venerdì 10 giugno 2016
martedì 7 giugno 2016
#eNews 431
Era
evidente che Berlusconi mentisse innanzitutto a se stesso. Cercava di
fotterti, questo è indubbio,
ma sembrava
che gli fosse possibile solo dopo essersi convinto che in fondo eri
tu a voler essere fottuto, irresistibilmente
attratto a entrare nella stessa bolla, gonfiata di bugia in bugia,
che proteggeva lui, e avrebbe voluto proteggere anche te, dalla realtà.
Insomma, che vendesse zerbini in acrilico spacciandoli per tappeti
persiani è fuori discussione, ma dava l’impressione
che per farlo avesse bisogno di credere che, oltre che per lui che li
vendeva, fosse un affarone anche per chi ne avesse comprato uno.
Direi che in ultima analisi appartenesse a quella categoria di
bugiardi ai quali «placere
libet de suaviloquio, qui tamen veris mallent placere, sed quando non
facile inveniunt vera quae grata sint audientibus, mentiri eligunt
potius quam tacere»
(Agostino d’Ippona
– De
mendacio,
11, 18).
Vorrei non mi si fraintendesse: al pari di ogni impostore,
meritava di essere spalmato di pece e cosparso di piume, per poi
dargli fuoco. Sia chiaro, inoltre, che, se quanto finora ho scritto
potrà aver dato l’impressione
di un «coccodrillo»
tirato fuori dal cassetto con qualche anticipo, è solo perché la
stagione delle bugie di Berlusconi è ormai alle nostre spalle. In
realtà, se qualche nota di indulgenza mi sarà scappata, è solo
perché fin dall’inizio
l’intenzione
era di mettere a confronto due campioni di impostura che per tanti si
somigliano, e che invece sono differenti.
Tornando ad Agostino d’Ippona,
infatti, c’è
pure l’impostore che appartiene alla categoria dei «gaudentes
de ipsa fallacia»
(ibidem), quelli amano fotterti per il piacere di fotterti, e che, prima di fotterti, mentre ti stanno fottendo e dopo che ti hanno fottuto, restano sempre fuori dalla bolla nella quale hanno cercato di chiuderti. A differenza di quelli che ti attraggono in una menzogna nella quale sono già in precedenza riparati per proteggersi dalla realtà, questi ti ci spingono dentro, rimanendone fuori. Parlo di
Renzi, si sarà capito, ed è proprio questa differenza
che, a mio modesto avviso, consente di affermare, come ho già fatto,
«era
meglio Berlusconi»,
rigettando l’obiezione
«ma
no, è che il passato ci sembra sempre più innocuo alla luce del
presente»
(formamentis).
Reduce, come sono, da due infortuni causati da un’eccessiva
leggerezza nell’argomentazione
(vedi il post qui sotto), mi auguro che il lettore vorrà scusarmi se
qui probabilmente l’appesantirò
più del necessario per dar ragione di quanto sostengo. Avevo intenzione di farlo analizzando quanto Renzi ha detto nel corso della conferenza stampa tenuta lunedì mattina a commento dei risultati del primo turno delle Amministrative, ma in serata ha licenziato via Facebook una eNews che condensa tutte le bugie dette alcune ore prima e questo mi semplifica le cose.
Come
ai vecchi tempi il giorno dopo le Elezioni hanno vinto tutti. Tutti
sorridono davanti alle telecamere per dire che loro sì che hanno
trionfato, signora mia. Spiacente, io non sono fatto così. E l’ho
detto chiaro: non sono contento, avrei voluto di più. Non sarò mai
un pollo di allevamento della politica che ripete le stesse frasi
banali ogni scrutinio.
Falso.
Tranne il M5S, che peraltro ne aveva piena ragione, visti i risultati
ottenuti rispetto a quelli delle precedenti Amministrative, non si è
sentito nessuno dire di aver trionfato. Non Forza Italia, che per
voce di tutti i suoi maggiori esponenti ha ammesso il crollo,
limitandosi a imputarne ogni causa all’odierno
stato di frammentazione del fronte del centrodestra. Tanto meno
Fratelli d’Italia,
che sul passaggio della Meloni al ballottaggio aveva investito tanto.
Né trionfalistico è suonato il commento di Salvini, che tutt’al
più ha manifestato soddisfazione per la pessima prestazione data dal
Pd. Nessun tono entusiastico neppure dalla sinistra che per lo
slittamento al centro del Pd è d’improvviso
diventata «radicale»,
come se al momento in Italia ne esistesse un’altra
«moderata»:
Fassina non ha fatto mistero della sua delusione, limitandosi a dire
che considerava il risultato ottenuto come la base di partenza per
future più ampie aggregazioni. Falsa, dunque, la premessa, che
d’altronde,
come sarà subito evidente dall’analisi
di quanto segue, sembra servire solo a ribadire quel ruolo di rottura
rispetto ai «vecchi
tempi». Ancora più evidente, il dato, in conferenza stampa, dove ha
fatto esplicito riferimento al «teatrino politico della Prima
Repubblica». Come vedremo subito, invece, siamo alla lettura dei
risultati elettorali che era tipica della Dc all’indomani
di una flessione della percentuale dei consensi. «Noi del Pd,
abituati a vincerne tante, per non dire “abituati a vincerle quasi
tutte”...».
Intendiamoci.
Il PD rimane saldamente in testa, i suoi candidati stanno intorno al
fatidico 40% in molte città, siamo l’unico
partito nazionale.
«Molte
città», si badi bene, non «molti comuni». Di fatto, la somma dei
voti che vanno al Pd nei comuni in cui «i suoi candidati stanno
attorno al fatidico 40%» non arriva neanche a un decimo a quelli
raccolti dai candidati che ha presentato a Roma e a Napoli, dove
stanno a poco meno o poco più della metà, arrivando solo per un
pelo al ballottaggio, nel primo caso, e neppure a quello, nel
secondo. Tranne che a Rimini, Caserta, Cagliari e Milano, dove
guadagna pochissimo, il Pd perde voti ovunque rispetto alle
precedenti Comunali, con un calo percentuale medio del 5-6%, fino un
massimo del 18% (Carbonia), mentre il calo di voti medio si attesta
intorno al 23%, con una punta massima del 56% (Latina). È una
batosta che andrebbe ammessa, signora mia, ma l’impostore
vanta una tenuta che non c’è
stata, limitandosi a dire che si aspettava di più, quasi che avesse
vinto, ma, aspettandosi di stravincere, non possa dirsi pienamente
contento. Però si consola coi risultati degli avversari...
