Eviterei di scomodare i massimi sistemi, limitandomi a far presente al titolare del Ministero dello sviluppo economico che il richiamo al principio di riservatezza per opporsi a che siano resi noti i nomi degli insolventi che hanno portato al crac il Monte dei Paschi di Siena, al quale si è posto rimedio con una ventina di miliardi presi dalle tasche dei contribuenti (a quei quattro sfessati del M5S, che ne chiedono diciassette per il reddito di cittadinanza, si è soliti rispondere che è una proposta campata in aria, perché è impossibile trovare la copertura), confligge un pochetto col principio della trasparenza nell’impiego delle risorse pubbliche: perché chi si addossa l’onere di colmare una voragine non avrebbe diritto di sapere chi l’ha scavata? A scavarla sarebbe stato chi ha concesso i prestiti, non chi li ha avuti e non li ha restituiti, così argomenta il signor ministro, e senza dubbio questo è vero, ma giacché è altrettanto vero che il denaro non veniva prestato a tutti (a quanti poveri cristi sarà stato negato un mutuo per la prima casa o per risistemare la bottega?) che male c’è a cercare di farsi un’idea su quale tipo di clientela riuscisse invece a farselo prestare, e come, e perché? Se la colpa è di chi concedeva il prestito, non ha alcuna importanza sapere perché lo ha concesso a Caio, e a Tizio no? Pare evidente che sia stato prestato denaro, e tanto, a chi non avesse modo di poter offrire congrue garanzie di solvibilità: perché non deve esser dato sapere di quali strumenti potesse essere in possesso per renderle superflue al momento della richiesta?
lunedì 16 gennaio 2017
[...]
domenica 15 gennaio 2017
Medicina fai-da-te
Vi
eravate illusi che ce lo fossimo tolto per sempre dai coglioni? Non
prendetela come un’offesa, è una
diagnosi (e scusate la brutalità, ma per dirlo non c’è
altro modo):
non avete speranze, siete allo stadio terminale della fessaggine.
Condizione
altrettanto grave, ancorché con prognosi meno severa, se vi eravate
illusi che ce lo fossimo tolto dai coglioni almeno per qualche tempo:
siete seriamente fessi, ma ricovero d’urgenza,
adeguata terapia e un pizzico di fortuna vi danno ancora il lumicino
di qualche speranza, salvo complicazioni. Qui, però, occorre far opportuna distinzione per gradi. Pensavate saltasse il prossimo congresso del partito o addirittura le prossime elezioni politiche? La terapia d’attacco sarà giocoforza assai pesante, quella di mantenimento estremamente lunga. Contavate non si rifacesse vivo almeno fino al primo dei due appuntamenti? Trattamento meno duro, ma comunque impegnativo. Avevate scommesso su marzo o aprile, con un rientro tipo «cervo a primavera»? Dopo alcuni mesi di degenza, potreste sperare di avere il consenso alle cure domiciliari.
Se
invece pensavate che la mazzata del 4 dicembre gli fosse almeno
servita da lezione, la cosa è assai meno grave, ma sia chiaro che
sempre fessi siete, sicché sarebbe da sconsiderati rifiutare le
dovute cure e il lungo ma indispensabile trattamento riabilitativo consistente in ripetuti cicli di «star sotto» al gioco dello «schiaffo del soldato».
Ultimo
quadro clinico: sapevate esattamente, eventualmente
già nel
mentre glielo sentivate dire la prima volta, quanto valesse quel «se
perdo il referendum, non è soltanto che vado a casa, ma smetto di
far politica» (12.1.2016); dai coglioni non ha mai smesso di salirvi
il presentimento che non avreste dovuto aspettare troppo per
rivedercelo sopra, e questo eventualmente già
nel mentre lo sentivate dire che, «quando
uno perde, non fa finta di nulla, andandosene a letto e sperando che
passi velocemente la nottata» (4.12.2016); all’annuncio
che si stesse
preparando a farlo già per metà gennaio,
poi, non vi siete illusi che quel «cambieremo
strategia» (24.12.2016) potesse significare più di tanto; tuttavia
avete pensato – e qui sta la fessaggine, seppur in forma assai
attenuata rispetto a quella dei tre quadri clinici sopra descritti –
che sulla scena si sarebbe visto un Matteo Renzi almeno un po’
diverso da
quello già tristemente noto: stessa faccia di cazzo, naturalmente, e
stesso narcisismo, stessa irresistibile compulsione a mentire e a
manipolare, ma almeno sotto un velo di finta bonomia, di falsa
modestia, di ipocrita umiltà.
Bene, con l’intervista
concessa a Ezio Mauro (la Repubblica, 15.1.2017), che mostra un Matteo
Renzi in tutto simile – ma proprio in tutto – a quello che era
strasicuro di vincere il referendum del 4 dicembre, a ogni fesso è offerto un prezioso strumento
di autodiagnosi con l’opportunità di dare alla propria fessaggine il corretto inquadramento clinico. Uno dei pochi casi in cui la medicina fai-da-te è caldamente consigliata.
venerdì 13 gennaio 2017
mercoledì 11 gennaio 2017
Corrispondenze
Caro
Luigi, ti scrivo privatamente per un semplice motivo di comodità
nella gestione del testo; come ogni nostra precedente corrispondenza,
non ho alcuna obiezione a che tu ne faccia l'uso pubblico che tu
possa eventualmente preferire.
Lo
faccio perché due dei tuoi ultimi post (Verità e post-verità,
del 2 gennaio e Prevedibile qualche problemino, del 9) mi pare
sollevino questioni che, ancorché assai significative di per sé,
sarebbero ben poco cogenti all'occasione che le ha generate. Trovo
infatti che il tema delle bufale, o fattoidi, sia del tutto altro
rispetto alle solenni tematiche aletologiche da te evocate: non ne
va, infatti, dello statuto della verità e della sua conoscibilità,
con tutte le inevitabili implicazioni ontologiche; problema che, lo
dico en passant, si pone inevitabilmente per ogni verità a priori,
anche se ovviamente in termini diversi, sia essa conosciuta per fede
o per deduzione.
Per
meglio dire, è chiaro che le verità di fede implicano di necessità
la verità di un quadro onto-teo-logico ben definito, con tutti gli
inevitabili trattini, ma sappiamo anche che la verità puramente
logica della corretta deduzione di un assioma non è affatto priva di
ambiguità epistemologiche, gnoseologiche e, ancora una volta,
ontologiche (qual è lo statuto esistenziale di una proposizione
analitica? in che modo la sua irriducibilità a qualsiasi esperienza
può comunque trovare accesso alla sfera empirica, tanto da essere
compresa e persino evidente?). Ma tutto ciò mi pare, semplicemente,
fuor di luogo, proprio perché stiamo parlando di una specie forse
minore di verità, senz'altro di una specie che attiene
specificamente ed esclusivamente ai dati di fatto, e che è
accessibile attraverso metodi ben sperimentati di verifica e
falsificazione. Proprio per questo, si tratta di una tipologia di
proposizioni perfettamente coincidente con la serie completa del suo
repertorio fattuale, dunque perfettamente identificabile attraverso
semplici esempi, come questo
o
quest'altro.
