sabato 9 aprile 2016

Amoris laetitia


«Diremo forse che colui che dà
maggiormente perde nello scambio
sul valore di ciò che possedeva?
Niente affatto, dal momento
che tale superfluo è per lui senza utilità,
o che comunque, egli ha accettato di farne lo scambio
proprio perché accorda maggior valore
a ciò che riceve che a ciò che abbandona»

Michel Foucault, Le parole e le cose (1966)


Allapertura della sessione sinodale dello scorso ottobre, in favore di chi potesse averlo dimenticato, Bergoglio avvertiva che «il sinodo non è un parlamento», non è un luogo «dove ci si mette daccordo». Ancora più esplicito, alcuni mesi prima, era stato quando, allaccendersi di imbarazzanti tensioni tra gli opposti schieramenti in seno allassise che doveva licenziare lInstrumentum laboris a partire dalla Relatio synodis, aveva rammentato che, a norma del Codice di Diritto Canonico, «il sinodo dei vescovi è direttamente sottoposto allautorità del Romano Pontefice» (Can. 344). Come a dire: parresia à gogo, ma poi decido io, quindi moderiamo i toni. Che poi poteva intendersi pure a questo modo: ho già deciso il da farsi, mi servite solo a dargli la parvenza di una decisione collegiale, quindi cercate di non rompermi il cazzo.
Cosa avesse deciso era già chiaramente intuibile nella stessa decisione di convocare un sinodo straordinario, e proprio sulla famiglia: i margini entro i quali la pastorale poteva azzardare qualche novità consentivano di rinforzare allesterno limmagine di un pontificato che più di un fesso già aveva definito «rivoluzionario», senza per questo dover mettere a soqquadro la dottrina. In sostanza, si era riprodotta la situazione che ha già dato altre volte in passato alla Chiesa di Roma lopportunità di mostrarsi in grado di adattarsi ai tempi, ma senza svendere il suo deposito di fede, e Bergoglio non intendeva lasciarsene scappare loccasione. Con lesortazione apostolica postsinodale Amoris laetizia diremmo che loperazione sia andata a buon fine, ne sono prova le reazioni di chi vuol leggerla come una «rivoluzione».
In realtà, basta attenersi al testo per constatare che le sue accorte ambiguità possono accontentare anche i cattolici più intransigenti, che senza dubbio non rinunceranno a qualche lamentela, ma più per onorare il ruolo assegnato loro in commedia che per sincera preoccupazione. Nei loro confronti, daltronde, Bergoglio ha mostrato grande delicatezza con lannuncio di una ripresa delle trattative coi lefebvriani, diffuso, seppur con la dovuta discrezione, appena una settimana prima che fosse pubblicata lAmoris laetizia.

«La gioia dell’amore che si vive nelle famiglie è anche il giubilo della Chiesa» (1). Sarà superfluo chiarire che parliamo delle «famiglie» che la Chiesa ritiene propriamente tali, perché, tanto per fare un esempio, «non esiste fondamento alcuno per assimilare o stabilire analogie, neppure remote, tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia» (251). Daltra parte, la Chiesa può considerare moralmente legittimo un amore che non sia fecondo dandosi in «immagine per scoprire e descrivere il mistero di Dio» (11)?
E allora tutto vien da sé: cinque capitoli (198 dei 325 paragrafi che compongono lAmoris laetitia) che scorrono anodini a riproporci il modello di famiglia cristiana, quello strano oggetto che dalla testa del prete è proiettato sulla famiglia reale che occupa il banco in prima fila e pare segua con attenzione la sua omelia. Famiglia che non esiste neppure al netto delle assoluzioni per tutte le disattenzioni, ma al prete piace tanto da considerarla lunica possibile, anche se ha imparato a prendere atto che deve accontentarsi del poco che la proiezione gli restituisce: «non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte con interventi del magistero» (3), anche perché non possono, puttana Eva, e allora conviene «essere umili e realisti, per riconoscere che a volte il nostro modo di presentare le convinzioni cristiane e il modo di trattare le persone hanno aiutato a provocare ciò di cui oggi ci lamentiamo» (36). «Per molto tempo abbiamo creduto che solamente insistendo su questioni dottrinali, bioetiche e morali, senza motivare l’apertura alla grazia, avessimo già sostenuto a sufficienza le famiglie, consolidato il vincolo degli sposi e riempito di significato la loro vita insieme» (37), e che ci abbiamo ricavato? «Dobbiamo ringraziare per il fatto che la maggior parte della gente stima le relazioni familiari che vogliono durare nel tempo e che assicurano il rispetto all’altro» (38), approfittiamone e cerchiamo di cavarne quel che può tornarci utile.
Sia chiaro, «in nessun modo la Chiesa deve rinunciare a proporre l’ideale pieno del matrimonio» (307), ma cerchiamo di chiudere un occhio tutte le volte che nella realtà dobbiamo constatarlo più mezzo vuoto che mezzo pieno. Parola dordine: indorare la pillola. Per meglio dire: sullamo della dottrina ci vada un bel verme grasso di misericordia, e buona pesca. Viga il principio, ma la regola si adatti al caso. Perché il peccato resti peccato, siate di manica larga col perdono. Divorzio, aborto, eutanasia, fecondazione assistita, matrimonio gay – non cambia niente, è ovvio, ma cerchiamo di non urlarlo a squarciagola, ché ne ricaviamo solo emorroidi. Eucaristia ai divorziati risposati? No, ma sì, cioè, così così.
Ok, potrà «costa[rci] molto dare spazio nella pastorale all’amore incondizionato di Dio», saremo portati a «esig[ere] dai penitenti un proposito di pentimento senza ombra alcuna», ma convincetevi che «la prevedibilità di una nuova caduta non pregiudica l’autenticità del proposito» (311). Buon viso a cattivo gioco, ché a fare la faccia cattiva non si ha buon gioco.

