisi di procedere in modo sistematico. Anche troppo, in verità, perché cominciai con l’infliggermi la lettura del più voluminoso trattato sui gatti che riuscii a procurarmi: due tomi per un totale di oltre tremila pagine. L’opera si apriva con un’ampia e dettagliata trattazione dell’anatomia e della fisiologia dei felini, per passare poi ad una sezione relativa alle loro patologie più comuni, fino a quelle più rare. A chiudere il primo tomo, una più che esauriente sezione dedicata alla loro alimentazione e alle loro abitudini, insieme ad una infinita serie di consigli relativi alla perfetta convivenza dell’animale con la specie umana.
Assai più interessante il secondo tomo, quasi interamente dedicato alla storia dell’animale dagli albori della storia ai nostri giorni: ittiti e atzechi, impero di Carlo V e antico Egitto, Roma dell’età repubblicana e Inghilterra vittoriana, e in tutto la sorniona e fiera presenza del gatto. Cose che in gran parte già conoscevo, ma ad ogni pagina scoprivo qualcosa di nuovo, perfino di incredibile.
Puntai l’attenzione a tutto ciò che fosse in relazione all’uccisione dei gatti nel corso della storia. Poca roba. Una setta assira li sacrificava al plenilunio nella certezza che fossero le vittime preferite dal proprio dio. Un altro gruppetto di folli, nel primo Rinascimento, vicino ad Amsterdam, li squartava vivi dopo averli nutriti con latte di capra per trenta giorni, tenendoli al buio, per prelevarne la bile, ingrediente base per la preparazione di uno dei tanti elisir di lunga vita ideati dalla ispirata cialtroneria umana. E poi per secoli erano stati uccisi per far cappelli e baveri con la loro pelliccia, nella versione povera di quella di volpe. Ma i gatti di cui mi interessavo io non morivano nei pleniluni, né venivano trovati scuoiati, e agli elisir di lunga vita, infine, chi poteva credere ancora?
Proseguendo, trovai i gatti uccisi nel XVI secolo dagli studenti di medicina cui era interdetto lo studio dell’anatomia sui cadaveri umani, e ancora quelli che vennero mangiati a Leningrado, prima che l’assedio ad opera dell’esercito del Terzo Reich costringesse gli assediati, finiti i gatti, a passare ai topi. Si parlava degli studi neurologici che Charcot per qualche tempo condusse sul cervello di gatto, e di quelli, in parte analoghi, di Ramon y Cayal: gatti che finivano in un inceneritore, non ai bordi delle strade. Poi, naturalmente, The Great Cat Massacre sul quale qualche anno prima Robert Darnton aveva scritto un fortunato saggio... Nulla, insomma, che facesse al caso mio.
Quasi nulla, per meglio dire. Perché una decina di righe era dedicata a un vecchio rito pagano riesumato intorno al 1500 ad Amalfi, ad opera di un certo Eugenio Sormani e dei suoi accoliti, tutti finiti al rogo per stregoneria tra il 1517 e il 1521: impiccavano gatti e traevano aruspici dalle oscillazioni della corda durante la loro agonia. Pensai che anche in questo caso non si trattasse di una traccia utile, ma d’un tratto, come trafitto da una rivelazione, mi ritrovai a chiedermi: «Ma siamo sicuri che muoiano sotto gli pneumatici delle auto? Non è possibile che siano uccisi altrove, e in altro modo, per essere portati dove poi vengono trovati allo scopo di celare il vero scopo per cui vengono uccisi? E il fatto che le ruote passino esclusivamente sulle loro teste non può servire proprio a cancellare ogni segno che indichi in che modo sono stati uccisi?». «Fosse così – conclusi – si spiegherebbe tutto ciò che fino ad ora è stato inspiegabile».
Presi le foto scattate dal D’Esposito per cercare di cogliervi qualcosa che potesse essermi sfuggito. Niente, le teste dei gatti erano ridotte in uno stato da rendere impossibile qualsiasi supposizione. Dovevo procedere di persona.
Un sabato di ottobre, alle cinque e un quarto, accostai la mia Renault al bordo della solita strada, tirai il freno a mano e spensi il motore. Uscii dall’auto armato di una Polaroid e di un nastro centimetrato e mi avvicinai al corpo di un gatto che mi ero lasciato una ventina di metri dietro. Aveva la testa spiaccicata sull’asfalto, quasi esplosa sotto il peso della ruota che le era passata sopra. Sulla poltiglia sanguinolenta era visibile perfino l’impronta dello pneumatico in due strisce di poco divergenti l’una dall’altra. Vincendo il ribrezzo, scattai quante più foto possibili, per poi prendere le misure che potessero tornarmi utili. Procedendo verso la clinica, vidi altri cinque cadaverini, ma solo con due ripetei le stesse operazioni, perché avevo esaurito la scorta di caricatori per la Polaroid.


