martedì 5 luglio 2016

[…]

Su segnalazione di diciottobrumaio ho acquistato e letto uno dei più bei libri che mi siano capitati per le mani in questi ultimi anni, la Storia della guerra civile americana di Raimondo Luraghi (Rizzoli, 1985), e davvero non posso trattenermi dal consigliarvelo. Non fatevi spaventare dal numero delle pagine, scorre che è una meraviglia.  

domenica 3 luglio 2016

Italiani nel mondo


«17.3.2014 - Le telecamere di Presadiretta hanno girato un reportage sconvolgente in Bangladesh, il paese dove i grandi marchi di tutto il mondo vanno a produrre i loro capi sfruttando il bassissimo costo della mano d’opera. Il paese dove un anno fa è crollata la fabbrica di Rana Plaza, già dichiarata inagibile, lasciando sotto le macerie più di mille lavoratori. Un paese dove gli operai che lavorano per l’Occidente guadagnano poche decine di dollari al mese, non hanno diritto di chiedere aumenti né di manifestare. Presadiretta è andata nel centro e nel nord Italia per raccontare la crisi del tessile, il secondo comparto industriale italiano per numero di lavoratori, che in questi ultimi anni di crisi ha perso più di 85mila posti di lavoro. E soprattutto, per capire le ragioni della crisi di questo settore. Non solo la concorrenza dei laboratori cinesi e la delocalizzazione nei paesi dove il costo della forza lavoro è sempre più basso, ma anche la pratica di esternalizzare porzioni della produzione all’estero, per poi assemblare in Italia e applicare l’etichetta “Made in Italy”» (*).

Sul «taglia e cuci capzioso delle citazioni»


Quello riprodotto qui sopra è un brano tratto da Benedetto XVI – Il pontificato interrotto di Aldo Maria Valli (Mondadori, 2013). Al mio lettore chiedo di porre attenzione alla dichiarazione di padre Federico Lombardi riportata in coda, richiamando alla memoria il contesto. Siamo alla fine di novembre del 2006 e il papa arriva in Turchia. Nel mondo musulmano sembrano essersi un po sopiti gli animi che hanno dato vita a durissime proteste per ciò che Benedetto XVI ha detto a Ratisbona, non più di un mese e mezzo prima. Sarà che sè cagato addosso per il bordello che ha scatenato facendo sue le critiche che Manuele II Paleologo muoveva allislam sei secoli prima e ora vuole fare il carino, sarà che da papa ora è anche capo di stato e deve fare i conti con la ragion di stato, sta di fatto che della fiera contrarietà allingresso della Turchia nella Ue, espressa in più occasioni da cardinale, ora pare non esserci più traccia. Certo, Erdogan è un figlio di puttana e senza dubbio forza il senso di ciò che Ratzinger gli avrà realmente detto in privato. Si spiega, dunque, la necessità di precisare, ed eccoci alla dichiarazione di padre Lombardi.
Aldo Maria Valli gli fa dire: «Anche se incoraggiamo il cammino di avvicinamento sulla base di princîpi comuni, la Santa Sede non ha né il potere né il compito politico specifico di intervenire sul punto preciso dellingresso della Turchia nell’Unione europea». In via preliminare, è da segnalare che, «sul punto preciso dellingresso della Turchia nell’Unione europea», pare fosse legittimo intervenire da Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ma non lo sia più da Sommo Pontefice: alla logica umana potrà sembrare un paradosso, ma non dobbiamo commettere l’errore di giudicare le cose clericali in base a quella, sennò facciamo violenza allo Spirito Santo.
Lasciamo perdere, torniamo alla dichiarazione che Valli mette in bocca a padre Lombardi. Bene: diciamo che non è affatto fedele. Se ci abbeveriamo alla fonte originaria, constatiamo che la dichiarazione è unaltra: «La Santa Sede non ha né il potere né il compito politico specifico di intervenire sul punto preciso dellingresso della Turchia nell’Unione europea. Tuttavia vede positivamente e incoraggia il cammino di dialogo, di avvicinamento e di inserimento della Turchia in Europa, sulla base di valori e princîpi comuni».
Cosa è cambiato dalla versione originale a quella di Valli? Innanzitutto, è sparita lespressione «inserimento della Turchia in Europa», che ovviamente ha un peso enorme, perché palesa la vistosa contraddizione tra le posizioni del cardinale e quelle del papa: pur concedendo che questo «inserimento della Turchia in Europa» non sia sovrapponibile ad una «entrata della Turchia nella Ue», siamo ben distanti da quel che Ratzinger ha detto appena due anni prima («Storicamente e culturalmente la Turchia ha poco da spartire con l’Europa: perciò sarebbe un errore grande inglobarla nell’Unione Europea» - 18.9.2004).
Poi, si è invertito lordine delle proposizioni separate da unavversativa come «tuttavia», con ciò capovolgendo lordine di priorità fra le due. Padre Lombardi, infatti, premette che la Santa Sede ha un potere dazione limitato, per poi esprimere, a fronte di ciò, un parere favorevole («vede positivamente») a qualcosa che non è solo un «dialogo» tra Turchia ed Europa, ma un «avvicinamento» tra le due, per di più finalizzato ad un «inserimento» delluna nellaltra, per il quale formula un auspicio che non è di maniera («incoraggia»).
Valli, invece, premette lauspicio, che con lomissione dell«inserimento della Turchia in Europa» diventa una vuota formula di circostanza, che perde ulteriormente peso per la concessiva che la introduce («anche se»), sicché la dichiarazione di non avere «né il potere né il compito politico specifico di intervenire» da premessa diventa conclusione: da limite che non impedisce di spendersi per quel che si augura, diventa insuperabile condizione ostativa. In sostanza, è invertito il valore relativo che una proposizione ha rispetto allaltra, come avverrebbe col trasformare «Valli è uno stronzo, ma dà impressione di meritare attenzione» in «anche se dà impressione di meritare attenzione, Valli è uno stronzo».
Riprendendo la formula usata qualche giorno fa da Gad Lerner in polemica con Giulio Meotti, siamo dinanzi a un caso di «taglia e cuci capzioso delle citazioni», espediente retorico che qui fa ricorso allargumentum ad auctoritatem, previo il forzoso reclutamento dell’auctoritas ai propri fini, e che in altre occasioni fa ricorso allargumentum ad hominem, dopo aver messo in bocca allhomo quello che in realtà non ha detto. In entrambi i casi, la questione di merito resta inevasa, pretendendo sia risolta nelladesione allopinione dell’auctoritas o nel respingere quella squalificata con lattribuirla a un homo sottoposto a una reductio (ad absurdum, ad hitlerum, ecc.). Così, nel caso dellentrata della Turchia nella Ue, si dovrebbe essere persuasi ad esserne contrari perché pure il cardinale Ratzinger lo era, e qui largumentum ad auctoritatem non ha bisogno di alterare lopinione dell’auctoritas, limitandosi ad omettere che quella di Benedetto XVI fosse diversa (cosa che Meotti fa in un articolo apparso ieri su Il Foglio), sennò sostenendo che fosse la stessa (come fa Valli nel suo libro), ma dovendo ricorrere «taglia e cuci capzioso delle citazioni», e nel caso in questione facendo peggio di Erdogan.