venerdì 8 aprile 2016

[...]

Arrivato alla 246ª delle 1294 pagine de La scuola cattolica di Edoardo Albinati (Rizzoli, 2016), sento lirresistibile bisogno di espiare la colpa di averlo acquistato.

Non devo più farmi fottere dagli unanimi elogi della critica.
Non devo più farmi fottere dagli unanimi elogi della critica.
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giovedì 7 aprile 2016

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Quando ho saputo che Mario Calabresi passava dalla direzione de La Stampa a quella de la Repubblica, ho pensato a quella volta che Graziano Delrio fu pizzicato mentre usciva dalla residenza romana di Carlo De Benedetti. Silvio Berlusconi era ormai un uomo finito e il giornale che lo aveva combattuto per vent’anni non aveva più senso, doveva tornare di altra utilità, e con Matteo Renzi al governo la sua conduzione doveva cambiare mano. Chi era il più renziano dei direttori sulla piazza? Mario Calabresi. Del tutto irrilevante che lo fosse perché stregato dalle strabilianti virtù del Rottamatore o perché è così che voleva Sergio Marchionne: ora che la Repubblica doveva cambiare linea, Mario Calabresi era l’uomo giusto a Largo Fochetti.
Scelta che può dirsi più che azzeccata, basta prendere in mano il numero mandato oggi in edicola: la notizia che tutti gli altri quotidiani mettono in prima pagina – la pessima accoglienza che Napoli ha riservato al Presidente del Consiglio – scivola dopo il caso Vespa-Riina. Al primo colpo di vanga col quale Matteo Renzi comincia a scavare la sua fossa corrisponde l’ultimo col quale può dirsi definitivamente seppellito il giornale-partito di Eugenio Scalfari: intatta resta solo la testata, e tanto basta a Enrico Porro, che da anni cura il blog Pazzo per Repubblica, per continuare a esserne un fan, senza neppure riuscire a cogliere la strana gerarchia che oggi è data alle notizie.
È proprio vero: la lettura dei giornali è la preghiera del laico, ma a forza di recitare il rosario tutte le mattine si finisce per perdere il senso delle parole che fanno lAve Maria. Più sei fedele ad un quotidiano, meno riesci a coglierne gli scarti, neppure più taccorgi delle inversioni a U. 

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Cominciamo col dire che le colpe dei padri non devono mai ricadere sui figli. Poi però aggiungiamo subito che non si può pretendere che a un figlio riesca facile riconoscere le colpe che vengono addebitate al padre, e che è del tutto naturale che in lui continui a vedere il brav’uomo che non smetterà mai d’essere, a fronte di qualunque evidenza. Non dimentichiamo, infine, che anche il peggior fetente può essere un padre passabilmente amabile. E quindi lasciate in pace la povera Maria Elena Boschi: suo padre è davvero una brava persona.