V

Per qualche giorno non fui in grado di metter mano al materiale che avevo raccolto: potrà far sorridere, ma era come se temessi qualcosa. Quando finalmente poi mi decisi, ogni timore si dissolse, ma per lasciare posto ad una frenesia che non mi lasciò più.
I tre casi di cui avevo raccolto gli estremi erano in tutto simili. Li confrontai con quelli delle foto del D’Esposito e tutto coincideva con i miei. Le impronte degli pneumatici appartenevano tutte allo stesso modello: era sempre la stessa auto.
D’un tratto riuscii anche a spiegarmi la sovrapposizione delle due impronte tra loro lievemente divergenti: l’autore del fattaccio fermava la sua auto sul bordo della carreggiata, scendeva col gatto già morto, lo piazzava con la testa davanti alla ruota anteriore destra e ripartiva, sicché la ruota posteriore destra passava anch’essa sul cadavere ma con l’angolo di scarto dovuto alla sterzata necessaria a rimettere in carreggiata un’auto che aveva precedentemente accostato al suo bordo tenendosi di poco obliqua alla sua parallela.
Mancava la cosa più importante: a chi apparteneva quell’auto? Era credibile che appartenesse a un tizio in grado di procurarsi da solo, e in meno di un anno, più di un centinaio di gatti? No, era praticamente certo che fosse solo un anello della catena, probabilmente l’ultimo. E dunque si trattava di qualcosa che implicava più persone. Di cosa si trattasse, ero ancora lontano dal capirlo, e infatti infilai un vicolo cieco: «Passare con lo pneumatico sempre sulla testa e sul collo dei gatti – mi chiesi – non servirà per caso a cancellare i segni di un cappio? Vuoi vedere che Eugenio Sormani ha ancora dei seguaci?».
Mi tornarono in mente le parole del D’Esposito: «persone che non riuscivo neanche a immaginare capaci del fatto». Mi sembrò che lo sgomento potesse ricadere su quelle «persone» in ragione del «fatto»: una setta che impiccava gatti mi sembrò che incastonasse a dovere quello sgomento. Decisi di scrivergli per aggiornarlo su quello che avevo scoperto, per metterlo al corrente dei miei sospetti, in realtà sperando che li confermasse, dandomi un’ulteriore traccia. Fu solo dopo aver spedito la lettera che cominciai ad avere dubbi sull’ipotesi dei sormaniani, ma intanto avevo già deciso di fare un salto ad Amalfi. Mi imposi di soprassedere in attesa della risposta del D’Esposito. Intanto avrei fatto qualche domanda a Gaetano Nicolella, il mio meccanico.