Cinque
Stelle che canta vittoria governa in appena 17 comuni (compresi
espulsi, sospesi e disconosciuti) su ottomila, cui vanno aggiunti
altre quattro municipalità ieri. Il movimento di Grillo e Casaleggio
è andato al ballottaggio in venti comuni sui 1.300 in cui si votava.
Cinque
Stelle si presentava solo in pochi comuni. Molti di più di quelli in
cui si presentava alle precedenti Comunali, segno di ma lenta ma
progressiva presa sul territorio, che mira a coprire tutta l’Italia.
Lasciando da parte ogni giudizio di merito, per un movimento politico
che fino a pochi anni fa non aveva neanche il suo simbolo sulle
schede elettorali, è uno strepitoso successo che può essere
ridimensionato solo trascurando la crescita che gli è alle spalle.
Discorso uguale e contrario a quello del Pd: si può negare il suo
declino solo trascurando che Dc e Pci arrivavano insieme a oltre il
70% dei voti, che Veltroni è arrivato a prenderne un massimo di
dodici milioni e dispari, mentre già il Renzi delle Europee toccava
a malapena di undici. Discorso che ovviamente non tiene conto dei
contesti e delle variabili, ma in sostanza è proprio questo che fa
Renzi nel dare un quadro gramo dell’odierna
situazione dei Cinque Stelle. Risibile, poi, il richiamo a «espulsi,
sospesi e disconosciuti»,
con un Pd che tra amministratori indagati e sotto processo batte il
record che era del Psi ai tempi di Mani pulite.
La
Lega crolla, Salvini sta sotto il 3% a Roma ed è doppiato da
Berlusconi a Milano, doppiato! Forza Italia esiste ancora e ottiene
risultati positivi a Napoli, Milano, Trieste. Ma scompare da Cagliari
a Torino, da Bologna a Roma.
Sta
di fatto che proprio i pessimi risultati ottenuti dalle forze che
prima erano del Pdl sono un importante stimolo alla riaggregazione in
un cartello che gli istituti demoscopici danno poco al di sotto o
addirittura poco al di sopra del Pd. L’Italia
non è mai stato un paese di sinistra, e forse non lo sarà mai.
D’altronde
è proprio la frenetica corsa al centro che il Pd ha iniziato con
Renzi a dar ragione di un elettorato di nuovo pronto, dove se ne
presenti l’occasione,
a mandare a Palazzo Chigi un leader del centrodestra che non sia
mezzo morto come Berlusconi, non sia troppo inquietante come Salvini
e non sia poco convincente come Meloni. Trovarlo non sarà facile,
certo, ma ripetute prove di fallimento a marciare disuniti possono
essere il miglior pungolo a ritrovare un’intesa.
Soprattutto se Parisi, dato per sicuro perdente appena uno o due mesi
fa, dovesse battere Sala. Cosa non impossibile, a quanto pare.
La
sinistra radicale che per mesi ci ha spiegato come funzionava il
mondo non entra in partita né a Roma, né a Torino dove aveva
scommesso tanto.
Ma
è pronta a votare Raggi contro Giachetti e Appendino contro Fassino,
anche se non può ammetterlo esplicitamente. È probabile che in
parte finirà perfino per votare Parisi contro Sala, pur di insegnare
a Renzi che sa come funziona il mondo e nei casi estremi vi si
adegua.
Ma
una volta che abbiamo fatto questa lunga analisi del voto...
Lunga?
Sbrigata in poche battute, quasi per eluderla.
Una
volta che abbiamo fatto questa lunga analisi del voto, per me cambia
poco perché non è che “mal comune mezzo gaudio”: continuo a non
essere contento.
E
ci sarebbe mancato solo questo. Bastava contare quante volte ha
deglutito in conferenza stampa. Dopo venti minuti scarsi, già
premeva perché si levassero baracca e burattini. A quella che seguì
le Europee era fresco e tosto fino all’ultimo
minuto, e soprattutto si presentò da solo: qui ha avuto bisogno
della compagnia dei due vicesegretari, del presidente e della
responsabile degli enti locali. Quando vince, ha vinto lui. Quando
perde, ha perso il partito.
A
Napoli città il PD praticamente non c’è
dal 2011: finita la fase del ballottaggio proporrò alla direzione un
commissariamento coraggioso.
E
così si liquida la trombatura di una candidata che hai scelto tu?
Così si liquida la sconfitta in una città dove hai speso il massimo
per ottenere il risultato, da segretario del partito e – vergogna –
da presidente del consiglio? La città laboratorio che doveva testare
l’alleanza
con Verdini. Che c’è
da commissariare che non lo fosse già da prima?
A
Roma Giachetti ha fatto mezzo miracolo a riportarci al ballottaggio:
non escludo che riesca a fare anche l’altro
mezzo, ma deve recuperare dieci punti di svantaggio. Olimpiadi,
sicurezza, capacità di guidare una macchina complessa come il Comune
di Roma: se la giocheranno su questo. Temi amministrativi, insomma,
non di politica nazionale.
Insomma,
se Giachetti perde, sia chiaro che ha perso solo Giachetti.
Che
non sia un dato nazionale, del resto, si vede chiaramente dalla
geografia: zone anche limitrofe vedono risultati molto diversi. È
ovvio. Gli italiani sanno votare, sono liberi, scelgono di volta in
volta. Fanno zapping in cabina elettorale perché non è più tempo
di indicazioni dall’alto
dei partiti.
Per
questo il signorino si appresta a far votare ancora una volta la
fiducia su una legge elettorale che fa del Parlamento un accrocchio
di cooptati. Buona, la metafora dello zapping, ma per uno spettacolo
a reti unificate, tale da allontanare lo spettatore dalla tv.