mercoledì 6 aprile 2016

Sul referendum del 17 aprile

Una rapida occhiata ai numeri basta a chiarirci cosa davvero sia stato, in Italia, l’istituto referendario: i quesiti che si è tentato di sottoporre al parere degli italiani sono stati 191, ma, tra mancato raggiungimento del numero di firme necessarie e bocciature al vaglio di legittimità, il tentativo è andato in porto solo 67 volte, con 27 casi nei quali non si è raggiunto il quorum, 9 nei quali la proposta abrogativa è stata respinta e almeno la metà dei rimanenti 30 nei quali l’esito delle urne è stato sostanzialmente disatteso, vanificandone ogni effetto.
Com’è che allora il referendum continua a illudere tante anime belle? Quasi certamente lo si deve a tutta la retorica che si è spesa su quelli che furono indetti per abrogare le leggi che consentivano divorzio e aborto, e che non ci riuscirono: leggi che dobbiamo al Parlamento, ma che si continua ad avere la sensazione siano uscite dalle urne.
Non starò ad annoiare oltre il mio lettore: mi sono già intrattenuto a lungo, due o tre anni fa, sull’inutilità dell’istituto referendario, addirittura sulla sua pericolosità per quanto gli è conferito dall’essere uno strumento di democrazia diretta, dove il pericolo che sta a monte dell’illusione non è meno serio di quello che gli sta a valle. Qui, stringendo, non ho fatto altro che ripetere ciò che ho già detto allora, a indispensabile premessa di quanto segue, che poi è la risposta a chi mi ha chiesto se andrò a votare il 17 aprile e, se sì, come voterò.
Premessa che sembrerebbe voler dar senso a un’astensione. E invece andrò a votare. All’esclusivo scopo di dare il mio contributo al raggiungimento del quorum, che peraltro do per scontato sarà difficilissimo raggiungere. Meno difficile di quanto sarebbe stato se non fosse scoppiato lo scandalo che ha portato alle dimissioni di Federica Guidi, ma comunque assai difficile. Superfluo dire che questa decisione nasce dal significato che Matteo Renzi ha voluto dare a questo referendum, dunque potrebbe anche essere irrilevante cosa voterò: potrei anche annullare la scheda o lasciarla bianca, la ragione che mi porterà al seggio elettorale troverebbe comunque piena soddisfazione, anzi, in entrambi i casi la troverebbe in coerenza a ciò che penso dell’istituto referendario. Il fatto è che ritengo intellettualmente disonesto usare strumentalmente un voto al quale si è voluto strumentalmente attribuire un significato diverso da quello che dovrebbe avere, e dunque, senza perdere neppure per un istante la certezza dell’inutilità del mio voto, non ritengo sia corretto sottrargli il valore che gli è attribuito e che dunque, almeno formalmente, sono costretto a riconoscere: non annullerò la scheda, non la lascerò bianca.
Voterò sì e ritengo sia doveroso spiegare il perché. Anzi, giacché al sì sono arrivato grazie ai tre minuti che Michele Governatori ha dedicato al referendum del 17 aprile in una delle puntate della sua rubrica del martedì su Radio Radicale, mi limito a riproporli qui.

 

Il punto che ritengo dirimente è quello relativo alla concessione a privati di un bene pubblico per un tempo illimitato, che d’altronde è in franca violazione delle direttive comunitarie cui Governatori fa cenno, e che dunque rende sanzionabile in sede europea il comma 239 dell’art. 1 della legge n. 208 del 28 dicembe 2015 anche laddove vincesse il no o il quorum non fosse raggiunto. Ennesima dimostrazione, laddove ce ne fosse stato bisogno, che a questo governo manca ogni misura del diritto.

martedì 5 aprile 2016

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Pensare che larguzia faccia attestato di libero intelletto, e che il gusto di dissacrare riveli unindole insofferente ad ogni genere di pregiudizio, riserva delusioni solo allingenuo. Dallautore de La secchia rapita, strepitosa satira delle miserie umane ipocritamente agghindate di nobili ideali, è strano arrivi una difesa del geocentrismo che rigetta le tesi di Niccolò Copernico in forza del più gretto senso comune e della più polverosa tradizione? Per niente. Il sarcasmo trova sempre carne più tenera nel nuovo e, risparmiandoci citazioni, la satira nasce reazionaria, per consolare i servi, per dare ad essi, nello spazio che sa rubare al padrone, il carnascialesco del mondo sottosopra. Seccata la penna che gli è servita a scrivere le lapidarie ottave con cui ha bersagliato di sberleffi Modena e Bologna, ecco Alessandro Tassoni reintingerla nel suo calamaio per scrivere che la terra non può girare attorno al sole, perché «ciò s’oppone alla Scrittura sacra»: scherza coi fanti, ma lascia stare i santi. 

lunedì 4 aprile 2016

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Sul metodo piovano i rimproveri, ma il risultato resta convincente, daltronde, e fin dal sottotitolo (Saggio di storia parziale), Gli oligarchi di Jules Isaac (Sellerio, 2016) non fa mistero di essere una peroratio. Bel libro, davvero. 