Insomma, le bufale sono semplicemente informazioni dimostrabilmente
false (entro i semplici limiti delle verità di fatto e secondo i
metodi consuetamente accettati come buone pratiche elementari
dell'informazione affidabile e corretta), che vengono messe in
circolazione attraverso i media, siano essi quelli tradizionali di
tipo "verticale" o le (relativamente) nuove reti sociali di
tipo "orizzontale". L'esempio classico mi pare quello dei
Protocolli
dei Savi di Sion,
la cui falsità era stata ampiamente dimostrata fin dal 1921, ma che
hanno continuato a esser presi e spacciati per veri, e continuano
ancora oggi.
Anche
la nozione di post-verità mi pare abbastanza pacifica, almeno per
quanto riguarda il suo significato proprio: si tratta dell'uso
continuativo di bufale per costruire una rappresentazione
approssimativamente coerente della realtà, a cui fare riferimento
per ottenere consensi e per trasferire al suo interno il dibattito
politico, con il risultato di dichiarare irriducibilmente nemico, se
non manipolatore a sua volta della verità, chi rifiuta questa
rappresentazione. Anche in questo caso, mi pare che l'esempio dei
Protocolli sia sufficientemente cogente.
Tutto
questo per dire che la questione non riguarda la semantica ma la
pragmatica, non lo statuto della verità ma le modalità con cui le
informazioni entrano nel circuito del discorso pubblico e orientano
la formazione della volontà politica. Trovo che questo sia anche il
terreno su cui affrontare la questione, eminentemente politica
anch'essa, dell'opportunità o meno di un'autorità che verifichi la
validità delle informazioni; soprattutto, trovo che sia su questo
terreno che vada cercata la risposta alla prima domanda che sollevi
in Prevedibile qualche problemino (perché questa necessità
non è avvertita anche per quelle che sono sempre circolate e tuttora
circolano in tv e sulla stampa, né mai è stata avvertita in
passato, quando il web non esisteva [...] ? [...] perché questa
necessità è avvertita solo adesso che il web è diventato un canale
informativo alternativo a tv e stampa?): lo statuto specifico delle
bufale sul web andrebbe infatti cercato, a mio parere, nella loro
specifica efficacia nella formazione di quel costrutto che abbiamo
appena definito post-verità. In altre parole: sappiamo bene cosa
potrebbe succedere al lasciar libero corso ai Protocolli sulla
stampa, e ci siamo dotati di strumenti legislativi abbastanza
efficaci per contrastare una simile eventualità, ma le
caratteristiche della loro circolazione sul web richiedono forse che
le eventuali misure di contrasto, per essere efficaci, debbano subire
quanto meno una ricalibratura.
Intendiamoci,
anch'io sono contrario a che se ne occupi una qualche autorità
costituita e, si
parva licet,
ho provato a fornirne qualche ragione qui,
ma ciò non credo possa togliere nulla alla centralità della
questione delle informazioni, della loro qualità, dei loro canali di
diffusione e delle loro modalità di fruizione, all'interno del
discorso pubblico. Ritengo comunque che non si faccia un gran
servizio. Ritengo, insomma, che si tratti di fact-checking e non di
aletologia, e che non si faccia gran servizio a confondere
deontologia e ontologia. Ma su questo sono convinto che saprai
illuminarmi meglio.
Con
immutata stima,
Nane
Cantatore
Caro Nane, quando la discussione prende a oggetto un termine ambiguo, io non vedo miglior modo di evitare fraintendimenti che accordarsi sul significato che gli si intende dare. Ti dirò di più: coltivo l'illusione che basti trovare questo accordo, procedendo con l'analizzare la natura del nesso tra significante e significato, e questo è sempre possibile, per poter almeno chiarire a dovere le proprie posizioni, che non è affatto sufficiente a ricomporle, rivelandone la solidità argomentativa, per quanta ve n'è. Non m'è parso di consumarmi in solenni tematiche aletologiche: direi che col primo dei post citati mi sono intrattenuto a riflettere sul termine post-verità che, avendo necessariamente qualche relazione con quello di verità, credo meritasse un minimo di attenzione sul piano semantico; nel secondo, invece, ho riflettuto sul soggetto che da più parti viene evocato come superiore autorità cui affidare il compito di stabilire ciò che è vero e ciò che è falso. Ora, tu mi fai notare che il problema non è semantico, ma tutto politico, e che il falso in questione è dimostrabilmente tale entro i semplici limiti delle verità di fatto, mentre non mi è del tutto chiaro, e forse non lo è neppure a te, se sia davvero possibile una superiore autorità in grado di bonificare il web dalle bufale. Il problema è che io ritengo estremamente importante definire questi limiti, che non mi paiono poi così ben definiti, sicché l'esempio dei Protocolli dei Savi di Sion può tornar buono tutt'al più a dimostrare che questi limiti vadano definiti, non già che essi già lo siano. L'esistenza di Babbo Natale, per esempio, casca di qua o di là da questi limiti? Più in generale, direi sia meglio dare libertà di pascolo alle bufale, e libertà di caccia. Poi, sì, diamo al diritto penale la sua parte, caso per caso.
* * *
Caro
Luigi, evidentemente ho attribuito a te lo stesso mio vizio di
buttarla in filosofia, dal quale sono tanto affetto che se qualcuno
mi dice, bontà sua, di volermi bene, mi chiedo subito se sia bene
morale o metafisico, e in tal caso se da intendersi come perfezione
della sostanza o pienezza degli attributi, e se questa perfezione
vada intesa come vicinanza al bene supremo o non piuttosto come
entelechia dell'ente rispetto a quanto esso ha di più proprio.
Ma,
visto che stiamo ragionando su termini che si comprendano in modo
adeguato e condiviso, propongo questa definizione di bufala, che mi
pare stia del tutto all'interno delle verità di fatto e della loro
verificabilità empirica: "bufala è la notizia (scil.
informazione circa un nuovo stato di fatto o un cambiamento
significativo di uno stato di fatto preesistente) dimostrabilmente
(con strumenti e fonti ordinariamente accessibili) falsa, spacciata
per vera attraverso canali di comunicazione fruibili da un pubblico
eccedente la sfera dei contatti diretti del suo emittente".
L'ultima puntualizzazione distingue la bufala dal pettegolezzo o
dalla bugia, mentre quella sulla dimostrabilità con mezzi ordinari
serve a circoscriverne la specie, separando i fatti dalle opinioni
(se dico che la scoperta di una nuova specie di toporagno è una
prova dell'onnipotenza divina dico una cazzata, ma non una bufala) e
rendendo possibile l'attribuzione di responsabilità (se la bufala è
falsificabile con mezzi ordinari, si può presumere il dolo da parte
del suo autore).
Da
questo punto di vista, l'esempio dei Protocolli è calzante, anche se
sono d'accordo con te che si tratta di un caso-limite: si dimostra
falso che vi sia stata una riunione dei Savi di Sion dal momento che
si è dimostrata falsa la documentazione allegata, mentre che vi sia
qualcuno che complotta, con maggiore o minor successo, resta
un'opinione; a questa opinione, confutando la bufala, si toglie forza
persuasiva, gettando discredito su chi, per sostenerla, è disposto a
fabbricare prove false. Mi sembra che così si possa ottenere un buon
esempio di quella che si intende come post-verità (temine orribile e
fuorviante, concordo): l'uso sistematico di bufale per accreditare
tesi prive di fondamento in stati di fatto effettivamente
documentabili.