E
quindi può accadere di tutto, come in realtà è accaduto a questo
primo giro. Dunque: onore ai sindaci eletti al primo turno, in bocca
al lupo a chi corre per il secondo giro e un caloroso abbraccio a chi
continua a urlare “Ho vinto!” anche quando la realtà dice
un’altra
cosa. Ma proprio perché non sono come gli altri a me la scenetta di
dire che “abbiamo non perso” non è mai riuscita e non riuscirà
mai. Possiamo e vogliamo fare meglio, lo faremo. Punto.
Come
si è visto, non siamo di fronte all’impostore
che ci invita a condividere la menzogna nella quale si è rinserrato
per proteggersi da una realtà sgradevole: si tratta di un mascalzone
patentato, che mente sapendo di mentire, e non si fa scrupolo di
renderlo manifesto. Anche Berlusconi era così? Può darsi, ma una
differenza c’era,
e non era irrilevante: quando i fatti si incaricavano di spalmarlo di
pece, coprirlo di piume e dargli fuoco, strepitava come un ossesso;
Renzi si atteggia a étoile ne L’Oiseau
de feu.
[...]
Mi
tocca fare ammenda per due svarioni.
1. In uno scambio con Olympe de
Gouges, nella pagina dei commenti a Non è un infortunio logico, è un «“clic” psicologico» (Malvino,
28.5.2016), ho fatto cenno a «l’ultimo
Engels, quello dell’introduzione
alla prima ristampa di Lotte di classe in Francia, del 1895», con implicito rilancio della vulgata di una sua revisione critica delle tesi
esposte in quell’opera.
Vulgata infedele, perché, come Olympe de Gouges non ha mancato di
illustrarmi con ampia documentazione (Breve storia di una falsificazione - diciottobrumaio, 31.5.2016),
il testo di Engels subì pesanti alterazioni sotto pressione di
Richard Fischer, che per conto della direzione del Partito
socialdemocratico tedesco
ne chiese e ottenne modifiche che consentirono di presentarlo come
una sconfessione della pratica rivoluzionaria in favore dell’opzione
riformista. Devo confessare che ignoravo tutto questo, anche se si
trattava di cosa che poi ho scoperto essere relativamente nota: è
che la fonte da cui attingevo (Editori Riuniti, 1987), sebbene di
parecchio posteriore alla scoperta del carteggio Engels-Fischer che
aveva consentito di ricostruire in modo esatto i termini della
faccenda, non ne faceva alcun cenno, avallando il falso del «vecchio
compagno di Marx torn[ato]
a riconsiderare autocriticamente alcuni errori commessi […] in
sostanza demol[endo]
quelli che nella biografia intellettuale sua e di Marx erano stati
alcuni dei capisaldi dei loro scritti giovanili […] Quello che in
particolare cambia in radice nella nuova prospettiva è il rapporto
tra movimento operaio e socialista e legalità democratica»
(Angelo Bolaffi). Non posso far altro che chieder scusa al lettore.
Certo che però pure quell’Engels...
Un socialdemocratico ti chiede di ammorbidire i toni e tu che fai, lo
assecondi? Uno se li immagina tostissimi, ’sti marxisti, e invece?
Vabbè, come non detto, l’errore
resta tutto intero, e mio.
2. Altre scuse al lettore sono dovute per
quanto ho scritto nel primo capoverso del post qui sotto (La rete ci renderà stupidi? -
Malvino,
6.6.2016). Formulo l’addebito
nel modo in cui mi è stato contestato in uno dei commenti:
«Mi
pare che lei, per opporsi alla cervellotica accezione [che
Luca] Sofri
[dà di watchdog],
lo segua sullo stesso terreno».
Riconosco giusta
la critica, soprattutto per aver ceduto all’impiego di un’argomentazione
che, a torto, ho ritenuto congrua, senza sottoporla al vaglio del
buon senso. In altri termini, mi ritengo in fallo per non essere
riuscito a dimostrare che la risemantizzazione di un termine azzera
il significato che gli assegna l’etimo
e ne modifica la valenza metaforica. Ma su questo tornerò
prossimamente, augurandomi di saper trovare argomenti più
persuasivi, e comunque meno infelici.
lunedì 6 giugno 2016
La rete ci renderà stupidi?
Wikipedia
dice che watchdog
significa cane
da guardia,
ma trascura di affrontare la questione della risemantizzazione del
termine nell’uso
che se ne fa per definire il ruolo che la cultura anglosassone
assegna al giornalista. Watch,
infatti, significa guardare,
che in senso estensivo copre adeguatamente l’accezione
del tener
d’occhio
e dunque anche quella del far
la guardia,
ma più generalmente sta a indicare un
osservare
cui venga posta quella particolare attenzione
che trascende dalla mera sorveglianza
in funzione di difesa della casa o del gregge (com’è
nel caso di «watch out!»,
che è un «fai
attenzione!» non
necessariamente finalizzato al «keep
guard»
di un bene o di un territorio) e che dunque, riferito a dog,
non rimanda necessariamente al cane che abbaia o morde il postino, e
neppure a quello che coadiuva il pastore, assumendone la stessa
qualifica. Watchdog,
perciò, è più propriamente il cane
da caccia,
nella sua variante da
ferma
o da
punta:
il cane che si limita ad avvertire il cacciatore della presenza della
selvaggina. Nell’uso
che il termine assume in ambito giornalistico, dunque, assume il
significato del soggetto che svolge il ruolo di richiamare
l’attenzione
dell’opinione
pubblica su ciò che questa può essere interessata a mettere nel
mirino e a colpire.
Niente a che vedere, insomma, col cane riguardo al quale ci
sarebbe
da chiedersi, come si chiede Luca Sofri, se sia chiamato a
«protegge[re]
il
potere dai malintenzionati»,
ipotesi che tuttavia tende a scartare, o a «protegge[re]
qualcosa
dal potere» (ritenendolo
tendenzialmente «malintenzionato»,
pur «rimuov[endo]
i
dubbi sul diffuso uso generico e demagogico della parola “potere”»),
per finire con lo scartare anche questa e perdersi in congetture
prossime al delirio: «Quello
che si vuol dire [col
termine watchdog]
è
che un giornale, o il giornalismo in genere, deve essere una specie
di sorvegliante nei confronti di qualcuno: di secondino nel peggiore
dei casi, di guida e controllore nel migliore. Bada al singolo ladro
(tant’è vero che lo ha già individuato, “il potere”), non
alla potenziale refurtiva. Non è lì per impedire un attacco di
nemici esterni, ma per tenere a bada che nessuno all’interno si
comporti male. Non è un cane da guardia, ma piuttosto una via di
mezzo tra un cane da cieco e uno di quei cani usati per intimorire i
prigionieri: insomma, non è la metafora giusta – volendo rimanere
nello stesso ambito, forse “tenere al guinzaglio il potere”
avrebbe più senso – ma evidentemente a qualche punto della storia
qualcuno l’ha introdotta e poi nessuno si è più fatto domande.