Non solo ladri di polli

Francamente non si capisce perché la telefonata di Federica Guidi sia stata «inopportuna»«opportuno» viene da «ob-portus», detto del vento che favorevolmente spinge la nave in porto, e la telefonata annunciava che il vento favorevolmente la spingeva. Di poi, venendo al suo significato estensivo, per ciò che convenga o sia adeguato alla circostanza, è di chiara evidenza che la telefonata fosse al contrario pienamente «opportuna»: conveniva che lemendamento passasse, e la circostanza giustificava che ne fosse messo a conoscenza chi ne avrebbe tratto convenienza, giacché stava passando. A mio modesto avviso, e non sarebbe la prima volta, anche in questa occasione sti quattro mariuoli di provincia dimostrano di avere mano lesta, ma lingua che fa batacchio in campana fessa.
Poi dicono che so democristiani... Ma non scherziamo: un democristiano dei bei tempi andati non lavrebbe mai definita «inopportuna», la telefonata, avrebbe detto che forse poteva dar adito a eccepire, ma solo se capziosamente, e unicamente al fine di insinuare che dimostrasse una condotta poco cristallina. E poi, fra mille e mille esortazioni a non soccombere allonda calunniosa, il partito avrebbe fatto quadrato attorno al suo ministro, e quello non si sarebbe mai dimesso. Questi, al confronto, sono ladri di polli, e al telefono sono pure scarsi a perifrasi per evitare che la torcia elettrica ce li mostri tutti inzaccherati di merda di gallina.
Dico: è quello il modo di avvisare il tuo sventrapapere che sei riuscita a fargli il regalino cui quello teneva tanto perché ultimamente era a corto di liquido? Ma vola alto, caspiterina, dagli un appuntamento su una banchina del porto di Taranto che ancora non è in costruzione, parla di Potenza come se stessi inanellando lodi attorno alla sua nerchia, ma non essere così esplicita, pensa alle camicie che dovrà sudare il suo avvocato. Una cosa è delocalizzare la produzione in Croazia mettendo la cassa integrazione a spese dello Stato, unaltra è fare il ministro: un minimo di stile, cazzo.
Ma è chieder troppo: si tratta di maneggioni ai quali i babbi hanno insegnato prima la faccia tosta e poi lo scilinguagnolo, prima il mestiere di fottere i fessi e poi larte di metterli a tacere con un’alzata di spalleÈ la razza dei villanzoni che illustrano al meglio il manifesto ideologico del familismo amorale: capofamiglia esperto di paccotti, mamma finta bionda in pelliccia e con caviglie gonfie, fratello un po’ coglione ché la natura s’è voluta concentrare sul rampollo da spendere per la scalata sociale e la domenica tutti a messa, pregando il Padreterno che arrivi l’occasione di poter usare il vestito della festa anche nei giorni feriali. 
E il cucuzzaro? Vogliamo parlare del cucuzzaro? Dice: lemendamento è mio, lho scritto di mio pugno, so’ stato io a volerlo. A parte il fatto che pare già saltino fuori le mail di quelli della Total e della Shell che dettano allo staff della Pupona come volessero fosse limato perché non lo trovavano abbastanza liscio, se il ministro non ha fatto altro che annunciare al fidanzato che stava per essere varato un provvedimento bello, buono e giusto, dove sarebbe l’inopportunità della telefonata? Era l’emendamento a favorirlo, non il sapere in anticipo che sarebbe stato approvato. E poi per quell’emendamento si sarebbe messo il voto di fiducia: essere certa che sarebbe passato non era segno che a volerlo fosse tutto il governo e che così avrebbe voluto il parlamento? Dov’è che s’è violato il galateo?
Dice: l’emendamento sbloccava una situazione in stallo da troppo tempo, e in questo l’azione di governo è stata coerente con il più generale intento di sbloccarne altre, come Pompei, come Bagnoli, come la Salerno-Reggio Calabria. Ma in questi casi si tratta di opere pubbliche, qui si sbloccava solo ciò che impediva di fare utili a imprese private, per giunta estere, di cui una, sulla situazione da sbloccare, avevano investito due milioni e mezzo di appalto in favore del fidanzato di Federica Guidi. Di fatto, poi, Pompei, Bagnoli e la Salerno-Reggio Calabria restano ancora bloccati, e guarda tu cosa si va sbloccare per sollecito interessamento di mezzo governo: l’affarone privato.
Dice: fa lo stesso, ci sono di mezzo dei posti di lavoro. Che andrebbero persi se non si cedesse alle pretese che le società petrolifere avanzano su Taranto, certo, ma che non andrebbero persi rinunciando a quei due soldi di royalties che fanno di quanto si estrae dalla Basilicata un prodotto da esportazione. Per poi venirci a spacciare l’emendamento come pilastro di un progetto di autonomia energetica e a prometterci un occhio di riguardo alla pompa di benzina se ci beviamo lo sbirignaccolo della versione ufficiale. Non solo ladri di polli, ma pure miserabili bugiardi.
E a cappello? «Possono dirmi che non sono capace, ma, se mi dicono che sono disonesto, mi partono i cinque minuti». E fatteli partire, buffone. 

Ah, ’sta polis!


Non basta capire, occorre sapersi spiegare, argomentare in modo ineccepibile, possibilmente persuasivo, in forza del solo buonsenso, chessò, tanto per dire, cominciando con levitare il ricorso ad autorità che sono indiscutibili solo nel proprio hortus conclusus: tanto per dire, evitare Tucidide in esergo. Ma poi nemmeno questo basta, perché senza una genuina premura per il bene comune diventa vano ogni acume, peggio ancora poi pensando sia legittimo trarne un pur minimo vantaggio personale: aver ben chiaro che lamore per la polis è tutto a perdere, anzi è pericoloso, ineluttabilmente nefasto. E allora rinunciarci: innaffiare le piantine di basilico e di menta, darsi allo zen stirando una camicia...

È stata una bellissima settimana: volume delle news a zero, i volti noti scorrevano in tv come pesci in un acquario, nessuna voglia di sapere che avessero da dire. Poi devo dire che mi è tornata la mania per Cranach e ho rimesso mano al materiale che tempo fa avevo messo da parte per uno studiolo sulla sua Flagellazione. Insomma, il blog ne ha sofferto. Pazienza, via, ché ora vediamo di riaccendere ’sta passione civile addormentatasi a bocc’aperta davanti all’ennesima rissa tra opposte bande. Senza dimenticare, naturalmente che ό τε γάρ γνούς καί μή σαφώς διδάξας έν ίςω καί... Ah, ’sta polis!

martedì 29 marzo 2016

[...]