Ora,
posto che una definizione, che penso ci troverebbe concordi, di
democrazia sia quella di "metodo di governo orientato dai
convincimenti, liberamente formati, della maggior parte dei
cittadini". e che per la libera formazione di questi
convincimenti la qualità delle informazioni sia una risorsa
essenziale, credo ci si possa porre queste domande:
a. Le
bufale rappresentano, in quanto tali, una possibile interferenza in
questa libera formazione?
b.
Esiste oggi una diffusione particolarmente significativa delle
bufale, anche per effetto delle particolarità delle reti sociali,
che ne favoriscono la diffusione e ne rendono particolarmente
difficile la confutazione?
c.
Esistono dei soggetti politici che traggono particolare vantaggio
dalla circolazione delle bufale?
d.
Esiste un interesse generale della collettività a limitare la
circolazione delle bufale, e più in generale a far sì che la
formazione dei convincimenti sia effettivamente libera?
e.
Quali sono le forme di contrasto delle bufale che la collettività ha
interesse a promuovere, anche tenendo conto dei costi per la libertà
e della democrazia di eventuali forme di censura o di limitazione
della circolazione di informazioni?
Penso
che alle domande da a) a d) si possa rispondere affermativamente
senza troppa difficoltà, anche se tutte meritano approfondimento e
riflessione, per capire lo stato reale della società e delle sue
dinamiche. Come spesso accade, i problemi sorgono quando si arriva
come: sono dell'opinione, per una molteplicità di ragioni che vorrei
esporre pianamente in un'altra occasione, che il progetto di una
sorta di ufficio pubblico per il fact-checking sia sostanzialmente
un'idiozia, ma credo anche che la caccia libera da te proposta, e da
molti praticata, non sia sufficiente, per quanto lodevole. Insomma,
il problema della democrazia è che gli ignoranti contribuiscono alla
decisione, e che proprio loro siano, per una varietà di ragioni che
sarebbe opportuno indagare, quelli più facilmente suggestionabili
dalle bufale, e paradossalmente i meno permeabili alla loro
confutazione. Ora, se è vero che l'imposizione dell'acculturazione
ai bestioni è spesso stata foriera di disgrazie, credo sia
altrettanto vero che subire il dominio di bestioni manipolati dalle
bufale sia una condizione altrettanto disgraziata.
Ecco,
mi piacerebbe aprire un dibattito serio su questi temi, che mi
sembrano definiti con una certa chiarezza. Che ne pensi?
A
presto,
Nane
Cantatore
Caro
Nane, il mio vizio è un altro: io la butto sempre in glottologia,
filologia, linguistica, retorica e psicologia. Direi che mi interessa
la parola, con tutto ciò che le sta sotto e dietro, ma anche sopra e
davanti, e naturalmente a lato. Se mi prometti di non ridermi in
faccia, ti confesso che già da qualche tempo la mia lettura
preferita è quella dei dizionari, soprattutto quelli etimologici,
quelli analogici, quelli dei sinonimi e dei contrari. Diciamo che,
dopo aver speso tanto tempo sulla proposizione e sulla logica che la
regge, sono passato ai moventi che stanno dietro la scelta dei
termini che vanno a comporla. Così – faccio un esempio – leggo
"evidentemente ho attribuito a te lo stesso mio vizio di
buttarla in filosofia", e mi si pone la questione:
"evidentemente" sta per "innegabilmente" o per "a
quanto pare"? Ed è "evidenza" che si disvela per
trasparenza, per luminosità o per limpidezza? Non c'è bisogno che
mi soffermi troppo sulle differenze perché, invece di "ti ho
ascritto" o "ti ho addossato", hai scelto "ti ho
attribuito", e "attribuire" viene da "ad-tribuere",
che rimanda a "tribus": tra appartenenti alla stessa tribù
non c'è bisogno di troppe spiegazioni, ci si intende pure con un
cenno. Scherzo, naturalmente, facevo autoironia sul vizio. Ma veniamo
a noi. Non ho obiezioni da sollevare alla definizione che dai di
"bufala", e nemmeno al fatto che, mettendo "post-verità"
da parte, si eviti la discussione sul perché si sia voluto coniare
proprio un neologismo del genere per qualcosa che è "solo"
una "bufala". In realtà, a me premeva proprio questo
problema, perché ammetterai che tra "fatto" e "verità"
ce ne corre. Ma fa niente, saltiamo la "semantica" e
cadiamo a pie' pari nella "politica". Rispondo sì alle
domande al capo a., b., c. e d., ma su quella al capo e. rispondo no,
e per una semplicissima ragione: una democrazia pedagogica –
permettimi di condensare in questa espressione l'esigenza di censura
che tu senti al fine di evitare "il dominio di bestioni
manipolati dalle bufale" – è stretta parente della demagogia,
come è evidente col togliere a
"democrazia pedagogica", come quando si semplificano le
equazioni, "peda-" e "-crazia".
La "verità"
– ma anche soltanto ciò che può spremersi dal più scientifico
fact-checking – non si può imporre: deve vincere per consenso. Ti
abbraccio.
* * *
Mi
pare di non "messo da parte" la nozione di post-verità, ma
di averla corsivamente definita come "l'uso sistematico di
bufale per accreditare tesi prive di fondamento in stati di fatto
effettivamente documentabili": pur non amando più di te il
termine, credo che il concetto vada salvato, in quanto puntualizza
quel carattere sistematico che tende, come si è visto qualche volta
nella storia, a farsi totalitario.
Non
voglio ricadere nell'ennesima reductio ad Hitlerum, ma
l'esempio delle innumeri bufale sistematicamente fattesi propaganda
per creare consenso all'ascesa al potere di chi ne faceva uso, e per
legittimarne le pratiche una volta realizzata quest'ascesa, questo
esempio insomma indica ciò che segna il salto di qualità dai
Protocolli a Goebbels; salto di qualità che si realizza in un
continuum coerente, anche se non è certo necessario che si produca.
Eccoci
così al punto saliente: l'esercizio impunito e continuativo delle
bufale avvelena l'aria e intorbida le già poco chiare acque della
società democratica, se non altro perché fornisce un vantaggio
sleale a chi ne fa uso, e perché orienta la formazione della volontà
popolare su questioni false o per lo meno impropriamente formate, con
il risultato di sottrarre alla sfera pubblica ciò che maggiormente
le dovrebbe appartenere, e cioè la deliberazione sulle questioni di
maggior momento per la collettività.
Lo
ribadisco: l'authority anti-bufale sarebbe, nel migliore dei casi,
inutile, e conterrebbe comunque un germe autoritario e censorio
altrettanto esiziale del male a cui dovrebbe porre rimedio. Senza
contare che uno strumento di questo genere avrebbe un altro vizio di
fondo: come espressione di un'autorità centralizzata e investita di
un qualche potere, non avrebbe nessuna credibilità di fronte a
notizie che traggono la loro forza proprio dall'essere condivise tra
conoscenti (in modo "orizzontale", come si ama dire tra i
saputelli del web) ed estranee alle fonti informative ufficiali e
consolidate.