Anche perché per fare il cane da guardia, devi avere avuto
un’investitura: qualcuno ti deve avere mostrato la casa e averti
detto “bada che nessuno la tocchi”: un giornale che si vede
“watch dog” invece si nomina protettore di un’idea arbitraria
di bene comune dagli attacchi del “potere” (che viene descritto
malintenzionato e malfattore per definizione). Con due rischi. Il
primo è quello che riguarda ogni ruolo poliziesco: di vedere ovunque
il male e dare per scontato di essere il bene (un giornale “sinonimo
di battaglia politica e civile” difficilmente aiuterà a capire il
mondo). Il secondo è di trasformarsi esso stesso – molto più
pretestuosamente del potere politico, che almeno è legittimato
democraticamente – in un potere assai maggiore: come sanno i
postini, che la posta la devono consegnare».
Un
gran bell’impiastro
di meditabonda chiacchiera, insomma, per giunta a contestare quanto
nell’uso
del termine è attribuito a chi, usandolo, ha dato spunto a tanta cataratta di spropositi (Carlo De Benedetti intervistato da Salvatore Merlo, per
Il
Foglio),
e tutto a
partire da un approccio paurosamente acritico con quanto Wikipedia
spiattella ai suoi fruitori. In tal senso sembra che Luca Sofri possa
tornarci utile almeno a trovare una risposta alla domanda che si fa
Derrick de Kerckhove (La
rete ci renderà stupidi?
- Castelvecchi, 2016): non necessariamente, direi, però già dà una
mano a chi ci è portato di suo.
Provate a mettervi nei panni di un Ocone
Provate
a mettervi nei panni di un Ocone... Fermi lì, mi avete frainteso...
Via quel costume ricoperto di piume, via quelle pinne e quel becco
giallo, non vi invitavo a un ballo in maschera... Parlavo
di Corrado Ocone, l’ultimo
dei crociani in un’Italia
che ormai di Croce si rammenta solo ai decennali della nascita e
della morte, per giunta spicciando la faccenda in modo sempre più
sbrigativo, e sempre per ribadire che il suo sistema filosofico è
ormai inservibile. Ecco, immaginate che su quel sistema filosofico
siate rimasti solo voi a passare la cera, a tappare con lo stucco i
buchi lasciati dai tarli, e dite: non vi brucerebbe tremendamente il
culo a non vedervi fra gli invitati a presentare un volume su Croce
e Gentile?
Non assumete quella posa da intellettuali insensibili alle
lusinghe mondane, siate sinceri: vi brucerebbe, eccome. Eccheccazzo –
starnazzereste – viene invitato Canfora, e Ferroni, e Vacca, e
Ciliberto, che al netto delle buone maniere so’
quattro comunisti di merda, e io, crociano che più crociano non si
può, trattato come il figlio della serva?
Ok, forse non proprio in
questo modo, ma che direste? Star zitti e fingervi contegnosamente
distaccati, convengo, non sarebbe da crociano: se avete speso la vita
in devozione a Croce, almeno un po’
del narcisismo che lo gonfiava deve per forza avervelo insufflato.
Poi c’è
che, se invitati, vi sarebbe stata offerta l’occasione
per sparlare di Gentile... Chissà che in sogno non sareste stati
gratificati da un don Benedetto che mettendovi una mano sulla spalla
vi avrebbe detto: «Guaglio’,
me fatte allicria’!
L’hai scamazzato, a chill’ommemmerda!».
E invece niente: Canfora sì, Vacca pure, e voi niente. Non vi resta
che polemizzare. Polemica garbata, però, mi raccomando, non sia mai detto che difettiate di idealismo.
venerdì 3 giugno 2016
[...]
Mancano
pochi mesi al 40° dell’esordio
televisivo di Roberto Benigni, e io ho un ricordo assai nitido di
quella serata, perché il personaggio di Mario Cioni da lui
interpretato in Onda
Libera
fu oggetto di un’accesa
discussione tra me e mia madre. A lei quel contadino non dispiaceva,
trovava avesse una vena di malinconico surrealismo che prometteva
bene. È probabile, quasi certo, che non dicesse proprio «malinconico
surrealismo»,
ma, insomma, il senso era quello.
Da subito, invece, a me diede
il fastidio che in questi 40 anni non è mai venuto meno, e che anzi
è diventato sempre più molesto, fino alla nausea che mi hanno
inflitto proprio le sue prove più applaudite. Per dire, ho trovato
insopportabili La
vita è bella,
Tutto
Dante,
La
più bella del mondo,
I
dieci comandamenti,
e di tutto quello che è venuto prima (Il
piccolo diavolo,
Johnny
Stecchino,
Pinocchio,
La
tigre e la neve,
ecc.) salverei dal cesso solo Non
ci resta che piangere,
e solo per rispetto a Massimo Troisi. Ma il peggio del peggio mi è
sempre sembrato il Benigni delle ospitate d’onore,
quello che strizzava le palle a Pippo Baudo e palpeggiava il culo a
Raffaella Carrà, tra cretini ordinari a sbellicarsi in platea e
cretini di rango a definire geniali quelle pagliacciate, il giorno
dopo, sulle prime pagine dei quotidiani. Non mi è mai sfuggito,
tuttavia, anzi ho sempre avuto dolorosamente presente, dolorosamente
e rabbiosamente presente, che il successo di un viscido ruffiano è
sempre pienamente meritato se tributato da un paese di merda: i
pidocchi prosperano dove c’è
forfora, il conformismo di sinistra è sempre stato l’habitat
elettivo di certa gente di spettacolo, poco importa se nell’humus
si muovessero da simbiotici o da saprofitari.