Fatta eccezione per quella di Peteano (1972), su nessuna delle stragi che hanno insanguinato l’Italia per oltre un decennio, da quella di Piazza Fontana (1969) a quella della Stazione di Bologna (1980), è stata fatta piena luce, tutt’al più si è arrivati a individuare gli esecutori materiali, in tutti i casi con ampio margine di dubbio, e per tutte si è perso il conto degli episodi che hanno provato, senza possibilità di smentita, gravi inefficienze investigative, quando non si è trattato di depistaggio, di inquinamento delle prove, se non di vero e proprio favoreggiamento da parte di servizi deviati o addirittura di figure di ruolo istituzionale.
Vantando tale tradizione, non si capisce come si sia potuto dar fiato in Italia – proprio in Italia – alle feroci critiche piovute in quest’ultima settimana sulla polizia, l’intelligence e la magistratura belghe. Che avranno senza dubbio commesso errori nella gestione del problema posto dalle cellule terroristiche responsabili degli attentati del 22 marzo, ma incomparabilmente meno gravi rispetto a quelli che costellano la cronaca dei nostri Anni di piombo, per giunta senza che per ora siano emersi in Belgio elementi che lascino supporre connivenze o insabbiamenti, che invece, qui da noi, sono stati la regola, senza eccezioni. C’è la tendenza, qui da noi, a dimenticare in fretta.   

[...]