venerdì 1 luglio 2016

Rap

«... trovo molto interessante
la mia parte intollerante
che mi rende rivoltante
tutta questa bella gente»

Adesso, per chi ne magnificava le virtù, lItalicum non va più bene. Per chi si dichiarava indisponibile a rimetterci mano, almeno qualche ritocchino, adesso, lo merita, non fossaltro per tentare un altro Nazareno. Né manca, sul fronte opposto, chi riteneva fosse la madre di tutte le possibili criptodittature, e adesso dice che ridiscuterne non è un problema prioritario, limportante è altro, chessò, strappare a Paolo Mieli la sorpresa che nella cozza del M5S cè quella perla di un Luigi Di Maio, oggi simpatico come lo era Daniele Capezzone fino a dieci anni fa.
Viene la voglia di un Dio spietato che li incenerisca tutti, boss e luogotenenti, gregari e leccaculo di complemento, ma, si sa, voglie del genere segnalano un malessere esistenziale di grado severo, quello del moralismo. Abbia il buon gusto, chi ne soffre, di non esibirlo, perché è vero che, come la psoriasi, non attacca, ma in società crea il panico del contagio più della rogna. Poi, diciamocela tutta, pretendere che il prossimo nostro abbia sempre un argomento decente per dimostrarci che non è luomo di merda che palesemente sembra – sensu stricto – è violenza.
Dissimulare, dissimulare, coprire la chiazza cutanea con la cipria di una soffice ironia, dire che sono tutti eguali, e chi lo sembra meno, gratta gratta, è peggio, ma senza mostrare acredine, sfoggiando il sorriso consigliato a pag. 23 del Vademecum del perfetto uomo di mondo, quello di chi ha visto tutto, e non si scandalizza più di niente, anzi trova tutto molto divertente. 



Appendice

«Ogni partito è favorevole a quella tecnica elettorale che gli fa più comodo, e cerca di far passare quella legge elettorale che meglio canonizzi quella tecnica.
Questo è vero. Ma non è tutta la verità. In un paese che non riduca le elezioni a truffe perpetrate dai più imbroglioni a spese dei più minchioni, la legge elettorale non può solamente e brutalmente prescrivere quella tecnica di votazione che fa comodo a chi fa la legge. In un paese di gente onesta, e non di falsari, la legge elettorale deve prescrivere non solo una tecnica, ma anche una regola di gioco, la quale giustifichi quella tecnica: regola di gioco, da cui tutti si sentano legati perché garentisce i diritti di tutti: cioè il diritto di formare il governo in chi ottiene il consenso della maggioranza, e il diritto della minoranza di essere rispettata nelle proprie libertà.
Quando la tecnica della votazionecessa di essere regola di gioco riconosciuta legittima da tutti, e pretende produrre sempre, ad ogni costo, una maggioranza governativa, non è più una regola di gioco, ma un imbroglio totalitario.
[…]
A questo punto i lettori del “Mondo” mi lascino riconoscere, prima che me lo dica altri, che ho finora fatto un discorso da “moralista”, e non da “realista”. E il moralista, come tutti sanno, è un “astrattista”, un “antistorico”, un cretino famoso, che non dovrebbe occuparsi mai di materie politiche.
Sia. Ma sta il fatto che il mondo trabocca di cretini famosi. E, in regime di suffragio universale, costoro rappresentano un peso, del quale debbono tener conto i sapientoni fabbricanti di tecniche elettorali, perché sono precisamente quei moralisti astrattisti ed antistorici che decidono le elezioni, spostandosi di qua o di là, squadre volanti; disgraziati, che cambiano bottega non appena si avvedono che il macellaio ruba sul peso, e non amano fare amicizia con un mercante di cavalli, perché sanno che vende onzini vecchi come puledri giovani. Pregiudizi. Ma esistono; e chi li trascura, si trova male. Motivo percui i fabbricanti di nuove tecniche elettorali debbono persuadere proprio noi che essi non intendono truffare nessuno, ma ci invitano ad assumere impegni, ai quali abbiamo lobbligo di consentire a ragion veduta.
[…]
È inutile che storciate il muso allorché qualcuno vi ricorda questo guaio. Guaio o non guaio, questa, oggi come oggi, è la realtà; e se ve ne infischiate, essa si rivolterà contro di voi».
Gaetano Salvemini
(Il Mondo, 20 settembre 1952)