È per questo che la
giravolta di Benigni sul referendum che si terrà ad ottobre non mi
stupisce, e anzi mi torna a conferma – sia per la decisione di
farla, sia per l’amarezza
che sembra aver inflitto a tanti – di quanto ho più volte scritto
su queste pagine: il popolo del «se
l’avesse
detto/fatto Berlusconi, saremmo tutti a manifestare in piazza» è
ormai perdente rispetto a quello del «Renzi sarà pure la
continuazione di Berlusconi con altre chiacchiere, ma è il
segretario del partito che comunque non possiamo non votare».
L’altrieri
erano una cosa sola, e da quella Benigni raccoglieva a piene mani, ma
oggi sono alla conta, e Benigni è costretto a decidere, da marcatore
di una mutazione che è del conformista di sinistra, prim’ancora
che del Pd di Renzi.
giovedì 2 giugno 2016
Inizia con la “k” e ha 110 lettere
Giorni
fa, su Libernazione,
Dan Marinos scriveva di avere «l’impressione
che Il Post abbia drasticamente calato la qualità del servizio
offerto».
Non riuscendo a figurarmi una qualità più bassa di quella che due o
tre anni mi spinse a cancellare Il
Post
dalla lista del mio feed reader, sono andato a curiosare. Bene, posso
dire che il giudizio di Dan Marinos è ingeneroso: nessun calo di
qualità, Il
Post
è sempre lo stesso, forse solo un po’
più appesantito di réclame e marchette. Mi pare che la formula non
sia affatto cambiata: pesca a strascico dal web, con tutti i limiti e
gli infortuni del caso, a dispetto della spocchia esibita da chi lo
dirige nel dare la lezioncina sulla verifica delle fonti. Un caso
emblematico è quello del post che intenderebbe fornire al lettore la
nozione del «luogo
geografico con il nome più lungo del mondo»,
che «inizia
con la “t” e ha 85 lettere»
(Il Post,
2.6.2016): pescato sul web, dove infatti non si ha traccia di quello
riprodotto qui sopra (da Il
senso del Tingo,
Rizzoli 2006 – pag. 204), che con 110 lettere lo batte.
Ci vuole pazienza
Anche se lo sfizio di commentare Il Foglio mi è passato da tempo, oggi non posso trattenermi dall’intrattenermi su una cosina pubblicata a pag. 2, la più interessante di tutto il numero oggi in edicola: parlo della letterina con la quale l’onorevole Antonio Palmieri, deputato di Forza Italia, annuncia di aver presentato in Cassazione, insieme ad altri suoi colleghi, il quesito referendario per abrogare la prima parte della legge sulle unioni civili, certo di poter contare sul sostegno del giornale, che pure si è sempre dichiarato contrario a questo passo fin da quando, mentre ancora la legge era discussa in Parlamento, ne era ventilata l’ipotesi. Motivo di tale certezza? «Noi foglianti non ci siamo mai fatti intimorire dalla forza degli avversari, né fermare dal calcolo delle possibilità di vittoria». Riandando ai referendum del 2005, alla giravolta che sul calcolo di Ruini portò Il Foglio dal no all’astensione, si resta senza parole: sarà che l’onorevole è un candido o è un cinico? Probabilmente falso candido e vero cinico.
[...]
Rifugiato
in India da 57 anni, il Dalai Lama dice che i rifugiati dovrebbero
rimanere solo per poco nel paese che li ospita. È un capo religioso,
dunque gli è consentita una faccia di culo.
mercoledì 1 giugno 2016
Un sospiro di mestizia
L’euforia
della scoperta scientifica tende sempre a dare un aspetto allettante
a quanto si è scoperto, e questo è largamente giustificato, perché
arrivare a comprendere qualcosa che prima non si comprendeva è il
primo passo per cercare di metterci mano, per cambiarla, se è il
caso, traendone vantaggio. Talvolta, tuttavia, l’euforia
è un riflesso condizionato: ci viene rivelato qualcosa che non è
per niente allettante, cui sembra pressoché impossibile mettere
mano, ma i toni coi quali si dà notizia della scoperta sono comunque
entusiastici.
Così accade con la scoperta di «una
firma strutturale e funzionale dell’attività
cerebrale di ciascuno di noi» (Le
Scienze, giugno 2016 – pag. 17): studi sull’attività
cerebrale umana effettuati mediante scansione per risonanza magnetica
rivelano che ogni individuo ha una sua specifica configurazione di
attività neuronale, che trova ragione in una specificità sia
anatomica che funzionale, e che è ben distinguibile sia nel compiere
alcune azioni che nel non compierne alcuna.
Presto ancora per dire
come ciascuno giunga ad acquistare questa firma inimitabile, ma non
è azzardato supporre che come al solito vi sia il concorso di
patrimonio genetico e ambiente. Di fatto, sembrerebbe lecito
affermare – ed Edoardo Boncinelli, che firma l’articolo,
non fa fatica ad ammetterlo – che, per
«poter essere diverso in azione, il mio cervello deve essere in
potenza diverso da qualsiasi altro». Ragioni per rallegrarsene non
mancano: è cosa che «ci salva dalla noia e dallo squallore del
branco senza animazione». Ma è pure cosa che «non favorisce una
placida intesa reciproca», si concede. Cedendo troppo all’eufemismo,
direi, perché viene a vacillare il fondamento di una logica che possa dirsi fattore specie-specifico.
Certo, sapevamo che la logica fosse un’invenzione e non una scoperta. Sapevamo che 5-6000 anni fossero troppo pochi per farla diventare una protesi fissa. Ma sia consentito un sospiro di mestizia.
martedì 31 maggio 2016
Giovanotto
Giovanotto,
oltre che un mostro, lei è un grande scostumato, sa? E che,
si fa così? Confessare prima di aver dato modo a Chirico, a Manconi,
a Cerasa e al resto della compagnia di potersi attivare? Sulla coscienza lei non ha solo un’innocente,
ma pure una bella carretta di innocentisti, si
vergogni.
[...]