Sono in molti ad essere convinti che la morte di Giulio Regeni sia imputabile a uno degli organi di sicurezza egiziani, ma le opinioni divergono riguardo al movente.
Per alcuni, infatti, il giovane sarebbe stato sequestrato, torturato e ucciso da uno dei nuclei operativi della polizia o dei servizi segreti che in Egitto, fin dalla presa del potere da parte di al-Sisi, sono routinariamente impegnati nellazione di repressione di ogni forma di dissidenza al regime: il sequestro avrebbe avuto lo scopo di strappargli informazioni su una rete di oppositori coi quali, a torto o a ragione, i sequestratori ritenevano che egli fosse entrato in contatto, mentre la morte sarebbe stata la diretta conseguenza delle torture con le quali si è cercato di estorcergliele, poco importa se riuscendoci o meno, o come soluzione per metterlo definitivamente a tacere dopo avergliele estorte.
Le torture subite da Giulio Regeni, in tutto simili a quelle denunciate da molti dissidenti sottoposti allo stesso trattamento, sono senza dubbio un elemento a favore di questa tesi, che tuttavia ha un significativo punto debole proprio nel ritrovamento del corpo che ne recava gli inequivocabili segni, perché farlo sparire, come è accaduto in molti casi analoghi, non avrebbe comportato alcuna difficoltà per chi avesse voluto occultare, con quelli, le ragioni del suo omicidio.
Questo porta altri a ipotizzare che i responsabili di quanto è accaduto sarebbero uomini appartenenti a un corpo deviato in seno agli organi di sicurezza dello stato, che ha agito con l’evidente intento di destabilizzare la dittatura di al-Sisi, per causarle un serio imbarazzo presso l’opinione pubblica estera e minare le basi della solida partnership commerciale che intrattiene con l’Italia.
È ipotesi, questa, che apre un ampio ventaglio di supposizioni sui reali autori dellefferato delitto. Molti hanno sostenuto che i responsabili debbano essere ricercati tra elementi dellorganizzazione dei Fratelli musulmani, che tra gli oppositori al regime è quella più agguerrita e che fin qui è stata anche quella più duramente colpita dalle misure repressive di al-Sisi: membri dellorganizzazione sarebbero riusciti ad infiltrare alcuni corpi dello stato, con ciò dimostrando di continuare ad avere una notevole capacità di presa ad ogni livello della società egiziana.
In entrambi i casi si comprenderebbero i goffi tentativi delle autorità chiamate a render conto allItalia e allopinione pubblica internazionale di quanto è accaduto. Tentativi fin qui risoltisi nellofferta di spiegazioni che sono parse implausibili. Sta di fatto che ammettere che la polizia o i servizi segreti possano essere stati infiltrati da elementi ostili al regime non sarebbe meno imbarazzante che assumersi la responsabilità dellomicidio di Giulio Regeni.
È in tal senso che anche lultima di tali spiegazioni, quella che imputa la morte del giovane a una banda di delinquenti comuni, sembra mostrare troppi punti che la rendono inverosimile, costruita ad arte, e pessima arte, per nascondere la realtà dei fatti, i quali rimanderebbero la responsabilità dellaccaduto, ancorché indirettamente in questo caso, alle misure repressive che la dittatura di al-Sisi attua nei confronti dei suoi oppositori. Poca importanza, allora, avrebbe chi abbia materialmente ucciso Giulio Regeni, perché la colpa ricadrebbe comunque su chi ha voluto che in Egitto fosse sospesa ogni garanzia in favore della dissidenza. Nessuna spiegazione, allora, sarebbe adeguata se non con unammissione di colpevolezza da parte del regime, che ovviamente non potrebbe permettersela neppure se la catena delle responsabilità che hanno prodotto levento fosse realmente in capo ai suoi vertici.
Sembrerebbe, dunque, che non ci sia alcuna via duscita: nessunaltra spiegazione potrà mai soddisfare chi è convinto che Giulio Regeni sia stato ucciso dagli organi di sicurezza dello stato, né mai tale ammissione potrà essere fatta dal regime. Questo braccio di ferro non può che consumarsi nel logoramento delle relazioni diplomatiche e della partnership commerciale tra Italia ed Egitto.
Se fosse valida lipotesi che la morte del giovane è stata concepita proprio a tal fine, potremmo dire che loperazione stia dando i risultati voluti, rimarrebbe solo da chiedersi chi labbia decisa. Davvero i Fratelli musulmani? Qualche altro attore interessato a creare attriti tra Italia ed Egitto? Anche su questo è improbabile si arrivi a far luce, di fatto non manca chi trarrebbe enormi benefici da un allentamento dellinterscambio economico che si è consolidato tra i due paesi. Daltra parte, se è possibile che polizia e servizi segreti egiziani possano essere stati infiltrati da elementi dei Fratelli musulmani, non si vede perché non possano esserlo stato da agenti di paesi interessati a contrastare gli interessi italiani in Egitto.
Lho già scritto a caldo, il 6 febbraio, e lho ripetuto a freddo, una decina di giorni dopo: cosa ci sarebbe di strano se i responsabili della morte di Giulio Regeni fossero agenti dei servizi segreti di paesi come la Francia o il Regno Unito? Con la morte di un nostro connazionale in terra egiziana, soprattutto se seguita a bestiali torture che sollevano una sacrosanta indignazione, non avrebbero fin qui ottenuto proprio quanto era voluto?
Per quanto possa farci schifo, tuttavia, proviamo a metterci nei panni di al-Sisi: nel caso in cui non fosse direttamente o indirettamente responsabile dellaccaduto, nel caso in cui a sequestrare, torturare e uccidere Giulio Regeni non fosse stato un organo di sicurezza dello stato egiziano, nel caso in cui fosse ignoto alle stesse autorità egiziane chi siano i reali autori dellomicidio, cosaltro resterebbe se non il tentativo di confezionare una spiegazione di comodo, ancorché farlocca? In ogni caso, dovrebbe trattarsi di una spiegazione che non metta in discussione il pieno controllo del regime sugli organi di sicurezza dello stato: negare la possibilità che essi possano essere stati infiltrati sarebbe indispensabile, salvo l’implicita ammissione che l’eventualità non sia del tutto escludibile, ma non possa essere esplicitamente offerta come ipotesi credibile.
Resta la possibilità che Giulio Regeni sia davvero stato vittima di delinquenti comuni, ma questa è ipotesi che viene sdegnosamente rigettata da chi è convinto che il movente della morte non possa non essere politico. A favore di questa ipotesi depongono le testimonianze di molte vittime della banda che di recente è stata eliminata dalla polizia egiziana. Raccontano di essere stati sequestrati e sottoposti a trattamenti brutali da soggetti che si qualificavano come appartenenti ad organi dello stato e che li lasciavano liberi solo dopo aver estorto loro del denaro: perché Giulio Regeni non potrebbe esserne stato vittima?
Contro questa ipotesi vengono opposte ragioni che sembrano aver forza solo nella convinzione che non possa essere valida perché non deve esserlo. Perché sarebbe stato torturato in modo così bestiale? Per sottrargli il denaro che Giulio Regeni si rifiutava di dar loro, forse per la banale ragione che non ne avesse nella misura che a torto i suoi sequestratori ritenevano fosse nelle sue disponibilità. Si contesta che questa sia spiegazione troppo banale, resa ancor più inverosimile dal fatto che i responsabili non si siano disfatti dei documenti del giovane dopo averlo ucciso. In più, c’è che sono stati eliminati impedendo loro di confessare di essere autori del delitto, il che puzza di maldestro insabbiamento dei fatti per come si sarebbero realmente svolti. Tutto questo è vero, ma cosa impedisce di ritenere che anche in questo caso non possa essere chiamato in causa chi fosse intenzionato a gettare un’ombra sulla reale intenzione del regime di dare una versione attendibile della vicenda? Il fatto che il regime di al-Sisi abbia risposto ai dubbi avanzati su tale versione con la disponibilità a vagliarne di ulteriori non dovrebbe far fede sulla possibilità che non sia affatto esclusa un’azione di depistaggio ad opera di elementi interni agli organi di sicurezza dello stato? Parrebbe di no, perché chi non tollera che la verità sia diversa da quella che si vuole essere la sola possibile non ammette altra conclusione della vicenda. A me pare che questo atteggiamento non possa dare i risultati voluti, né che questi, poi, sarebbero necessariamente i soli ad essere validi per il solo fatto di essere considerati tali.
Per quanto mi riguarda, e per il poco che conta, continuo a ritenere poco probabile che Giulio Regeni sia stato vittima del regime di al-Sisi, perché in tal caso non avremmo mai ritrovato il suo corpo. Continuo a ritenere che sia stato usato per creare il caso, e che per crearlo fosse necessario si affermasse da subito, come in effetti è stato, l’indisponibilità a ritenere incolpevole la macchina della dittatura egiziana. E questo penso sia dovuto all’errata convinzione che una dittatura sia impermeabile a interferenze esterne, mentre invece la storia insegna esattamente il contrario. 