La mia
domanda, insomma, è sul "come": esclusa, per i motivi
appena detti e per molti altri ancora, la famosa autorità, mi pare
che il volenteroso e meritorio esercizio di debunking svolto da
numerosi siti specializzati e da tanti di noi non sia, nonostante
tutto, all'altezza del compito. Dici di osteggiare l'idea di una
"democrazia pedagogica", e ci mancherebbe altro; anche se
il sistema scolastico, più o meno ogni istituzione culturale e, in
fondo, le stesse leggi hanno comunque una centrale funzione
pedagogica, se è vero, come penso, che siano le buone leggi a fare
buoni i cittadini, e non viceversa.
Per
meglio dire, penso che sia valido nella sostanza il celebre detto
kantiano sull'Illuminismo come uscita dell'uomo da uno stato di
minorità in cui è caduto per sua colpa, e che il riscatto da questa
colpa sia faccenda non semplice, non comoda, non definitiva e forse
non sempre priva di forzature e imposizioni. Con questo non voglio
ovviamente sostenere che debbano essere le istituzioni a orientare il
pensiero dei cittadini, ma che il dibattito pubblico, se non vuole
trasformarsi in mero agone di contrapposte propagande e fanfaluche,
debba comunque svolgersi secondo alcune regole argomentative. Come
farlo, ripeto, è la questione.
Insomma,
il bestione di scarso intelletto e robusta fantasia, capace di
credere alle favole che egli stesso inventa, questo bestione vichiano
è la minaccia sempre incombente di un regresso nello stato di
minorità, e la colpa di questo regresso sta tutta nel suo voler
esser bestia, nel sostituire la fede, l'illusione, la credenza e la
mentalità gregaria alla libera e faticosa disamina delle
informazioni e dei dati: come fare, quando gli istinti del bestione
vengono assecondati con estrema efficacia?
Azzardo
una possibile risposta: stabilire che chiunque pubblichi qualcosa su
qualsiasi piattaforma, tradizionale o digitale, se ne assume la
responsabilità. Ogni opinione sia lecita, ma le false notizie siano
punite, secondo quando vale oggi per le fattispecie di diffamazione e
di calunnia a mezzo stampa, e sia riconoscibile, sempre e comunque,
chi le pubblica. Naturalmente, non sia ammessa alcuna forma di
ignoranza o presunzione di buona fede: chi pubblica esercita un
proprio diritto, e se ne assume ogni responsabilità. Corollario di
questo dispositivo, che di fatto renderebbe ognuno giornalista, è
che cesserebbe ogni obbligo di iscrizione all'ordine per autorizzare
la pubblicazione, con il risultato ulteriore di dare un utile
calcetto a una inutile corporazione. Forse potrebbe essere un buon
punto di partenza.
Un
abbraccio,
Nane
Non
sono disposto a "salvare" il termine post-verità: anche
quando la creazione e diffusione di "bufale" sono
funzionali a un piano "totalitario", come nell'esempio che
riprendi, credo sia pericoloso tirare in ballo un termine che, pur
implicandone la negazione, anzi il superamento, chiami in gioco la
verità, che puzza di assoluto. È tentazione forte, te lo concedo,
ma implica lo stesso pericolo che scorgo nel definire il nazismo
"Male assoluto" (dove peraltro non si capisce che senso
abbia la maiuscola, stante quell'aggettivo), quello di trattare cosa
tutta immanente come incarnazione di un trascendente, rendendola
pervertitamente fascinosa. Il nazisti erano criminali, e i loro
crimini era estremamente gravi – stop. Convengo, invece, con ciò
che qui ribadisci riguardo ai pericoli d'inquinamento che le "bufale"
comportano nella formazione dell'opinione pubblica, con quanto ne
consegue per la democrazia, d'altronde avevo già risposto sì alle
prime quattro delle cinque domande che ponevi nel tuo precedente
intervento, e riaccolgo con piacere il tuo convenire sul fatto che
"l'authority anti-bufale sarebbe, nel migliore dei casi,
inutile, e conterrebbe comunque un germe autoritario e censorio
altrettanto esiziale del male a cui dovrebbe porre rimedio". In
quanto al da farsi, penso che gli strumenti non manchino, e non mi
riferisco solo al "volenteroso e meritorio esercizio di
debunking svolto da numerosi siti specializzati e da tanti di noi".
Penso, ad esempio, all'art. 656 del nostro codice penale, che recita:
"Chiunque pubblica o diffonde notizie false, esagerate o
tendenziose, per le quali possa essere turbato l'ordine pubblico, è
punito, se il fatto non costituisce più grave reato, con l'arresto
fino a tre mesi o con l'ammenda fino a euro 309". Oltre che
inasprendo le pene, potrebbe essere potenziato col contemplare, come
bene pubblico da preservare, non solo l'ordine, ma anche la corretta
formazione dell'opinione: a giudicare sarebbe la magistratura, ma con
un'autorità che non le sarebbe attribuita dal potere esecutivo. Come
compromesso ti va bene? Per quanto attiene al web – e qui ribadisco
un'opinione più volte espressa su queste pagine – è venuto il
momento di bilanciare la libertà con la responsabilità:
inammissibile l'anonimato.
* * *
Continuo
il carteggio, soltanto per dirimere l'ultimo equivoco, oltre che per
il piacere che mi deriva dal nostro scambio di plaisanteries. Come
notato con efficace sintesi dal commento di un anonimo, per me esiste
una differenza sostanziale tra la singola bufala e la produzione
sistematica di innumeri bufale: è per indicare questa seconda
fattispecie che mi pare si faccia ricorso al lemma di post-verità,
sulla cui inadeguatezza, ambiguità e generale improprietà concordo.
Propongo di utilizzare, in sua vece, quello di bufalificio, che ha
una bella assonanza con veneficio, o, se preferisci, di associazione
bufalistica, che ha se non altro il merito di riprendere la
differenza tra l'estorsione perpetrato da un balordo ai danni di un
negoziante e l'organizzazione di un racket; ovvio che si tratta di
scelte lessicali provvisorie, in attesa di soluzioni migliori, ma già
preferibili a quella attuale.
Una
sola cosa vorrei aggiungere, a difesa delle intenzioni che mi paiono
sottostare al concetto di post-verità: nella sua assonanza a quello
di post-moderno (e sono d'accordo che non basta un'assonanza a fare
un buon etimo), indicano una parentela di fondo nell'idea, questa sì
puramente postmoderna, di narrazione (recit) come costituzione
della realtà, in opposizione ai grandi costrutti razionali,
scientifici e sistematici, della modernità: se ognuno abita nella
propria narrazione, se manca persino un criterio decisionale comune
da trovarsi nella corretta prassi logica e argomentativa, allora non
si dà più nemmeno una realtà comune (intesa come collezione di
fatti significativi e consolidati), ma ciascuno diventa impermeabile
a tutto ciò che non fa sistema con la propria narrazione di
riferimento. Il risultato è che la sistematicità universale della
modernità viene sostituita, non da una libera invenzione
confrontabile con altre o da una libera determinazione dei propri
bisogni che possono e devono convivere con quelli altrui, ma da una
serie di sistematicità minori, chiuse e di carattere tribale.