giovedì 30 giugno 2016

Documentarsi

Le cinque stelle che compaiono nel simbolo del M5S avevano un loro ben preciso significato già molto tempo prima che al Teatro Smeraldo di Milano, il 4 ottobre 2009, si desse battesimo al movimento politico con la presentazione ufficiale del programma e – appunto – del simbolo. Quasi un anno e mezzo prima, infatti, il 25 gennaio 2007, dando il via alla formazione di liste civiche cui Beppe Grillo assicurava il suo sostegno a condizione che i candidati si impegnassero al rispetto dei punti programmatici che poi saranno della Carta di Firenze (8 marzo 2009), veniva data spiegazione di cosa simboleggiassero quelle cinque stelle: «Una per l’energia, una per la connettività, una per l’acqua, una per la raccolta rifiuti, una per i servizi sociali». Bastava sottoscrivere limpegno su quei cinque punti per potersi fregiare del pentastellato bollino di garanzia, un po come, da banana, basta rispettare un certo standard per meritare quello blu della Chiquita.
Errato, dunque, quanto era scritto, ieri, a pag. 2 de Il Foglio: «Le cinque stelle sono quelle degli alberghi, anzi dello stile di vita. “Potremmo avere una vita a cinque stelle”, urlava nei comizi fondativi il capo comico e da lì nacque il simbolo». E a seguire: «Negli alberghi a 5 stelle non ci sono solo ospiti ma anche camerieri, facchini, sguatteri e lavandaie, e che qualcuno che lo faccia bisognerà pur trovarlo». Sembrava manifesta in Massimo Bordin, che firmava il pezzo, la certezza di aver trovato in radice la mala pianta del velleitarismo grillino, per mostrarne subito tutta la fragilità allazione diserbante del pensare a quanto inganno possa essere contenuto nella promessa di assicurare a tutti «le lenzuola di lino e la colazione in camera».
Sta di fatto che Beppe Grillo non ha mai materialmente collegato l’immagine delle cinque stelle agli hotel di lusso: con «vita a cinque stelle» ha inteso solo definire lo standard di vita di cui tutti avrebbero potuto godere con lattuazione del programma relativo ai cinque punti cui si faceva cenno prima. Più che legittimo contestare nel merito uno, due o tutti e cinque i punti, altrettanto legittimo mettere in discussione il metodo col quale il M5S si prefigge di attuarli, ma caricaturizzare la posizione di chi pure ci stia potentemente sul cazzo è cosa intellettualmente disonesta, e come tale va segnalata.
Come accade che si possa cedere a questa tentazione? Mi pare che unottima risposta a tale domanda sia data da Gad Lerner nella replica a un velenoso attacco che ieri, sempre dalle pagine de Il Foglio, gli era mosso da Giulio Meotti, accusato – giustamente, ci pare di poter dire, avendogli più volte sollevato da queste pagine la stessa imputazione – di «costrui[re] le sue argomentazioni col taglia e cuci capzioso delle citazioni»: «La denigrazione dell’avversario, quando si è dominati dal pregiudizio ideologico, sollecita forzature che spesso conducono all’esito penoso di prendere fischi per fiaschi». Che questo capiti a Meotti, passi, ma che possa capitare pure a Bordin, ferisce.

Coda Un giorno chiesero ad Arrigo Cajumi quali fossero le qualità necessarie per arrivare ad essere un polemista della sua levatura. Non si schermì con la falsa modestia dei simpatici ad ogni costo, ma senza esitare un attimo rispose: «Sono tre: documentarsi, documentarsi e documentarsi».