VI

«È un copertone della Pirelli che è in commercio solo da due o tre anni – disse Gaetano Nicolella – ma è montato su almeno cinque o sei tipi d’auto».
«E dall’angolo col quale divergono le due impronte non si può risalire alla distanza tra l’asse anteriore e quello posteriore, e quindi all’auto che monta questo pneumatico?».
Scosse il capo: «Se si sapesse con quale angolo di sterzata ha accostato l’auto – rispose – ma questo non lo sappiamo, né c’è modo di saperlo».
Tentai: «Ma l’angolo col quale divergono le due impronte è praticamente uguale in tutte le foto...».
«Questo – disse – ci consente di essere sicuri solo del fatto che accosta l’auto praticamente sempre con la stessa angolazione rispetto al bordo della carreggiata: niente di più, niente di meno».
Un buco nell’acqua, pensai, e feci per andarmene, scusandomi per il tempo che gli avevo fatto perdere. Tornai subito indietro, gli chiesi di non mandarmi al diavolo se gli ponevo un altro problema.
In tutte le foto che inquadravano un’area relativamente ampia rispetto al corpo del gatto, sia in quelle mie, sia in quelle scattate dal D’Esposito, era presente sull’asfalto una macchia che sembrava d’olio. Era un dettaglio che avevo notato solo guardando le foto e di cui dunque non avevo dati relativi alla distanza che lo separava dai punti che avevo preso in considerazione. Pasticciando nel tentativo di spiegare cosa pretendevo di sapere, chiesi al brav’uomo se una misurazione nota tra due punti considerati in una delle foto permettesse di calcolare la distanza tra il dorso del gatto – e dunque, con lieve approssimazione, tra l’asse anteriore dell’auto – e il punto dal quale era colato il liquido che aveva dato luogo a quella macchia.
«Cominciamo col dire – fece Gaetano – che una perdita di questo tipo può venire solo dal bocchetto posteriore della coppa. Se non fosse che la distanza tra la macchia e il dorso del gatto non è quella tra il bocchetto e l’asse anteriore...».
«Va bene – dissi interrompendolo – ma si tratta dell’ipotenusa di un triangolo rettangolo che ha per cateto lungo tra distanza tra il bocchetto e il punto mediano dell’asse anteriore e per cateto corto più o meno la metà della lunghezza dello stesso asse. Quindi, volendo...».
«Volendo, cosa?», fece.
«Sui tabulati che la casa produttrice di un’auto rilascia – dissi – ci sarà la distanza tra la coppa e l’asse, no?».
«No», rispose.
«E calcolarla su tutti modelli d’auto che passano per un’officina come questa...?», azzardai.
«Cosa dovrei fare?», chiese.
Si fece un po’ pregare, ma finì con l’accettare, e due giorni dopo mi arrivò una sua telefonata. Solo due modelli d’auto avevano un bocchetto posteriore della coppa dell’olio a un metro e ottantasette dalla ruota anteriore destra, ma solo uno montava il copertone della Pirelli la cui impronta era sulle foto: la Fiat Tipo. «Che li impicchi o no – mi dissi – li va schiacciare sotto le ruote della sua Fiat Tipo che perde olio dal bocchetto posteriore della coppa dellolio». Non era molto, ma non era neanche poco.
Il giorno dopo mi arrivò una lettera da Brescia:

«Gentile collega,
le rispediamo la lettera da lei inviata al signor Angelo D’Esposito, che sappiamo essere stato suo paziente, e che egli non ha potuto leggere perché deceduto due giorni prima del recapito, per sepsi generale...».

Povero Angelo, pensai, morendo s’è portato appresso un segreto che probabilmente non mi avrebbe rivelato, per evitare grane.