Detto
questo, si apre la questione di come agire non nei confronti della
singola bufala, rispetto a cui la soluzione per via ordinaria che ci
vede concordi sarebbe già efficace, ma riguardo la loro elevazione a
propaganda sistematica. Qui, sia ben chiaro, non invoco autorità
censorie, leggi speciali o altre mostruosità, ma mi limito a
sottolineare la cogenza politica della questione, nell'attualità in
cui abbiamo la fortuna di trovarci. Credo che, invece, sia opportuno
affrontare la dimensione politica di un fenomeno che è politico, se
non altro per portata sistemica: un po' come le mafie, che non
possono essere affrontate efficacemente se le si combatte sul solo
terreno del contrasto alla criminalità, ma vanno comprese e
affrontate nella loro dimensione sociale e politica.
PS:
d'accordo pienamente con quanto dici del nazismo. Del resto, se fosse
un male assoluto e non semplicemente un caso limite, storicamente
accaduto, di un'evenienza sempre possibile anche nella nostra
società, riferirsi ad esso non avrebbe nemmeno alcun valore
argomentativo.
Nane
Se
vogliamo rinunciare all'uso di un termine come post-verità per il
pericolo che comporta il suo richiamo a una verità assoluta (lieto
di trovarti d'accordo su questa rinuncia), ma allo stesso tempo
sentiamo bisogno di un termine che esprima la sistematicità
dell'adulterazione dei fatti in fattoidi, credo che un termine come
bufala sia debole in ogni suo possibile derivato. È che noi abbiamo
un termine che esprime la natura moralmente sensibile della menzogna
in ambito pubblico, e questo termine è fandonia, che peraltro si fa carico di
esprimere a dovere due tratti essenziali della confezione di questo particolare genere di frottole: il fatto che si tratti di invenzioni (da invenio: trovate) e che il loro
contenuto sia dimostrabile come infondato mediante l'uso dei più comuni strumenti di verifica. Potremmo parlare di
fandonificio, per esempio. In quanto alle attinenze evocative della
post-modernità che sono manifeste in un termine come post-verità,
rendendo quest'ultimo appropriato a sussumere aspetti del primo, ti
rammento che perfino l'ultimo Lyotard ebbe a sollevare dubbi sulla
congruità semantica del neologismo da lui coniato. Per finire, sulla
dimensione politica del problema che dovrebbe trovare un
corrispettivo nella soluzione: trovo pertinente il parallelismo con
le attività criminali mafiose – parallelismo che tuttavia regge
solo fino a un certo punto – e appunto perciò, parafrasando
Sciascia, dico: evitiamo di creare professionisti della verità. Anch'io vorrei lasciare un post-scriptum: non ho ritenuto appropriato tradurre Fälschungsmöglichkeit con falsificabilità, perché genera un sacco di guai quando lasciata nelle mani di chi non ha letto Popper. A me piacerebbe renderla con un altro termine: inficiabilità.
lunedì 9 gennaio 2017
Prevedibile qualche problemino
Chi
ventila la necessità di un’authority con potere di censura sulle
cosiddette bufale che circolano nel web è significativamente evasivo
su alcune questioni.
La
prima: perché questa necessità non è avvertita anche per quelle
che sono sempre circolate e tuttora circolano in tv e sulla stampa,
né mai è stata avvertita in passato, quando il web non esisteva,
lasciando che a segnalarle fossero solo singoli individui che, oltre
ovviamente a non avere alcun potere di censura su di esse, neppure
potevano aspirare a un minimo di visibilità per le loro
segnalazioni? Domanda che possiamo formulare anche in altri termini,
che forse le daranno un risvolto polemico: perché questa necessità
è avvertita solo adesso che il web è diventato un canale
informativo alternativo a tv e stampa?
Seconda
questione: perché la proposta di una censura delle cosiddette bufale
che circolano nel web non è mai accompagnata da una pur vaga
esposizione del metodo che dovrebbe guidare l’attività di vaglio?
Anche qui possiamo formulare la domanda in altri termini: quali
sarebbero i parametri che si metterebbe conto di utilizzare per
distinguere il vero dal falso? E sarebbero parametri in grado di
assicurare una distinzione tra i fatti e le opinioni, per censurare
la diffusione dei primi, se falsi, e consentire invece la libera
circolazione delle seconde, che dovrebbero godere sempre del diritto
di essere espresse, ancorché si possa più o meno agevolmente
dimostrarne la fallacia?
Terza
questione: quale che sia l’ambito d’intervento di questa
authority, a chi ne spetterebbe la nomina? Sulla base di quale
legittimità etica o giuridica? E sulla base di quali meriti se ne
entrerebbe a far parte? Quale controllo sulla sua attività sarebbe
assicurato a garanzia che il buon fine sia raggiunto senza lesioni
del diritto di libera espressione? E da chi sarebbe assicurato?
Quando
dico che la costante elusione di queste questioni è significativa,
non alludo solo a quell’intento che in proposte del genere è
sempre – più o meno coscientemente – repressivo della libera
espressione degli individui, ma anche a quel limite che è
insuperabile di ogni attività censoria, e che è dato dall’avere
giocoforza un’ideologia cui fare riferimento, dove il termine
ideologia è qui da intendere in modo quanto mai estensivo, e cioè
come costrutto che assume forma di sistema entro il quale opera un
sovrano giudizio di natura etica e/o estetica.
Quel
che intendo dire è che in ogni attività censoria è necessariamente
operante l’obbedienza a certe leggi, le quali a loro volta
obbediscono a una certa logica. Ora, nel caso di una censura che
intenda colpire il falso, è indispensabile che questa logica assegni
alla verità i caratteri che gli sono propri sul piano ontologico, e
questi sono la necessità, l’immutabilità
e l’universalità,
perché quel che è vero non può che essere necessariamente
riconosciuto tale dalla ragione rettamente informata, e non può che
essere immutabilmente tale, dunque vero sempre e ovunque,
inemendabilmente tale.
Un
pochino tautologico, forse, ma il filosofo non avrà nulla da ridire.
Una vera goduria, poi, per il teologo. Per lo scienziato, invece, non
potrà andar bene: nessun controllo di affidabilità è possibile su
quanto si sottrae alla popperiana Fälschungsmöglichkeit,
e una verità necessaria, immutabile e universale è da ritenersi
tutta metafisica, altamente inadeguata a rappresentare
l’attendibilità
di un modello scientifico.
Ma
non potrà andar bene nemmeno per lo storico, il sociologo,
l’economista,
lo psicologo, ecc.: quali oggetti della loro indagine possono dirsi
necessari, immutabili e universali? Ogni affermazione nei rispettivi
ambiti potrebbe avere il vizio di non rispettare le qualità che
contraddistinguono una
siffatta idea
del vero, e la censura di una di esse, e di un’altra
no, assumerebbe inevitabilmente il carattere dell’arbitrarietà,
costituendosi di fatto come indirizzo di ricerca. Ne conseguirebbe
che la conoscenza non sarebbe alla fine del processo di indagine, ma
verrebbe in pratica preconfigurata dai fattori che la indirizzano.
Nessuno vuole questo, giusto?