martedì 28 giugno 2016

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Pare che per la Brexit sia stato determinante il voto del cosiddetto «paese profondo», quello delle aree più interne, comunque più lontane dal flusso delle relazioni e degli scambi col mondo esterno. Nella visione organicistica di una nazione è quello che solitamente è detto «ventre del paese», con ciò assegnandogli quei tratti che danno impronta viscerale alla sua dimensione esistenziale. Questa, comè per gli organi governati dal sistema nervoso enterico, è caratterizzata, sul piano sensoriale, da uno spettro percettivo dalle rappresentazioni grossolane, per lo più immediate, ma spesso poco nitide, che tuttavia non mancano per questo di potenza, anche notevole, talvolta perfino spropositata rispetto agli stimoli che le hanno determinate, perché si tratta di immagini che in gran parte attingono a una sfera del simbolico che è primordiale, per nulla sorvegliata dai processi di ideazione che sono propri delle percezioni sensoriali di tipo superiore. Sul piano funzionale, invece, siamo nel regno del vegetativo, dellautomatismo, degli archi riflessi corti e ultracorti, col prevalere di quegli elementi pulsionali e reattivi che sono comuni ad ogni specie animale, anche a quelle che hanno un sistema nervoso centrale assai meno complesso di quello umano.
Ce ne sarebbe abbastanza, in definitiva, per liquidare ogni sentire del «paese profondo» come sordo, opaco, intrattabile, e ogni suo agire come cogente, istintivo, irrazionale, se non fosse che la visione organicistica di una nazione è da sempre uno strumento di semplificazione che risponde a una logica di parte, giacché Menenio Agrippa era un patrizio. Del suo apologo resta in piedi la retorica delle classi che «quasi unum corpus discordia pereunt et concordia valent», ma cè da segnalare un’interessante inversione di segno: lì il ventre era lélite economica, politica e culturale della Roma del V secolo a.C., che la plebe accusava di essere «otiosa», muovendosi perciò alla prima e rudimentale forma di sciopero della storia; oggi, invece, almeno nel caso del Regno Unito, il ventre è quanto resta di un proletariato quasi del tutto ripiegato sulla sua miseria e di una borghesia che la crisi economica ha impoverito ed emarginato in aree suburbane perché lasciasse il centro delle grandi città ai nuovi ricchi. Il «ventre del paese» è quello delle masse alle quali è stato tolto tutto, lasciando ad esse solo la nostalgia per un Regno Unito che non cè più e lillusione di poterlo ricreare uscendo dalla Ue. Liquidare questa scelta come irrazionale è legittimo, ma è di parte, giacché non cè nulla che oggettivamente mostri un utile nell’accettare, da esclusi, la logica di un’inclusione che sottrae potere e diritti.
Questa Europa è nata male ed è cresciuta peggio. Soprattutto, non ha mai dato segno di voler cambiare rotta. Ultimamente, poi, è sembrata addirittura nell’impossibilità di farlo, ammesso e non concesso che potesse essere nelle intenzioni di chi ne regge il timone. Comè naturale, ora, si calcolano i danni che dalla Brexit verranno alla Ue e al Regno Unito, ma anche qui la logica di chi fa i conti è di parte. Non voler capire questo, e continuare parlare di ciò che il Regno Unito avrà da scontare con la Brexit, rimanda alla visione organicistica di una nazione: preoccuparsi che dal tavolo non cadano più le briciole per i poveracci perché ai commensali sono state ridotte le portate. Non diversamente da quando si pretenderebbe che un crollo in borsa debba affliggere anche chi non vi avesse investito neppure un soldo: le regole del gioco vogliono che anche lui abbia a subirne un danno, ma questo non mette in discussione le regole del gioco, solo la sua eventuale indifferenza all’ennesimo venerdì nero. Menenio Agrippa ci mostra l’angoscia del broker londinese invitandoci a farla nostra, del tutto ignaro che intanto si ingrossa il numero di chi non ha quasi più nulla da perdere.

venerdì 24 giugno 2016

giovedì 23 giugno 2016

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Stasera l’Italia ha giocato con l’Irlanda, dico bene? Non si trattava mica dellaltra Irlanda, quella del Nord, che insieme a Germania, Polonia e Ucraina era nel girone C, dico bene? Ed è corretto chiamare «britannici» gli irlandesi che non sono dellIrlanda del Nord? Ultima domanda: come si dice in gaelico «titolista di ansa.it, britannica sarà tua sorella»?