domenica 27 marzo 2016

Sono d’accordo con Ernesto Galli della Loggia


Sono d’accordo con Ernesto Galli della Loggia quando afferma che, «se ci sono aspetti della religione islamica o del costume da essa influenzati che sono in contrasto con i valori della nostra Costituzione, tali aspetti devono essere inevitabilmente abbondati o cambiati, pena l’essere combattuti anche con la durezza della legge»; assai meno d’accordo quando afferma che «non si tratterebbe in alcun modo di un trattamento discriminatorio verso l’islam», perché è vero che «a partire dal 1850», «in armonia con quanto stava facendo tutto il liberalismo europeo», «il Piemonte liberale adottò [lo stesso atteggiamento nei confronti della Chiesa cattolica] lasciandolo poi in eredità al Regno d’Italia», ma fu eredità che andò a farsi friggere col Concordato e i Patti Lateranensi, nel 1929, e con l’art. 7 della Costituzione repubblicana, nel 1946; sicché occorre intenderci: per evitare «un trattamento discriminatorio verso l’islam», che pure a Ernesto Galli della Loggia parrebbe indelicato, con la Chiesa cattolica torniamo al regime preconcordatario?
Io sarei pienamente d’accordo, limitandomi a osservare che, per risolvere quella che di fatto è l’irrisolta questione cattolica, abbiamo dovuto attendere che se ne sollevasse una musulmana. Per meglio dire: che Ernesto Galli della Loggia sollevasse la questione musulmana per indicarci come miglior soluzione quella adottata per la questione cattolica dai Siccardi e dai Rattazzi, ma poi ritenuta inadeguata dai Mussolini e dai Craxi.
La «durezza della legge» che oggi Ernesto Galli della Loggia pone a scudo di ogni eventuale violazione da parte musulmana dei princìpi sui quali fonda uno Stato, che almeno a chiacchiere si dichiara liberaldemocratico, portava in carcere, nel 1850, e in esilio, nel 1862, monsignor Luigi Fransoni, arcivescovo di Torino, reo d’istigazione alla disobbedienza delle leggi dello Stato. D’accordo, dunque, con lo schiaffare in galera l’imam che si azzardi a mettere in discussione i princìpi di piena eguaglianza  di diritti tra uomini e donne, etero e gay, credenti e non credenti, ma poi siamo sicuri che, a parità di azzardo, lo segua pure il presidente della Cei? È così bello, una volta tanto, poter essere d’accordo con Ernesto Galli della Loggia, ma a lasciare dubbi su questo punto c’è il rischio che il piacere si guasti.

sabato 26 marzo 2016

23.5.1929 - 25.3.2016


[...]

Non più di un mese fa, à la station Schuman du métro de Bruxelles, si teneva unexercise catastrophe: proprio in quella stazione, e solo in quella. Offro lo spunto a chi per questo 3/22 non voglia farsi mancare la consueta teoria del complotto, ormai un must in occasioni del genere.


A chi non piaccia scervellarsi in costruzioni paranoiche, invece, propongo una sessione di free insulting allimmancabile violoncellista del day after, stavolta così cane che pure Bach si è ritrovato tra le vittime che quelli della morgue hanno faticato a identificare.



Se al cazzeggio, invece, preferite il calo degli zuccheri, niente di meglio che cantare Imagine con una candelina in mano. Sì, però senza storpiare testo.



Troppo da mammoletta, forse. Preferite un tonico? Vi offro un infuso di radici giudaico-cristiane, vi sentirete come un Meotti.


Nemmeno questo? E allora consentitemi un’ultima offerta:

Michael Shermer - The Five Myths of Terrorism 
Kevin Dutton, Dominic Abrams - What Research Says about Defeating Terrorism
Alexander Haslam, Stephen Reicher - Fueling Terror: How Extremists Are Made

mercoledì 23 marzo 2016

[...]

Fosse pure stato il nano che non era, le sue disposizioni testamentarie basterebbero a dargli statura di gigante: Umberto Eco lascia scritto che per almeno dieci anni vorrebbe non si tenesse incontro, convegno, giornata di studi sulla sua persona e sulle sue opere, sul suo pensiero e sulla sua vita. Sarà stata pure una furbata, ma è divina.   

È possibile tenere a freno le passioni?