E
allora? Paradossale: armata di una siffatta idea del vero, una
censura che miri a colpire il falso potrebbe esclusivamente agire su
ciò che non è empiricamente dimostrabile in modo stringente. E ve
ne sarebbe abbastanza per censurare le scie chimiche, su questo non
ci piove, ma anche tutto ciò che attiene a Dio. In questo sta il
paradosso: perché possa assumere legittimità di censura su ciò che
riterrà falso, un’authority
deve necessariamente far propria un’idea
di verità che è trascendente, quindi inevitabilmente pervasiva,
intrusiva, sostanzialmente intollerabile per una società
secolarizzata, e perciò sarà costretta a ridimensionare
drasticamente le sue pretese, per ridurle a quelle di un accertamento
di cosa sia vero, e cosa falso, sulla base di criteri che negano in
radice ogni verità trascendente, col rischio di dover censurare, con
l’affermazione
che «il
mondo è in mano ai rettiliani», anche quella che «ci ha creato
Dio». Prevedibile qualche problemino.
domenica 8 gennaio 2017
Dov’è finito il principio d’autorità
«L’Italia
ha bisogno di una cosa soprattutto:
che cambi il clima culturale del
Paese,
il suo modo di pensare. Che sgombrino il campo
i pregiudizi e
le idee ricevute che per almeno trent’anni
hanno fin qui governato
la nostra società.
Per fare posto a un’esigenza ormai
improcrastinabile
di verità e di realismo. Tra le molte cose
che una
tale esigenza impone di riscoprire
metterei ai primissimi posti
l’idea di autorità:
il bisogno di riscoprire il suo senso,
di
legittimarne nuovamente la pratica»
Ernesto
Galli della Loggia,
(Dov’è finito il principio d’autorità -
Corriere della Sera, 7.1.2017)
Non
c’è
niente
di meglio, quando si vuol discutere con profitto, che mettersi
preliminarmente d’accordo
sul significato da dare al termine che designa l’oggetto
della discussione. Quale significato vogliamo dare, per esempio, a un
termine come «autorità»? Per meglio dire: quale significato siamo
autorizzati a dargli in mancanza di una definizione concordata con
chi apre la discussione dalla prima pagina di un giornale?
Ops, mi è
scappato un «autorizzati» che rischia di cortocircuitare la
discussione fin dall’inizio:
la domanda, infatti, è relativa all’«autorizzazione»
(che è concessione di una facoltà da parte di un’«autorità»)
a dare un significato a un termine come «autorità». Chi (o cosa)
ci conferisce questa facoltà? Per meglio dire: quale autorità ci
consente di dare ad «autorità» il significato che possiamo
ragionevolmente ritenere sia lo stesso che gli ha dato chi ha aperto
la discussione? Direi sia quella che detta legge sulla relazione tra
significante e significato.
Se è così, la facoltà concessaci è
assai ristretta: ad «autorità» possiamo dare solo il significato
che dall’etimo
discende alle sue possibili accezioni, che in questo caso per fortuna
sono poche. Prim’ancora,
però, di dare una rinfrescatina alle nostre reminiscenze, che da
«auctoritas» ci porteranno ad «augere», e di qui alla valenza che
questo «accrescere» assume in termini come «augustus», «auxilium»
e «augurium», che hanno tutti e tre stretta attinenza alla sfera
religiosa, chiediamoci cos’è
un’«accezione».
Direi si possa concordare col definirla una variante d’uso
del significante al fine di dare pienezza di funzione al significato
al variare del contesto in cui il termine è impiegato. Questa
definizione di «accezione» mi pare possa tornarci estremamente
utile nel comprendere come l’«autorità»
tenda a conservare tutti suoi attributi anche quando essa è al di
fuori dalla sfera religiosa, continuando a mantenere il carattere di
ciò che assicura crescita a un individuo
o a una società nel suo complesso in forza della loro subordinazione
a un superiore principio che legifera e dà ordine.
Siamo, in buona
sostanza, al nodo della «teologia politica» (Carl Schmitt), che
nell’etimo
di «autorità» vede inclusa – a ragione, occorre dire – «l’idea
che nell’uomo
si realizza l’humanitas
quando
un principio di natura non empirica lo libera dallo stato di
soggezione e lo porta al fine che è suo, di essere razionale e
morale; la libertà dell’uomo,
come potere di “attenzione”
e non di “creazione”, consiste infatti nella capacità di
subordinarsi a questo superiore principio di liberazione» (Augusto
Del Noce).
Un «augere», dunque, che può considerarsi portato a
buon fine – fino addirittura alla «liberazione» dell’individuo
– solo sotto il dettato dell’«autorità»,
tanto meno sentito coercitivo quanto più accettato come indiscutibile, al
punto da poter far coincidere la vera humanitas e la vera libertà
alla piena obbedienza che all’«autorità» è dovuta.
Così è stato per secoli, ma oggi, e in
realtà già da qualche tempo, all’idea
di «autorità» si associa quella di un’oppressione
che, ben lungi dal favorire una crescita dell’individuo,
vi si opporrebbe. Come è potuto accadere questo? Ernesto Galli della Loggia non ce lo dice.
In realtà, non ci dice neppure cosa dovrebbe farci sentire, com’è nel suo accorato auspicio, «il bisogno di riscoprire il senso» dell’idea di «autorità», per «legittimarne nuovamente la pratica». Perché almeno una cosa sembra chiara: auspica che se ne senta il bisogno, bontà sua, non che sia imposta. Anche perché l’«autorità» ha una proprietà che fin qui non abbiamo preso in considerazione: il «superiore principio» che essa rappresenta deve necessariamente trovare in qualcuno – individuo, gruppo, classe – il soggetto cui essere subordinati. Ne consegue che il rigetto di un’«autorità» trova sempre forma nell’insubordinazione a qualcuno che fin lì è riuscito a dare legittimità alla sua pretesa di incarnarla, e da lì in poi non ne è più in grado.
Su un punto, allora, è indispensabile fare chiarezza: di quale «autorità» parliamo? Dire che si dovrebbe ri-scoprirne il senso e che la sua pratica dovrebbe essere nuovamente legittimata lascia supporre che si tratti della stessa «autorità» di cui in passato si aveva ben chiaro il senso e alla quale si riconosceva legittimità. Se è così, si auspica in sostanza che l’insubordinazione rientri, ri-conferendo «autorità» a chi l’ha persa.
Ma siamo autorizzati a interpretare in questo modo l’auspicio? «Va da sé – dice Ernesto Galli della Loggia confortandoci in questa interpretazione – che quando si dice autorità non può che intendersi in
linea di massima (in linea di massima, sottolineo, non sempre)
l’autorità di una sola persona o istituzione, un’autorità
monocratica». E allora sì, possiamo ritenere a buon diritto che quella auspicata sia una reconquista. Non è dato sapere, tuttavia, quale processo dovrebbe assicurarla. Di fatto, l’obbedienza a un’autorità monocratica si è sempre fin qui ottenuta e mantenuta con la violenza, dove l’ignoranza non assicurava soggezione.
Foto: Michele Castaldi, Teschio (2017)
martedì 3 gennaio 2017
L’onore di Mentana
Tutto
sommato, non è che Ferrara ci fosse andato giù troppo pesante, via. Che
aveva detto in fondo? Che La7 era «un cesso». Che Mentana era «un
ipocrita», «un
buffone».