mercoledì 22 giugno 2016

Disclaimer

Non ho mai votato il M5S e molto probabilmente non lo voterò mai. Due, i motivi. Il primo è dordine generale: almeno da due anni sono giunto alla decisione di astenermi da ogni competizione elettorale retta da regole che costringano a votare il menopeggio contro il peggio, comè stato col Porcellum, come sarebbe con lItalicum, come sarebbe con qualsiasi altra legge elettorale che avesse come fine ultimo, mediato o immediato, la reductio a un bipolarismo che oggi non è più nei fatti, e che forse non lo è mai stato neanche in passato, se non come aspirazione di quanti hanno coltivato a tal punto il mito della governabilità da arrivare a perdere di vista il principio della rappresentatività. Il secondo motivo è prettamente specifico, ma conseguente al primo: il M5S è il menopeggio oggi presente nel quadro politico italiano, ma non mi piace affatto. Non mi piace la sua anima, populista e settaria. Non mi piace il suo programma, demagogico e velleitario. Non mi piace il suo profilo culturale, che porta leclettismo allo sproposito dellaccozzaglia, non già inseguendo il millantato affrancamento dalle tradizioni ideologiche del secolo passato, ma pigliando un po da ciascuna, e neanche il meglio. Non mi piace, soprattutto, la sua struttura, formalmente assemblearistica e sostanzialmente verticistica, dove a sollevare il problema non è neppure la contraddizione in termini tra dichiararsi movimento, addirittura comunità, ed essere di fatto un partito a conduzione padronale, ma il fatto che assemblearismo e verticismo sono degenerazioni della democrazia.
Paradossale che, trovandogli così gravi difetti, io ritenga che il M5S sia lo stesso il menopeggio? Se guardo al Pd di Renzi e al centrodestra di Berlusconi, Salvini e Meloni, non direi proprio. Senza alcuna intenzione di attenuare il giudizio appena espresso, direi al contrario che ultimamente il dato sia sempre più evidente, da un lato, per unulteriore involuzione del Pd e del centrodestra e, dallaltro, per unaccorta serie di ritocchi che, dopo la scomparsa di Casaleggio e il «passo a lato» di Grillo, hanno dato al M5S un volto meno impresentabile. Insomma, se ancora fossi affetto dalla perniciosa malattia che in mancanza di unofferta politica decente spinge a votare il menopeggio, e che nel 1994 mi spinse a votare Berlusconi contro Occhetto e nel 2013 Bersani contro Berlusconi, oggi voterei il M5S contro tutto il resto. Ringrazio il cielo per essere riuscito a liberarmene, perché sono sicuro che anche in questo caso sarei destinato a pentirmene. Più o meno amaramente, va’ a saperlo.
Con questo post mi auguro di aver dato risposta esauriente a quanti da qualche tempo mi accusano di essere diventato grillino, talvolta preoccupati, talvolta delusi, sempre amareggiati: non lo sono diventato, per quel che sono non potrei neanche volendo, e poi quel che sono basta e avanza per impedirmi anche il volerlo. Non sono grillino, non ho mai votato il M5S e non ho alcuna intenzione di votarlo. Ripeto: sono guarito. Non venitemi, però, a dire che meglio di un Di Maio o di un Di Battista ci sono un Renzi o un Salvini, che meglio di una Raggi o di una Appendino ci sono un Giachetti o un Fassino, che meglio di una Taverna c’è una Ravetto o una Picierno, sennò rischio una ricaduta. Prima, in ogni caso, vi mando a fare in culo.

martedì 21 giugno 2016

Nascere incendiari e diventare pompieri

Il risultato delle Amministrative? «Di sicuro non dice nulla sugli effetti politici che esso potrà avere», e poi, si sa, «in tutti i Paesi europei colpiti dalla crisi vanno bene le forze politiche anti-sistema, anti-establishment, con tratti populisti e un forte rifiuto della politica e dei partiti tradizionali» (Il Mattino, 21.6.2016). Così Massimo Adinolfi, filosofo, prova a minimizzare gli effetti della mazzata subìta dal Pd di Matteo Renzi.
Da consulente del governo, è compito che gli è dovuto, ci mancherebbe altro, il lavoro è lavoro, e poi, quando si ha prole, è sacrosanto arrotondare lo stipendio di filosofo, mestiere nel quale, probabilmente non caso, ha sempre eccelso chi non avesse bocche da sfamare. Nessuna obiezione al riguardo, dunque, tanto più che in questo caso è proprio il filosofo a rammentarci che, «più è alta la disoccupazione, in specie giovanile, e più crescono i consensi alle forze di opposizione», dacché possiamo trarre spiegazione del perché chi abbia due occupazioni sia più portato a esprimere il proprio consenso alle forze di governo.
Non guasterebbe, tuttavia, che anche i lettori de Il Mattino sapessero di questo arrotondare, giusto per essere messi in grado di potersi fare una propria idea, volta per volta, editoriale per editoriale, su dove finisca il filosofo e dove cominci il propagandista, neanche tanto per il rispetto dovuto al lettore, perché parliamo pur sempre del lettore de Il Mattino, quanto per quello dovuto alla filosofia.
A mo desempio, si prenda un altro passo di questo editoriale, stavolta concepito in forma di dialogo col direttore del giornale, tanto per darci limpressione che dal rimpallo di tutti quei «perfettamente daccordo con lei, caro professore, ma...» e quei «concordo su tutto, caro direttore, però...» stilli purissima maieutica. A un certo punto, per dar forza alla tesi che la vittoria del M5S sia da spiegare col premio che la plebe assegna a tutto ciò che sappia darsi forma di novità, Massimo Adinolfi cita Giacomo Leopardi: «nel dialogo sulla moda e sulla morte [Leopardi dice] che le due cose vanno insieme, e quello che oggi è di moda domani è già morto».
Sembrerebbe il non plus ultra a esergo di una riflessione sulla caducità delle cose mondane – roba, insomma, da filosofo a tempo pieno – e invece segue una versione appena un po più sofisticata di quella che Matteo Renzi si prepara a rifilare ai suoi, venerdì prossimo, distinguendo tra il nuovo (lui) e il nuovismo (il M5S): «Nessun Paese – dice Massimo Adinolfi – può divorare così rapidamente le sue classi dirigenti». Più elegante di un «nessuno rottami il rottamatore», ma il concetto è quello: se il mondo non riesce proprio a fermarsi dopo essere giunto nel punto dell’orbita che più mi piace, per lo meno rallenti.
La nuova moda, inoltre, pare abbia un difetto di fondo rispetto a quelle precedenti: «Siamo addirittura alle prese con l’idea che le élite, in politica, non ci devono proprio essere (ma chissà se quegli stessi che issano questa bandiera si accorgono che, in tutti gli altri mondi sociali ed economici, le élite ci sono, e come, e durano pure un bel po’)». Con quanto ne consegue per le consulenze, puttana Eva.
Direi che siamo dinanzi alla variante filosofica del «nascere incendiari e diventare pompieri»: panta rei, ok, ma a patto ch’io ci possa sguazzar dentro.