VII

La domenica dopo andai ad Amalfi. L’idea era quella di far visita a don Pasquale Coviello, che conoscevo da anni, perché ogni sei mesi veniva per una controllatina all’imponente gozzo tiroideo che una fifa matta gli impediva di decidersi a farsi asportare. Di Amalfi sapeva tutto, don Pasquale, e certamente avrebbe saputo dirmi se eventualmente avesse avuto l’impressione che negli ultimi tempi i sormaniani fossero riemersi dal buco nero che li aveva inghiottiti cinque secoli prima. Arrivai che aveva appena finito di dir messa, era in sagrestia a togliersi i paramenti.
«Qual buon vento...?», mi fece.
«Passavo da queste parti e mi son detto: “Andiamo a vedere se per caso il gozzo non ha soffocato don Pasquale”».
«Eh, no – disse sbottonando il colletto ed esibendo una cicatrice non più vecchia di un mese – il gozzo non c’è più. E ringraziando Nostro Signore è andato tutto liscio. Ma non credo che lei sia venuto qui solo per questo, mi dica in cosa posso esserle utile».
«Mi parli un poco di Eugenio Sormani».
«Oh, Sormani. Il pazzo che fu bruciato a Napoli, vero?».
Annuii.
«Non c’è molto da dire, in verità. Fu arrestato da queste parti nel 1513, insieme a una dozzina di suoi seguaci, dall’Inquisizione, pare su segnalazione del cardinale Ottavio Baldacci. Lo portarono a Napoli, dove fu processato per stregoneria e condannato al rogo. Al momento dell’arresto gli trovarono in casa un impressionante numero di teschi di gatti, il che non fu irrilevante per sostenere l’accusa di maneggi con Satana. Sotto tortura rivelò le pratiche della setta alla quale aveva dato vita, tanto astruse da dar corpo ai sospetti che lo avevano portato in giudizio. In ogni notte di luna piena i sormaniani impiccavano gatti a dei pali piantati a terra a comporre la disposizione delle stelle in una data costellazione... Non saprei essere più preciso... Ho letto gli atti del processo, ma la confessione è un guazzabuglio di assurdità...».
«Pare che traessero degli aruspici dalle oscillazioni delle corde, no?».
«Sì, anche quello, ma non solo. Piluccando dai pitagorici e dai cabalisti, il Sormani si era costruito un sistema mostruosamente complicato che mischiava assieme astronomia e alchimia... Onestamente, non saprei dirle nulla di più preciso. Ma mi dica: com’è che le interessano i sormaniani?».
Gli raccontai della faccenda.
«Oh, povero D’Esposito! Non lo sapevo. Il Signore l’abbia d’accanto, era un brav’uomo... Ma, se devo dirle la mia, qui il Sormani non c’entra. In quei suoi riti macabri tutto presupponeva dei postulati che oggi neanche un pazzo si sognerebbe di sostenere. E poi c’è la questione dei crani... Alle teste dei gatti i sormaniani riservavano un enorme rispetto, sostenevano che la loro volta cranica riproducesse quella del Nono Cielo... No, qui le vanno a schiacciare sotto la ruota di un’auto... Non ci siamo, non ci siamo proprio».
Capii di aver imboccato una falsa pista.



VIII

Due mercoledì dopo, senza che me ne avesse dato prevviso, don Pasquale Coviello venne a farmi visita in clinica.
Iniziò senza preamboli:
«Dobbiamo fare l’autopsia ad uno di quei gatti».
Mi lasciò senza parole, ma sembrò leggermi dentro tutte le obiezioni a quell’idea, perché continuò: «Nick, il mio gatto, è sparito».
Raccontò che di mattina presto si era fatta a piedi tutta la strada che da mesi era coperta da cadaveri di gatti, e che ne aveva contati cinque, ma Nick non c’era, «ringraziando Nostro Signore».
«Me lo ammazzeranno venerdì notte o al massimo martedì prossimo, ne sono sicuro. Dobbiamo fermarli, anche se il mio Nick non dovesse farcela in tempo. Dobbiamo sapere chi sono, cosa ne fanno, di cosa muoiono veramente, i gatti. Penserò a tutto io, le porterò io uno di quei corpi, lei deve solo contattare qualcuno che sia disposto a farne l’autopsia».
Capii il perché di tanta determinazione e un po’ mi rimproverai di non aver avuto io quell’idea. Mi dissi che solo il professor Mele avrebbe potuto darci un aiuto.
Il professor Mario Mele era un caro amico, nonostante avesse una trentina d’anni più di me. Ci eravamo conosciuti sette o otto anni prima per la stesura di un volume sull’impiego dell’ecografia in Medicina Legale e ne era nata un’istantanea simpatia che di tanto in tanto si nutriva di piccoli favori reciproci.
Una leggenda vivente, il Mele. Magrissimo, un centinaio di sigarette al giorno, un sarcasmo più tagliente del suo bisturi, una fama indiscussa che toccava punte di venerazione tra i suoi colleghi, uno dei quali un giorno mi disse:
«Mele lo fa parlare, il cadavere».
Al telefono gli spiegai velocemente la questione, che mi parve addirittura eccitarlo:
«Bellissimo, mandami subito uno di questi gatti».
Ci mettemmo d’accordo che per il sabato successivo, verso le undici, don Pasquale gli avrebbe portato in istituto uno dei cadaveri.
Quel sabato, verso le tre del pomeriggio, arrivò la sua telefonata:
«Che caso coi controcazzi... Hai tempo o ti mando tutto a casa?».
Sul lettino avevo una gravida con una bruttissima gestosi, gli dissi che avrei preferito mi facesse recapitare il referto a casa e che poi l’avrei chiamato l’indomani, in mattinata.
«Perfetto, rimaniamo così. Ma che caso, cazzo, che caso!», concluse, appiccicandomi addosso un curiosità che non smise di torturami fino a quando, la sera, aprii la sua busta gialla. Insieme al referto autoptico c’era una lettera. Lessi e tutto diventò chiaro:

«Caro mio,
quel prete ha uno stomaco di ferro. Mi ha portato tre sacchi con tre gatti, ha detto che pensava che così fosse meglio, che avremmo potuto avere più informazioni. Gli ho chiesto se avesse raccolto dall’asfalto tutto il materiale o se per caso avesse lasciato in loco qualche brandello di tessuto: mi ha assicurato di aver usato tutte le accortezze del caso. E ha insistito per pagare, anche se gli ho detto che non c’era bisogno perché eri tu ad avermi chiesto il piacere. Poi ha voluto a tutti i costi assistere al lavoro, anche se al secondo sacco s’è messo a piangere e ha cominciato a carezzare il gatto. Lo chiamava Nic, Mic, non ho capito bene, e lì non ha retto, s’è scusato ed è andato via. Gli ho detto che gli avrei spedito una copia del referto.
Ti risparmio le banalità pro forma che, se vuoi, potrai leggere dalla relazione che qui ti allego e arrivo al nocciolo della questione: per quanto le teste fossero massacrate, sono riuscito a ricostruire il cranio dei gatti in tutti e tre i casi, e in tutti e tre mancava un pezzetto della teca, più o meno della grandezza di un centimetro quadrato, di forma circolare, coi bordi che recavano i segni inconfondibili della trapanazione che è d’uso per gli studi di stereotassi cerebrale.
La morte risaliva a dieci-dodici ore dal ritrovamento, diciamo intorno alle diciassette-diciotto di venerdì, da iniezione intracardiaca di aria (in uno dei setti interventricolari ho trovato addirittura una punta d’ago spezzata).
Ci sentiamo domani, non farti problemi per l’ora ché anche di domenica mi sveglio presto.
Ti abbraccio,
Mario»

La mattina dopo, verso le nove, lo chiamai.
«Bello, eh? Chi può essere questo figlio di buona donna che si allena sui gatti, hai qualche idea?».
Sì, l’avevo.