Sì, è vero, aveva anche insinuato che la carriera di Mentana fosse
stata tutto un passar di lingua da culo a culo – Berlusconi,
Montezemolo, Tarak ben Ammar – e si sa che la giurisprudenza
riconosce la diffamazione anche nella
mera insinuazione
(Cass.
n. 1988/1975). Ma in sostanza, via, che era successo? Nient’altro
che uno screziuccio, anzi, trattandosi di Ferrara, quella scatarrata
di insulti e calunnie poteva anche essere letta come amichevole
affettuosità.
Ciò nonostante – roba da non credere – Mentana si era detto
offeso.
Querela? Non risulta. Risulta, invece, quella annunciata
stasera, nei confronti di Beppe Grillo, per aver riprodotto, con
quelli degli altri Tg della Rai e di Mediaset, tutti, anche il logo
del TgLa7, in una fotocomposizione sulla quale spiccava la scritta
«Giornali
e Tg sono i primi fabbricatori di notizie false nel Paese con lo
scopo di far mantenere il potere a chi lo detiene».
Accusa
pesantissima, ma quanto mai generica, che, almeno a leggere il post
sul quale campeggia la suddetta fotocomposizione, sembra possa
riferirsi al TgLa7 solo per l’edizione
delle 20,00 del 16.11.2016, nel corso della quale un servizio di
Paolo Celata riprendeva quanto riportato in un articolo di Jacopo
Iacoboni apparso su La Stampa dello stesso giorno, nel quale, con
acconcio uso di condizionali e punti interrogativi, si costruiva un
link alquanto speciosetto tra @BeatricedimaDi
e la
Casaleggio Associati.
Troppo poco, francamente, per dare del
«fabbricatore di notizie false» a Mentana, che così mi pare abbia pieno
di diritto di ritenersi offeso, ottime ragioni per sporgere querela e
buone possibilità di essere risarcito per il danno inferto al suo onore. E
pensare che a dargli del «buffone»
e dell’«ipocrita»
non sarebbe accaduto niente. Sempre un po’ troppo sopra le righe,
’sto Grillo.
Avviso ai naviganti / 2
Sono
stato un po’
precipitoso nella decisione di oscurare i commenti fin qui lasciati
su queste pagine dai miei lettori, me lo fa presente chi, con una
email giuntami poco fa, mi ragguaglia a dovere sulla sentenza della
Corte di Cassazione che mi ha mosso a così grave passo, e di cui avevo
colpevolmente letto solo la sintesi riportata da repubblica.it, che
pure riportava il link al suo testo integrale, senza tuttavia far
cenno nel corpo dell’articolo
al punto che ritengo sia da ritenersi essenziale: la condanna è
motivata dalla mancata rimozione di un commento contenente offese ai
danni di un tizio che ne aveva fatto esplicita e diretta richiesta al
titolare del sito, non già dal fatto che costui avesse dato assenso
alla pubblicazione. In sostanza, al titolare del sito non è stato
addebitato quanto scritto dal commentatore, né il non aver censurato
il commento quand’era
in moderazione, ma il non aver provveduto a cancellarlo quando ciò
gli è stato richiesto. Almeno per quanto mi riguarda, questo cambia
in modo radicale i termini della questione, consentendomi di rivedere la mia decisione con la seguente dichiarazione d’intento:
chiunque possa sentirsi offeso dal commento che un lettore ha
lasciato su queste pagine, e che io – chissà come, poi – possa
aver pubblicato per non aver colto il suo contenuto offensivo, non ha
che da segnalarmelo, e assicuro che sarà subitamente rimosso –
entro le 24/36 ore, diciamo – quand’anche
della supposta offesa dovessi intravvedere la sola ombra.
lunedì 2 gennaio 2017
Avviso ai naviganti
Una
sentenza della Corte di Cassazione, di cui prendo notizia oggi da
repubblica.it, dichiara che il titolare di un blog è responsabile di
quanto contenuto nei commenti dei lettori ai suoi post.
Nell’impossibilità di assumermi
tale onere, che ritengo indebito, in ciò confortato da una pronuncia
della Corte europea dei diritti dell’uomo,
mi vedo costretto a oscurare i commenti che fin qui sono stati
lasciati su queste pagine, ancorché da me approvati solo quando mi
sembrassero esenti da contenuti illeciti. Nell’impossibilità
di fare altrettanto col blog di cui sono stato titolare su un’altra
piattaforma dal 2004 al 2010 (su Il Cannocchiale, almeno a quel
constato, la funzione che sospende i commenti non oscura quelli già
approvati), mi vedo altresì costretto a chiuderne l’accesso.
Coincidenza vuole che tutto questo accada a meno di due ore dalla
pubblicazione del post che troverete qui sotto, nel quale paventavo
gli inevitabili effetti collaterali di una crociata contro qualsiasi opinione liquidabile come post-verità da chi della verità si sente insieme servo e padrone. Sarà paranoia, sono disposto a concederlo, ma mi pare
si vada di gran passo verso l’istituzione
di un Ministero della Verità col cominciare a dargli gli
indispensabili strumenti dell’intimidazione.
Qualsiasi obiezione sollevasse quel che da oggi in poi sarà pubblicato su queste pagine mi potrà essere fatta presente via e-mail, l’indirizzo è qui a fianco: ne darò conto, con eventuale controbiezione nel caso, in un aggiornamento al post in oggetto.
Qualsiasi obiezione sollevasse quel che da oggi in poi sarà pubblicato su queste pagine mi potrà essere fatta presente via e-mail, l’indirizzo è qui a fianco: ne darò conto, con eventuale controbiezione nel caso, in un aggiornamento al post in oggetto.
Verità e post-verità
Solitamente
la fortuna di un neologismo si è sempre misurata sull’ampiezza
e sulla durata che il suo impiego riusciva a conquistare, sicché
in passato trovava registrazione solo dopo aver adeguatamente
consolidato la sua posizione nel linguaggio corrente. Si pensi, per
esempio, a «nostalgia», termine coniato
nel 1688, che deve tuttavia attendere più di un secolo per
essere trovato sulle pagine di un dizionario.
Di
pari passo a una percezione del tempo e dello spazio che si andava
sempre più rapidamente evolvendo rispetto a quella del passato, la
fortuna di un neologismo è venuta sempre più spesso a misurarsi
sulla velocità e la forza con le quali se ne diffondeva l’uso,
al punto da convincere anche i più sussiegosi difensori della
lingua a introdurre nel lemmario certi termini che, dopo un
prepotente erompere nel discorso pubblico, spesso diventano
rapidamente desueti, per poi essere rievocati quasi esclusivamente
come cifra di un particolare momento storico. Anche qui potrà
tornare utile un esempio, e il primo che mi viene in mente è quel
«cristargare» che a cavallo tra i
Settanta e gli Ottanta del secolo scorso venne a indicare il
riprodurre la targa automobilistica sui cristalli di una vettura in
modo da scoraggiarne il furto.
Se
qualcosa ci è lecito asserire riguardo al come un
neologismo trova fortuna, ancorché effimera, più
difficile è tentare di capire cosa gliela dia, e questo per la
semplice ragione che la parola solitamente si adatta alla cosa che
intende rappresentare attraverso un processo di reciproco aggiustamento, dato il continuo, seppur talvolta impercettibile, mutare
di entrambe, mentre invece il neologismo pretende di cogliere il
senso di qualcosa che spesso è tutto in fieri, spesso assegnandogli
il senso che non di rado è tutto nella previsione di quel che sarà
il factum, che mostra tutto il limite di una scommessa. Per questo,
quando qualcosa che ci appare nuovo cerca un nome altrettanto nuovo,
la fortuna premierà quello in grado di rappresentarne in modo più
efficace l’indeterminatezza
col ricorso a formule che hanno la pretesa di dare ineffabilità
al vago.