La
scritta in nero dall’allineamento
incongruo all’ondulato
del supporto, lo strafalcione che storpiava «fin»
in «fine»... Un fake davvero grossolano, inevitabile fosse
smascherato in fretta, e infatti così è stato, ma nessuno ha pensato ad avvisare Giuliano Ferrara.
La scorta a Saviano e quella a Verdini
Le
polemiche di recente innescate dalle dichiarazioni del senatore
D’Anna,
secondo il quale non avrebbe ragion d’essere
l’assegnazione
di una scorta a Saviano, mi hanno fatto venir voglia di sapere a chi
altri ne sia assegnata una. In una lista aggiornata al 2013 (ripeto:
2013), nella quale figurano i nomi di giornalisti come Vespa, Fede e
Belpietro, di politici come Formigoni, Angelucci, Scajola, Ghedini,
La Russa, Cicchitto, Alemanno, De Mita e Santanchè, e di esponenti
del mondo imprenditoriale come Marcegaglia, Cordero di Montezemolo e
Berlusconi (Silvio e Paolo), ho trovato anche quello di Verdini,
leader del gruppo parlamentare di cui D’Anna
è membro. A onor del vero, occorre dire che Verdini si è
tempestivamente dissociato dalle dichiarazioni di D’Anna,
ma questo non mi fa smettere d’esser
curioso sulle ragioni che abbiano reso necessario assegnargli una
scorta, della quale, a dar fede al pettegolezzo, pare tuttora goda.
C’è
qualcuno che sappia quale sia il pericolo che ne mette a rischio
l’incolumità
fisica?
lunedì 30 maggio 2016
Interpretare / 1
Non
ho ancora acquistato il libro scritto a quattro mani da Mario
Brunello e Gustavo Zagrebelsky (Interpretare, Il Mulino 2016), di cui
oggi Il Fatto Quotidiano ha mandato in pagina uno stralcio, nel quale
mi pare venga riproposta in modo più che esplicito una questione che
probabilmente non sarà mai chiusa con un accordo tra le parti in
causa, cioè tra il legislatore e il magistrato giudicante. Nei
prossimi giorni mi procurerò il volume e vi saprò dire se mi ha
offerto spunti di riflessione, ma fin d’ora,
a mo’
di premessa, ritengo utile far sgombro il campo da possibili equivoci
su un tema che è estremamente delicato e che costituisce un capitolo
centrale della discussione sui rapporti tra politica e giustizia, già
affrontato su queste pagine nel commentare in modo critico –
aspramente critico – gli interventi di chi muoveva alla
magistratura l’accusa
di esorbitare dalle sue prerogative per riempire i vuoti lasciati
dalla politica o addirittura per usurparne ruolo e funzione. Come mi
auguro sarà evidente dalla lettura di quanto segue, io ritengo che
la separazione dei poteri implichi necessariamente che il legislatore
perda ogni facoltà di controllo sul testo di legge dopo che lo ha
licenziato, e che, laddove le sue intenzioni non siano fatte
esplicite dal testo, la sua interpretazione è giocoforza nella
disponibilità di chi applica la norma, ovviamente nei limiti posti
dalla giurisdizione costituzionale. Ma su questo tornerò nelle
conclusioni in coda alla serie di post di cui questo è il primo.
1.
I problemi posti dall’«interpretazione»
sono già tutti impliciti nell’incertezza
che a tutt’oggi
resta sul suo etimo. Se è chiaro, infatti, che «inter-» stia per
«tra», a intendere una relazione tra cosa e cosa, è controverso
cosa la stabilisca, visto che per alcuni la «-pretazione» sarebbe
«negoziazione» o «permuta» (per significato estensivo dato a
περαω, che sta per «vado a vendere»), mentre per altri sarebbe
«esposizione» o «spiegazione» (da φραζω, che sta per
«mostro», «indico», «dichiaro», ma che ha molti altri
significati, non meno pertinenti in questo caso, come «scorgo»,
«medito», «delibero»). Probabilmente è questo che dà ragione
della notevole plasticità che assume il significato
dell’«interpretare»,
al pari di ciò che accade col «tradurre»,
termine che gli è affine sia nell’accezione che fa
dell’«interprete»
colui cui spetta «trans-ducere»
un testo da una lingua a un’altra, sia in quella che ne fa
l’intermediario tra l’autore e chi è destinato a fruirne, com’è
nel caso di una commedia o di un brano
musicale. Quest’affinità
tra «interpretazione»
e «traduzione»
spiega perché all’«interprete»
e al «traduttore»
venga spesso mossa la stessa accusa, quella di aver «tradito», per
colpa o per dolo, il testo che erano stati chiamati a «interpretare»
e a «tradurre».
È accusa che non di rado è assai difficile stabilire se fondata,
perché il presunto «tradimento» è spesso ai danni di chi solo
avrebbe pieno diritto di lamentarlo, ma non ne ha la possibilità:
Johann
Sebastian Bach
è morto da troppo tempo per dirci quanto possa sentirsi soddisfatto
dell’«interpretazione» che Ramin Bahrami dà delle sue
composizioni;
per la stessa ragione, Herman Melville non può dirci se si ritenga
più «tradito» da Cesare Pavese o da Ottavio Fatica (laddove
potesse, d’altra
parte, sarebbe necessario avesse una buona conoscenza della lingua
italiana); e così accade pure per la Costituzione degli Stati Uniti
d’America, perché ad ogni sentenza della Suprema Corte che ne
richiama questo o quell’articolo
manca il visto di approvazione da parte di George Washington, Thomas
Jefferson, Benjamin Franklin, ecc. In generale, potremmo dire che per
provare il «tradimento» di un testo siamo spesso costretti a
ricorrere ad un’autorità di provata competenza alla quale
affidiamo il compito di «interpretare» le reali intenzioni
dell’autore, quando questi non abbia modo di farlo di persona. Nel
caso di una legge, per esempio, quest’autorità
è affidata alla magistratura giudicante, tenuta a rispettare il
criterio di «interpretazione», indispensabile all’applicazione
della norma, che le è imposto dall’art. 12 delle Preleggi:
«Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro
senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole
secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore».