IX

Il dottor Massimo Russo era neurochirurgo e lavorava nella stessa clinica dove il mercoledì e il sabato tenevo ambulatorio. Lo conoscevo solo di nome, perché aveva studio in giorni diversi da quelli in cui l’avevo io: il martedì e il venerdì, seppi. L'amministrazione gli aveva concesso due stanzette al piano terra per il suo ambulatorio della mattinata, ma sempre più spesso negli ultimi anni vi si tratteneva fino a tarda serata con due o tre giovani specializzandi che lo assistevano al lavoro. In cosa consistesse questo lavoro, nessuno seppe dirmelo in clinica.
Gli chiesi un appuntamento e il martedì sera arrivai in clinica. Mentre varcavo l’uscio, incrociai uno dei suoi assistenti che stava uscendo. Reggeva un grosso contenitore di plastica.
Non persi un istante:
«Scusi, è sua la Fiat Tipo che è nel parcheggio?», chiesi, anche se non ero sicuro di averla vista.
«Sì – rispose – perché?».
«Non vorrei sbagliare – dissi – ma mi pare che abbia lasciato i fari accesi».
«Oh, grazie», fece, affrettandosi.
Arrivai alla porta dello studio del dottor Russo e bussai. Venne ad aprirmi con un sorriso di quelli che fanno della mandibola un pericoloso corpo contundente. Mi fece accomodare e chiese:
«In cosa posso esserti utile, caro collega?».
«Io sto bene – iniziai goffamente – vengo qui per una questione, diciamo così, personale. E vorrei che fosse una discussione civile. Diciamo che sono uno dei pochi che si è accorto di questi troppi gatti che vengono trovati morti da queste parti. Non importa come sia arrivato a capire come finiscano con la testa spiacciata sotto la Fiat Tipo del suo assistente che anche stasera è andato ad allestire la solita sceneggiata, ma so perché vengono uccisi e so del buco che hanno in testa quando escono da qui... Quanti erano stasera? Cinque?»
«Quattro. Ma continua, e dammi pure del tu».
«No, grazie, d’altronde c’è poco altro da dire. Volevo solo chiederle se questo sconcio può finire. Ho saputo che si parla di aprire qui in clinica una sala operatoria per la neurochirurgia, penso che ormai la mano dev’essersela fatta...».
Tacque per qualche secondo, poi mi disse:
«In quanti siete a sapere di questa cosa?».
«In tre», risposi.
Probabilmente il tono gli suonò minatorio, perché parlò con la durezza d’accento di chi come unica difesa abbia l’attacco:
«Bene, inizio dicendo che, se volessi, il mio lavoro potrebbe continuare ugualmente. Al massimo dovrei spostarmi da qui, dovrei trovare un altro modo per liberarmi dei cadaveri, ma queste sono cose che si risolvono in mezza giornata. D’altra parte, lei non ha alcuna prova. Anche se ne avesse, non troverebbe porte aperte. Sa chi è il presidente della società protettrice degli animali in questa regione? Mia moglie. Al comandante della stazione dei carabinieri della zona ho salvato un figlio da una brutta meningite. Mio fratello lavora al Viminale. E sa che la clinica si è già impegnata per l’acquisto delle apparecchiature della nuova sala operatoria di cui sarò il responsabile? Due miliardi sono un investimento che deve fruttare. Faccia quello che le pare, le rideranno in faccia. Ah, poi ci sono i miei tre assistenti. Sono giovani, non vedono l’ora di lavorare, per proteggere il progetto per il quale sudano da due anni sarebbero capaci anche di sgradevoli colpi di testa...».
Dovette intuire che dal disagio passavo all’inquietudine, perché ammorbidì d’un tratto i toni:
«Ecco, potrei risponderle così, ma invece la metterò in altro modo. Sa quanti morti ci sono ogni anno in questa zona per ictus e trombosi cerebrale, lei che va contando quanti gatti morti trova per strada? Glielo dico io: l’anno scorso sono stati cinquantasette, e l’anno prima sessantuno. E sa perché muoiono? Perché in più dell’ottantacinque per cento dei casi non riescono ad arrivare a Napoli in tempo utile».
Tacque un attimo, poi riprese, quasi urlando:
«Non me ne fotte un cazzo dei gatti e della sua delicatezza di stomaco. La clinica deve avere una sala operatoria e un chirurgo esperto e veloce. Se al mio caso fossero tornati utili i topi, lei non sarebbe qui, ma a me servivano i gatti e, si sa, i gatti sono carini, fanno le fusa... E poi mi dica: in quanti se ne sono accorti? Lei è arrivato secondo, sa? E sa chi l’ha preceduta? Uno spazzino. Uno spazzino, capisce? Che peraltro ha subito smesso di rompere il cazzo dopo una amabile chiacchieratina... Vada, per piacere, vada. Abbiamo perso entrambi del tempo. Per quanto mi riguarda, farò finta che questo incontro non ci sia mai stato. Le consiglio di fare altrettanto, ma si regoli come le pare».
Rimasi di gelo. Ebbi solo la forza di replicare:
«Ho capito. E per quanto tempo ancora continuerà tutto questo?».
Il suo tono di voce tornò sereno, quasi cordiale:
«Se tutto va bene, tre o quattro mesi. Dobbiamo lavorare soltanto sui versamenti della fossa cranica posteriore».
Non riuscii più a dire neppure un’altra parola. Mi alzai e andai via.