Dinanzi a un atto terroristico è disumano non provare pena, dolore, paura e rabbia. D’altra parte sono proprio queste le emozioni che i terroristi intendono suscitare, perché le vittime dei loro attentati sono solo un mezzo, mentre il fine immediato è quello di influenzare le opinioni pubbliche, che a sua volta mira a condizionare le politiche governative, per pressione che dunque è indiretta, ma che invariabilmente si fa diretta, perché listanza di sicurezza non ha bisogno di essere rinnovata per essere assunta dallo stato come obbligo primario.
Come acutamente è stato scritto da chi a lungo ne ha studiato la logica che lo muove, gli strumenti di cui si serve, le modalità che gli sono proprie, «il terrorismo è teatro» (Salustiano Del Campo), tanto più efficace, quanto maggiore è l’onda emotiva che le sue azioni sollevano in platea. Fosse possibile restare indifferenti, freddi, insensibili allo spettacolo che mette in scena, il terrorismo non avrebbe ragione di esistere, ma ovviamente questa è ipotesi impensabile, perché presupporrebbe unimpassibilità alla sofferenza e alla morte dei propri simili che non sarebbe poi troppo diversa da quella di chi progetta e realizza atti terroristici.
Sta di fatto che è proprio linsopprimibile pathos che la rappresentazione scatena a procurare vantaggio a chi ne ha scritto il copione, a chi ne ha curato la regia, a chi se nè fatto interprete. Per questa ragione, il terrorismo dev’essere considerato il mero innesco di un ordigno che ha proprio nelle conseguenze del terrore, in ciò che di irrazionale inevitabilmente suscita negli animi che intende scuotere, la sua massa esplosiva: può indubbiamente infondere sgomento, accentuare pena, dolore, paura e rabbia, infliggere un angoscioso senso di impotenza, ma si deve prendere atto che solo gli spettatori possono decretare il successo dell’evento teatrale.
È possibile tenere a freno le passioni che suscita l’azione terroristica per depotenziarla, in vista del neutralizzarla? Cosa può temperare le passioni – senza estinguerle, sia chiaro – al punto da evitare che si mettano a servizio di chi strumentalmente le sollecita per servirsene? La ragione, probabilmente. Probabilmente, il miglior omaggio che possiamo riservare alle vittime di un atto terroristico è cercare di comprendere il meccanismo che le ha rese tali, per disattivarlo. Questo è difficilissimo, ma occorre provare.
Occorre, innanzitutto, sottrarre al terrorismo ogni aggettivo, ogni attributo che miri a conferirgli una dignità politica, culturale, religiosa. Che il terrorista se la attribuisca, la rivendichi, ne faccia la ragione della sua azione, o al contrario ne faccia pretesto o paravento per altri moventi, deve essere considerato irrilevante. D’altronde le modalità dell’atto terroristico sono costanti anche al variare delle ragioni che gli danno movente e dell’ideologia che le trasfigura in giustificazioni. Solo un errore di analisi può farci ritenere specifico un suo carattere, com’è nel caso del terrorista che non esita a sacrificarsi pur di portare a termine il compito che si è prefisso: è nel calcolo di ogni progetto terroristico che l’esecutore materiale debba accollarsi il rischio di morire portando a termine il suo compito, e che tale rischio sia accettato come prezzo certo costituisce solo un dato di carattere tecnico, che impone un’adeguata metodologia di approccio al problema, ma che non cambia i termini della questione posta in sé dall’atto terroristico.
Da questo punto di vista, occorre ponderarne esclusivamente il reale potenziale offensivo: che a compiere una strage sia stato un militante dell’Isis, un Anders Breivik o lo studente del college americano, il problema è posto dagli strumenti di cui ha potuto farsi forte, dall’effettiva capacità di dare ad essi il voluto effetto letale, non già da quanto egli dichiara averlo motivato. Con ciò non voglio dire che un profilo criminale manchi di caratteri specifici che lo distinguono da un altro, fatto sta che questi andrebbero esclusivamente considerati elementi utili ad approntare soluzioni di natura tecnica, non già a investire il terrorista del ruolo di officiante di un credo.
In secondo luogo, occorre trattare il terrorismo al pari di una qualsiasi altra causa di morte violenta per mettere in evidenza l’enorme sproporzione tra il numero delle vittime che causa e l’impatto emotivo che genera. Questo non mira a banalizzare il problema che solleva, tanto meno a ricondurlo a evento fatale pari a quello delle morti per incidente stradale o rottura di aneurisma cerebrale, ma a sottrargli ogni aura che lo inscriva nelle suggestioni dei miti che aspira a incarnare.
Di pari passo, occorre decostruire la figura del terrorista, che anche quando è avvertita come persona spregevole, tende a conservare, almeno sul piano dell’immaginario meno avvertito, l’ombra del cieco esecutore di un Male tutto trascendente oppure, il che è ancora più insidioso, lo spettrale profilo del Barbaro. Occorre ridurre il terrorista a psicopatico, dichiararlo intrattabile.
La tendenza ad assecondare le passioni dinanzi all’atto terroristico, invece, gli conferisce un nefasto potenziale allegorico, mostrificando il terrorista come agente di un’entità sovrumana, aggravando il senso di insicurezza che il crimine intende infondere.


[segue]