lunedì 20 giugno 2016

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Per le colpe di cui si è fin qui macchiato, la mazzata buscata ieri da Matteo Renzi è ancora poca cosa perché dal nostro animo possa liberarsi quellistintivo moto di compassione che di solito ci ispira chi perde, e che spesso il pudore ci consente di palesare solo nel rinunciare a maramaldeggiarlo: sarà il caso di rimandare a quando Matteo Renzi avrà perso tutto, e fin dora, perché il rispetto, se non la compassione, possa venir spontaneo, genuino oltre il ben che minimo sospetto di ipocrisia, ci auguriamo accada in modo estremamente doloroso, meglio se stroncandogli ogni possibilità di rivincita, ricacciandolo per sempre nel buco di culo dal quale è uscito. Non ci si fraintenda, dunque, se nello stendere questo preliminare di analisi dei risultati di queste Amministrative rinunceremo alla batteria di sberleffi che uno stronzo della sua specie meriterebbe: sbagliano quanti oggi lo ritengono ferito a morte – non cè da stupirsi, poi, che siano gli stessi, simpatizzanti o antipatizzanti, che ieri lo ritenevano immortale – e dunque ogni ciaone di ritorno sarebbe controproducente, prima che sprecato.
Prima di essere ciò che in modo schifosamente manifesto è sul piano politico, infatti, Matteo Renzi è un soggetto affetto da una grave forma di narcisismo maligno (cosa che ha ben poco a che vedere con laccezione che il narcisismo assume nel pour parler di chi è a digiuno di psicoanalisi) e dunque è assai più pericoloso adesso di quanto lo fosse prima, perché i tratti borderline, antisociali e paranoici, che nel narcisismo maligno vanno ad aggiungersi al cieco egocentrismo, alla drogata autostima, alla glaciale anaffettività (spesso ammantata di un sentimentalismo untuoso) che sono del narcisista normale, costituiscono una seria minaccia per chi il malato ritiene gli abbia arrecato offesa. Per non lasciarsi ingannare da ciò che allapparenza avrà probabilmente tutto laspetto della procedura riparativa approntata da un narcisista normale per curare una ferita, occorre aver ben chiaro che il narcisismo maligno implica di regola in tali circostanze un di più che giocoforza ha da restare nascosto a tutti: parlo di quella vendetta che, pur di dar ristoro a un Super-io che proietta sullambiente i precursori sadici non integrati (cfr. Otto Kernberg, Aggression in Personality Disorders and Perversions, 1992), non esita, se necessario, a sacrificare anche chi la programma e la mette in atto.
Perciò è da sconsigliare vivamente il porre eccessiva attenzione a ciò che Matteo Renzi mostrerà di voler mettere a frutto da questa sconfitta: se perfino rinunciasse ai maneggi con Verdini, concedesse qualcosa alla minoranza interna al Pd, rimettesse mano allItalicum, e su tutto questo arrivasse pure a spalmare una qualche forma di autocritica, non verrebbe meno il divorante bisogno di rivalsa che in soggetti profondamente disturbati come lui può dar luogo ad espedienti di impostura particolarmente efficaci, in grado di stornare dal fine ultimo, che è sempre distruttivo, col cominciare a celare la reale aggressività posta nei mezzi, che non di rado sanno simulare altro scopo. In fondo è questo che consente a tali soggetti di ottenere così spesso il successo negato a quanti li surclassano perché realmente in possesso di quelle qualità che l’impostura si limita a millantare: possono farne a meno quando diventano d’intralcio. 
Tutto questo valga per quanto Matteo Renzi dirà della sconfitta che ha subìto (lappuntamento è per venerdì prossimo alle 15.00, in apertura allannunciata Direzione del Pd: il breve comunicato ufficiale licenziato ieri sera non consente analisi approfondita): lattenzione non vada a cosa dirà, perché «una autoimmagine idealizzata e una ideologia egosintonica sadica, manipolata ai propri fini, razionalizzano il comportamento antisociale e possono coesistere con la capacità di lealtà verso i propri compagni» (op. cit.), ma alla scelta dei sostantivi, degli aggettivi e dei verbi che userà per dirlo, perché la parola dell’impostore ha sostanza solo in ciò che ne tradisce la forma.
Da quanto ha anticipato oggi, in particolar modo nella distinzione tra nuovo e nuovismo, ci è lecito azzardare una scommessa: proverà a convincere che il M5S ha saputo intercettare il consenso di un’opinione pubblica che vuole quel cambiamento che solo il Pd può assicurare, senza tuttavia essere riuscito finora ad accreditarsene l’esclusiva. Colpa di qualche errore di comunicazione, dirà, ma colpa soprattutto delle divisioni interne, agitate dalla componente che al nuovo, cioè a lui, oppone resistenza. 

venerdì 17 giugno 2016

«Costruzione chimica della persona umana»