Tutto sembrerebbe essere predisposto per non dar luogo ad alcun
contenzioso, se non fosse che anche qui siamo dinanzi a un testo da
«interpretare», per giunta relativamente ambiguo. L’«intenzione
del legislatore», infatti, sembrerebbe doversi ritenere evidente nel
testo stesso della norma, «fatta palese dal significato proprio
delle parole secondo la connessione di esse», e tuttavia non è
affatto raro che le parole usate lascino ampio margine a
«interpretazioni» diverse, perfino opposte, per non parlare di come
la «connessione» delle parole stesse sia spesso ulteriore fonte di
dubbio. Il suddetto art. 12 sembra farsi carico di questa evenienza,
perché recita che, «se una controversia non può essere decisa con
una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che
regolano casi simili o materie analoghe», e, «se il caso rimane
ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento
giuridico dello Stato», che però sono espressi da parole, il cui
«significato proprio», «secondo la connessione di esse», può
risultare non univoco. A ciò il testo della norma sembra spesso
voler porre rimedio col ricorso a perifrasi che tolgano ogni
possibile ambiguità a parole che consentirebbero più d’una
«interpretazione», ma non sempre questo è sufficiente, né risolve
la questione il connetterle in proposizioni che costringano a una
lettura inequivoca, perché il caso al quale la legge va applicata ha
uno specifico che rende sempre necessaria una trasposizione del
principio astratto nella realtà fattuale. In conclusione, potremmo
dire che non si può applicare una legge senza interpretarla, né si
può interpretarla senza attribuirle un senso che spesso non è fatto
così inequivocabilmente palese dal testo, come invece chi l’ha
scritto avrebbe preteso fosse.
[segue]
sabato 28 maggio 2016
Non è un infortunio logico, è un «“clic” psicologico»
Oggi
Michele Serra scioglie ogni dubbio su quanto ieri Massimo Cacciari
affidava alla penna di Ezio Mauro e ci costringe ad arrossire per
l’ingenuità di cui abbiamo dato
prova nel segnalare la patente
incongruità tra premessa
(«riforma maldestra»)
e conclusione («voterò Sì»):
non si trattava di un infortunio logico, ma di un «“clic”
psicologico». Bastava saper
leggere a dovere quel «non abbiamo la faccia per dire no»:
«Non abbiamo la faccia, noi sinistra, noi classe dirigente
del Paese, noi italiani senzienti e operanti tra i Sessanta e il
Duemila (e rotti) – spiega Michele Serra – per giudicare
con la puzza sotto il naso il lavoro di un governo di giovanotti
avventurosi e forse avventuristi. Dal riflusso in poi (dunque dai
primi Ottanta) la sinistra semplicemente ha smesso di esistere se non
come reazione stizzita al presente. [...] Ora la sola idea che
qualcosa accada è più convincente dell’idea che quella cosa possa
essere sbagliata». È
questo che «impedisce [a Michele Serra, ma anche a Massimo
Cacciari, come Michele Serra ritiene di poterci assicurare] di
essere antirenziano pur avendo, con Renzi, quasi zero in comune».
«Quasi», perché «il papà
di Renzi è la sinistra depressa» e
«la mamma della Boschi è la bicamerale». Insomma,
«c’è una ineluttabilità, nel renzismo, che da un lato
sgomenta, dall’altro chiede di compiersi per il semplice fatto che
più niente di davvero significativo si è compiuto, a sinistra, dopo
gli anni costituenti e quelli dell’avanzata operaia. Dal riflusso
in poi (dunque dai primi Ottanta) la sinistra semplicemente ha smesso
di esistere se non come reazione stizzita al presente».
Anche
qui sembra evidente una patente incongruità
tra premessa («quasi zero in
comune [con
Renzi]»)
e conclusione («la
sola idea che qualcosa accada è più convincente dell’idea che
quella cosa possa essere sbagliata»),
ma non faremo lo stesso errore di segnalarla come infortunio logico:
se nella sinistra dei Serra e dei Cacciari non è più la logica a
spiegare atteggiamenti e a motivare scelte, tutta l’attenzione
deve essere spostata a
quel «“clic”
psicologico» che
inibisce in conclusione ciò che in premessa parrebbe non aver ragione
di essere inibito. Siamo autorizzati – direi di più: siamo
obbligati – a spiegarci atteggiamenti e scelte di quella sinistra
non renziana che più o meno obtorto
collo
a Renzi finisce per dir sempre sì – quella che «se
l’avesse
fatto Berlusconi, saremmo tutti in piazza a manifestare»
– come manifestazioni cliniche di un vero e proprio disturbo
dell’adattamento
con evidenti segni di una sofferente capacità di giudizio. In
pratica, di una nevrosi.
«In
Renzi –
scrive Michele Serra – vedo
la nemesi della sinistra italiana: non esisterebbe, non si
spiegherebbe, se non alla luce della verbosa e presuntuosa impotenza
che lo ha preceduto e soprattutto lo ha generato».
Se è corretto attribuire a «nemesi»
il significato di punizione riparatrice, saremmo dinanzi a un Renzi
che la sinistra non renziana avverte come necessaria espiazione del
peccato di impotenza. Sul piano politico troverebbe sintomo
nell’inibizione
a un giudizio di merito su quello che Renzi fa, perché sarebbe pur
sempre qualcosa rispetto al niente di cui è stata capace la sinistra
negli ultimi trenta o quarant’anni,
ma allo stesso tempo troverebbe prognosi infausta per tutto ciò che
la sinistra ha inteso rappresentare fino a quando ne ha avuto gli
strumenti culturali. In tal senso, la sua sostanziale acquiescenza
alle tante decisioni politiche prese da Renzi che hanno segnato una
drammatica rottura rispetto alla tradizione culturale della sinistra
italiana andrebbe letta come ammissione di un fallimento strategico,
non tattico. La sinistra non renziana che vede nel renzismo il
Purgatorio necessario per mondarsi dalle proprie colpe è in realtà
già all’Inferno: non è chiaro quanto ne sia cosciente, ma di
fatto ammette che non le è possibile governare il paese attirando a
sé il Centro, ma solo facendosene attirare, per diventare in esso
irriconoscibile, pena l’esserne espulsa. Il Partito della Nazione è
già nei fatti: prim’ancora che nei maneggi con i verdiniani e i
cosentiniani, è tutto esplicito nel «“clic”
psicologico» di
Massimo Cacciari e di Michele Serra.