Avete presente la petite fille savante che nella réclame di una nota compagnia aerea spiega al babbo che «la spinta è creata dalla propulsione» e che quella «è una questione di fisica», come daltronde lo sono pure «laerodinamica di un aereo» e la sua «capacità di carico»? Rispetto a Giuliano Ferrara, che nellennesima tirata contro la fecondazione assistita ci viene a parlare di «costruzione chimica della persona umana», la ragazzina è da Premio Nobel.
«Costruzione chimica della persona umana»: che cazzo vorrà dire? Gli avranno mica raccontato che un bambino venuto al mondo grazie alla fecondazione assistita è stato costruito in laboratorio atomo su atomo, molecola su molecola, e che semmai per costruirlo non sono stati utilizzati nemmeno idrogeno, ossigeno, azoto e carbonio di prima scelta, ma tutta roba sintetica?
Ecco come si va a finire quando al liceo si perde tempo a far casino insieme agli altri figli di papà della borghesia rossa romana e ci si perde quel poco di istruzione scientifica che ti passano i programmi ministeriali, per poi finire con quattro ciellini segaioli a leggiucchiare solo teologia, per giunta senza sostegno dei fondamentali. Per carità di Dio, regalategli un manualetto di biologia, così si chiarisce le idee su come, nella fecondazione assistita, la «costruzione chimica della persona umana», se proprio così la vogliamo chiamare, si ha in modo del tutto simile a quella che segue la fecondazione «naturale»

Il problema Croce, ancora


Devesserci asperrima tenzone per il titolo di «massimo specialista di Croce oggi in Italia», perché passa continuamente di mano: fino a due giorni fa, pareva saldamente in pugno a Corrado Ocone, oggi La Stampa, per la firma di Federico Vercellone, dice che è la volta di Paolo DAngelo, di cui fino a ieri – nostra culpa, nostra maxima culpa – ignoravamo pure lesistenza. Per i tipi di Quodlibet, il nuovo «massimo specialista di Croce oggi in Italia» manda in libreria un volume che sintitola Il problema Croce, che il quotidiano torinese si precipita a recensire, ed è qui che scopriamo che il problema sussiste, non tanto perché qualcuno sia infine capace di dirci a cosa serva più un sistema filosofico che faceva già acqua quando Croce era in vita, quanto perché non viene meno la lena di chi tenta disperatamente di tappare i mille buchi.
«Abbiamo a che fare – leggiamo – con il nume che ha dominato la cultura italiana per decenni, che fatica ora a profilarsi nella nostra memoria culturale come quel grande olimpico classico che fu invece in vita». Si tratta di un grazioso bouquet di eufemismi: Croce era un camorrista che faceva e disfaceva carriere muovendo il solo mignolo, e lunico criterio a guidarlo era la venerazione dimostrata nei suoi confronti. Doveva essere assoluta, incapace di concepire critica, anche se da lui intravista solo in trasparenza. In quanto alla fatica a profilarsi oggi nella nostra memoria culturale eccetera, vorrei vedere: tutta la naftalina in cui lhanno amorevolmente tenuto le figlie è finita, lo Stato non sgancia più un soldo.
«Il suo sistema appare obsoleto e arretrato il suo atteggiamento culturale anche in forza del polemico atteggiamento nei confronti di discipline come la sociologia e la psicoanalisi». Tutto proprio come «appare»: di fronte a Croce perfino Bergson e Comte sembrano moderni. Che resta? «Alla base della ricezione attuale di Croce resta in fondo l’Estetica del 1902», nella quale non si fa mistero che «Croce liquida, con un quasi oltraggioso colpo di spugna, tutti le grandi categorie che avevano pervaso la tradizione. A fronte del dominio assoluto della bellezza da lui sostenuta, venivano messi da parte il comico, il sublime, il patetico, il tragico, l’umoristico, e poi la partizione delle arti e i loro principi specifici. E il critico, privato dei ferri del mestiere, sembrava di colpo indotto ad affidarsi alla sola intuizione per esercitare il proprio mestiere». Cè di più, e non è carino ometterlo: lintuizione unicamente valida a stabilire dove vi fosse bellezza assoluta, e dove no, doveva essere la sua.
Per evitare che tutte le copie vadano vendute appena messe sugli scaffali, domani correremo in libreria ad acquistare il volume di Paolo DAngelo, poi vedremo se lì dentro cè qualcosaltro a salvare Croce oltre al solito «antifascista che seppe dialogare con i vertici della cultura europea in tempi quanto mai difficili, e resistere, da grande e onesto aristocratico, al conformismo della società italiana dell’epoca», lipsanoteca che conserva i resti di uno che sul fascismo espresse ottimi giudizi fino al 1925, e a cui il fascismo consentì di scrivere e pubblicare mentre ad altri antifascisti non consentì neppure di respirare.

mercoledì 15 giugno 2016

«Il gioco più bello del mondo»

Premessa
Di calcio capisco poco o niente, quindi la domanda che qui porrò non è retorica, ma mossa da genuina ignoranza. Diciamo che non sono mai stato in grado di penetrare la logica che informa il mondo del calcio, sicché in certe occasioni – quanto segue circostanzia una di queste – sono costretto a chieder lumi a chi dentro ci sguazza, e conosce a memoria la formazione di tutte le squadre di serie A, B e C aggiornate agli ultimi movimenti del mercato con allegato listino dei prezzi di acquisto e di ingaggio, sa distinguere il calciatore X dal calciatore Y dal dettaglio di un tatuaggio in un particolare di fermo-immagine ancorché sfocato, a richiesta sa fornire informazioni su tutti i calendari degli incontri di campionato e di questa o quella coppa, per non parlare della piena padronanza dellidioletto indispensabile a discutere coi suoi pari. Sono certo che fra i lettori di questo blog non manchino tali esperti, probabilmente sono quelli che, quando cito Perelman e Olbrechts-Tyteca o mi intrattengo sul réferé législatif, nella pagina dei commenti mi lasciano un «ma di che cazzo stai a parla’?»: è ad essi che mi rivolgo.

Questione
Leggo su gazzetta.it quanto segue: «Vincendo il proprio girone, gli azzurri guadagnano un giorno di riposo in più (questo è certo) e verosimilmente affronteranno agli ottavi chi tra Croazia e Spagna, le due big del gruppo D che hanno già fatto festa al debutto, chiuderà al secondo posto. Se invece Conte finirà secondo, si apre un altro scenario: la prima avversaria nella fase a eliminazione diretta sarebbe la vincente del gruppo F, quello delle sorprese, dove le favorite Portogallo e Austria hanno già steccato e al momento cè in testa lUngheria. E qui scatta la provocazione: siamo proprio sicuri che arrivare primi conviene? [...] Facciamo un ulteriore passo avanti: la vittoria del girone ci porta dal lato “sbagliato” del tabellone, proiettandoci (teoricamente) verso un incrocio ai quarti con la Germania (e in semifinale con la Francia padrona di casa). Arrivando secondi atterriamo sul lato morbido, perché (sempre in linea del tutto teorica) lInghilterra sarebbe eventualmente la squadra più forte da affrontare».

Domanda
Sarebbe questo, «il gioco più bello del mondo»

Ieri, oggi e domani

Ieri
Ricordate Anders Breivik? Il 22 luglio 2011 si armò di tutto punto, piazzò alcuni ordigni nei pressi di alcune sedi del governo, a Oslo, li fece esplodere, poi si diresse a Utoya, isoletta in mezzo al lago Tyrifjorden, dov’era in corso un seminario dei giovani del Partito laburista norvegese, e cominciò a sparare: 77 morti in tutto. All’inizio non si capì bene chi avesse combinato quel macello, ma Il Foglio pensò di poter andare a colpo sicuro e il giorno dopo, in prima pagina, ci disse che la strage era islamista. 


Quando fu chiarò che al Qaida non centrasse niente, Il Foglio accusò un po di imbarazzo, che divenne pesantuccio quando lautore della strage si dichiarò «cultural conservative, revolutionary conservative, Vienna school of thought, economically liberal, christian, protestant but I support a reformation of protestantism leading to it being absorbed by catholicism», e ovviamente anti-multiculturalista e anti-islamista: un fogliante, praticamente, gli mancava solo qualche pelo del culo di Berlusconi incastrato tra gli incisivi. Allora Il Foglio pensò bene di presentarcelo come un mattocchio: «semplicemente un folle», «un cretino apocalittico»Anche qui lazzardo buttò male: le perizie psichiatriche nel corso del processo chiarirono che fosse sempre stato capace di intendere e di volere, solo un pochino narcisista. Più lucido di Ferrara, insomma.
Non mancò neppure qualche voce, sul simpatico giornalino, che per coprire di segatura la professione di fede cristiana di Breivik cercò di spacciarlo come neonazista. Non aveva avuto la pazienza di leggere con attenzione le 1.518 pagine del suo manifesto: «Whenever someone asks if I am a national socialist I am deeply offended. If there is one historical figure and past Germanic leader I hate it is Adolf Hitler. If I could travel in a time-machine to Berlin in 1933, I would be the first person to go with the purpose of killing him» (pag. 1.162).

Oggi
Perché riandare al 2011? Perché ieri, riguardo alla strage consumata da Omar Mateen a Orlando, Ferrara ci assicurava dalla prima pagina de Il Foglio che «l’argomento dellomofobia è farlocco», invitandoci a evitare «depistaggi antropologici»: «La paura del sesso e del corpo libero e indifferenziato c’è, ma è una paura tra le paure eguali (la donna emancipata, la lettura critica dei testi, la libertà di culto e di coscienza, le vignette libertine, le vestigia della storia umana preislamica) suscitate da un’idea di profetismo assolutista e intimidatorio che considera diverso e apostata tutto quel che sta fuori dal confine della coscienza religiosa maomettana». Unomofobia tutta contestuale al fanatismo islamista, insomma.


Neanche il tempo di buttare Il Foglio nella spazzatura che già il web ci aggiornava sulla personalità dellautore della strage: 


Omofobo e islamista, vabbe’, ma gay e islamista? C’è da attendersi una sconfessione da parte dell’Isis: «Pardon, come non detto: non era dei nostri». Ma poi: gay e omofobo, è possibile? Possibile, possibile.


Domani
Eccellente alternativa a un’eventuale legge che neghi agli omofobi il diritto di parola: prima ti sottoponi al test del dottor Adams et coll., poi puoi dire quel che vuoi.