Patapaf
«La direttrice di Raitre martedì scorso ha convocato costumiste e
truccatrici. Perché è soprattutto alle donne della Terza rete che è
rivolto il nuovo codice sul modo corretto di vestirsi e truccarsi.
Niente più abiti fascianti, niente tubini, rigorosamente banditi
quelli di colore nero. Sono troppo sexy per la tv di Stato. Per
quanto riguarda gli uomini c’è poco da obiettare, completo
classico (gessato e non) con camicia e cravatta di buon gusto. Ma le
donne devono prestare più attenzione. Anche ai dettagli. Sugli
orecchini la Bignardi è stata lapidaria: al bando quelli vistosi.
Bandito anche il tacco 12. Pure sul trucco non si può uscire dal
seminato. L’ordine della Bignardi è perentorio: “Trucco
leggero”. Nessuna licenza, neanche se la richiede la conduttrice.
Il dress code è severo: camicetta sobria (consigliati i “colori
tenui”), scollature minime (al massimo si può far prendere aria al
collo), gonna o pantalone e tacco rigorosamente basso»
(Il
Messaggero,
27.5.2016).
Per chi si è lasciato scappare un velenoso sospettuccio alla sua nomina, patapaf, arriva uno schiaffo morale: questa donna incide sul costume.
Per chi si è lasciato scappare un velenoso sospettuccio alla sua nomina, patapaf, arriva uno schiaffo morale: questa donna incide sul costume.
venerdì 27 maggio 2016
Cacciari e il male minore
Sembra
che Cacciari non riesca a immaginare altre ragioni di dissenso alla
riforma costituzionale voluta dal governo Renzi se
non quella di chi in passato ha invano tentato di farne una: «Chi
ha fallito si ribella», dice nell’intervista
concessa a Mauro (la Repubblica,
27.5.2016), e nel novero dei perdenti – aggiunge – «ci
sono anch’io»,
riandando a quando, «con Marramao,
Barbera, Barcellona, Bolaffi, Flores, [...] ragionavamo sulla
necessità e sulla possibilità di riformare una Costituzione senza
scettro, come dicevamo allora, perché […] pensavamo fosse venuto
il momento di rafforzare le capacità di decisione del sistema
democratico».
Sente di aver fallito, Cacciari, ma non si
ribella: dice che voterà Sì, anche se si tratta di «una
riforma maldestra».
Sarebbe ingiusto liquidare questo atteggiamento come mera premura di
esibirsi intellettualmente onesto a differenza di quanti ieri
tentavano una riforma costituzionale, però senza riuscirvi, e oggi
sarebbero contrari a quella voluta dal governo Renzi, che invece è
riuscito a farla approvare dal Parlamento, solo perché invidiosi del
successo mancato a loro. Non è però altrettanto ingiusto negare ad
essi, e più in generale a chiunque sia contrario a questa riforma,
che d’altronde
lo stesso Cacciari non ha difficoltà a definire «maldestra»,
altre ragioni che non siano solo così meschine? Se è «maldestra»,
devono esservene. Sì, ma manca «la
presa d’atto che non siamo mai riusciti a riformare il sistema, pur
sapendo che ce n’era bisogno».
Sembra di capire che, in presenza di questa presa d’atto,
sarebbe legittimo ritenere che quella voluta dal governo Renzi sia
una pessima riforma costituzionale, e dunque votare No, ma allora
come è possibile che Cacciari, cui questa presa d’atto
non manca, voterà Sì, anche se non gli sfugge il rischio di una
«concentrazione oligarchica del
potere» che
essa favorirebbe?
Saremo ingenui, ma almeno dai filosofi ci
aspetteremmo un buon uso della logica. Ammetti che la tal riforma
favorisca una «concentrazione
oligarchica del potere»:
se vuoi tale concentrazione, voti a favore della riforma; se non la
vuoi, voti contro; se non la vuoi, ma voti Sì, un problemino c’è.
Problemino secondario, parrebbe, perché «il
vero problema
– dice Cacciari – non è una
riforma concepita male e scritta peggio, ma la legge elettorale. Qui
sì che si punta a dare tutti i poteri al Capo. Anzi, le faccio una
facile previsione: se si cambiasse la legge elettorale,
correggendola, tutto filerebbe liscio, si abbasserebbe il clamore e
la riforma passerebbe tranquillamente».
Può darsi, ma, proprio mentre l’intervista
a Cacciari andava in pagina, dal Giappone, dov’è
per il G7, Renzi ripeteva: «L’Italicum
non si discute».
È lo stesso Renzi che sul referendum di ottobre continua a ripetere
di volersi giocare la permanenza al governo, e addirittura il
continuare a fare politica. A Cacciari non è sfuggito, anzi,
parrebbe che sia proprio questo, in fondo, a motivare il suo Sì al
referendum di ottobre, anche se è l’argomentazione
a lasciare perplessi: «Ormai non
possiamo far finta di non vedere che la partita si è spostata –
dice – e si gioca tutta su di lui, da
una parte e dall’altra: se mandarlo a casa oppure no. Ci siamo
chiesti cosa succede dopo? [...] Renzi va da Mattarella, chiede le
elezioni anticipate e le ottiene. Poi resetta il partito purgandolo e
lancia una campagna all’insegna del sì o no al cambiamento, con
quello che potremmo chiamare un populismo di governo. Votiamo col
proporzionale, con questo Senato, e non otteniamo nulla, se non una
lacerazione ancora più forte del campo: è davvero quello che
vogliamo? [...] C’è una teoria della cosa, si chiama il “male
minore”. D’altra parte stiamo parlando della povera politica
italiana, non di Aristotele».
Anche qui possiamo concedere a Cacciari di avere naso più
dell’Oracolo
di Delfi, ma ci vuole Aristotele per capire che una lacerazione della
società italiana di fatto già c’è
tra chi vuole e chi non vuole una «concentrazione
oligarchica del potere»,
e che a causarla è proprio chi la vuole? Il male minore sarebbe
dargliela per evitare la lacerazione?
Iscriviti a:
Post (Atom)