Così
mi pare stia accadendo con la «post-verità», dove il prefisso sta
per «dopo», ma anche per
«dietro», indicando nel contempo qualcosa che verrebbe dopo la
verità, come sua trasformazione in altro, o che le starebbe dietro,
usandola come una maschera. In entrambi i casi, dato il valore
assoluto che si tende a dare alla verità, il termine suona
inquietante, perché implica un inevitabile sminuirsi di quel valore
o, peggio, il suo usurparlo da parte di ciò che, per l’essere
anche solo in minima misura lontano dal vero, è inevitabilmente
falso, dunque scopertamente insidioso.
In
questo porsi dinanzi a un termine del genere pare diventi del tutto
secondario chiedersi se si abbia modo di avere qualche solida
certezza su cosa sia la verità: tutti riteniamo di sapere cosa sia,
almeno quando non ce n’è chiesta la definizione. Le cose si
complicano terribilmente quando siamo costretti a fornirne una, senza
la quale un termine come «post-verità» diventa ancor più
indefinibile di quello che vuol essere per illuderci di aver con esso
colto la sostanza che si vuole assegnare a una particolare e nuova
specie del falso. In altri termini, direi che vero e falso cercano
nella «post-verità» una ridefinizione che risponda al meglio ai
nuovi modi in cui essi ci si ripresentano dinanzi, senza peraltro
poter pretendere di riuscirci, perché non possono riproporsi alla
nostra attenzione senza il carico di ambiguità che li
contraddistingue in radice.
Il
fatto è (e qui riprendo una mia riflessione di qualche tempo fa) che
ogni
definizione di verità
è
una tautologia. Tautologia più o meno manifesta, ma tautologia. Si
va dalla tautologia dichiarata tale col definirla «l’essere
vero»
(De
Mauro) o «ciò
che è vero»
(Treccani), a quella che va in cortocircuito con un termine facente
funzione di sinonimo, per più con realtà,
e allora la verità diventa la «aderenza
alla realtà»
(Palazzi)
o la «rispondenza
piena e assoluta con la realtà effettiva»
(Devoto-Oli)
o, ancora, la «conformità
a una realtà obiettiva»
(Treccani),
dove questa realtà
rimanda
inevitabilmente al vero,
in quanto «qualità
e condizione di ciò che è veramente»
(Palazzi).
Quando
poi dal tentare di definire la verità
si
passa ad analizzare le sue accezioni in ambito filosofico e
scientifico, teologico e linguistico, logico e psicologico, le cose
non vanno meglio, perché «non
c’è una definizione univoca su cui la maggior parte dei filosofi
di professione e gli studiosi concordino, e varie teorie e punti di
vista della verità continuano ad essere discussi»
(Wikipedia),
e perché in ciascun ambito il termine va assumere un significato che
risulta inservibile in un altro.
Si
prenda, per esempio, il significato di verità
per
un teologo come Tommaso, che la ritiene coincidente all’Essere e in
pratica assimilabile a Dio: sarà accezione praticamente inservibile
per un epistemologo come Peirce, che la ritiene il risultato di un
accordo di un determinato gruppo di soggetti, su un determinato
assunto, in un determinato spazio, in un determinato lasso di tempo.
Oppure si prenda il suo significato per un matematico come Gödel,
per il quale non tutto ciò che è vero
è
anche dimostrabile: del tutto incompatibile con la definizione che di
verità
dà
un logico come Frege, secondo il quale il vero
è
categoria illusoria.
Non
va meglio neppure trasferendo interamente il vero
al
reale,
per tenercelo, perché la realtà
è
maledettamente sfuggente ad una percezione che voglia dichiararsi
qualitativamente e quantitativamente assoluta e tradursi in
conoscenza oggettiva: offrirà in se stessa gli strumenti per
valutare la congruenza tra un aspetto del reale e un suo
corrispettivo, in ciò che dunque avrà efficacia di mera
dimostrazione di una congruenza interna ad un sistema, del quale però
la conoscenza soggettiva è parte inalienabile. E così la realtà
sarà
comprensibile, ma mai interamente, né sarà mai possibile ridurla a
pura oggettività, perché ad essa è connaturata la frammentarietà
della percezione e della comprensione relativa, che non può mai
tradursi in conoscenza assoluta.
È
in questo punto, che poi è quello dove ci si dovrebbe arrendere
all’impossibilità dell’onniscienza, dell’impossibilità di
rappresentarci il vero
al
di fuori di uno spazio soggettivo, che nasce la trascendenza. Con
essa si fa strada in molti l’idea che l’assoluto sia una meta e
che la verità sia un fine. Tutto è promesso all’uomo in una
verità assoluta, tutto gli è chiesto in cambio di quella. Quasi
sempre, allora, accade che il soggettivo, per questa sua vorace fame
di assoluto, cerchi di imporsi come oggettivo, non di rado con mezzi
assai opinabili, assai opinabilmente giustificati dalla bontà del
fine, tutto illusorio.
È
che forse dovremmo sbarazzarci di una parola come «verità»
o usarla in modo assai più cauto, perché a darle il significato di
qualcosa indiscutibile si corre il serio rischio di conferire a
qualcuno l’autorità
di impedire ogni discussione su cosa sia vero e cosa no, il che è
già di per sé una negazione della verità, almeno a intenderla come
risultato sempre parziale, sempre imperfetto, di una conoscenza che
ha negli stessi suoi strumenti gli invalicabili limiti.
Dichiarazione
di scetticismo radicale? Tutt’altro.
Direi sia solo un monito a non fidarsi mai della piena
intelligibilità di un factum, tanto meno quando è ancora in fieri:
ogni sua comprensione è giocoforza incompleta, perché quello che ce
lo ridà è sempre un modello, che raramente si rivela
incorreggibile, e questo vale per tutto ciò che si fa oggetto della
conoscenza, dall’infinitamente
piccolo all’infinitamente
grande, passando per quello che c’è
in mezzo: quando la conoscenza non ha timore di abbandonare un
modello per adottarne un altro che sembri più adeguato alla
comprensione, diventa inevitabile considerare la transitorietà di
quella che fino a quel momento si era commesso l’errore di reputate
come ultima e inemendabile verità sulla tal cosa, sulla tal persona,
sul tal accadimento. Con
ciò dovrebbe apparire sufficientemente ridicolo l’uso
di un termine che è immancabilmente appiccicato a ciò che si
ritiene definitivamente acquisito, poco importa se in forza delle
nostre personali convinzioni o di quelle di un’autorità
cui conferiamo il potere di pensare per noi, e invece spesso ne
facciamo perfino abuso, per costruirci sicurezze che vengono
regolarmente spazzate via dal semplice cambiamento di prospettiva che
consegue al costante mutare del tempo e dello spazio che sono le
coordinate del nostro essere. Si dovrebbe rinunciare a parlare di
«verità» per ciò che hic et nunc ci sembra indiscutibile: sarebbe
di gran lunga meno pericoloso l’uso
di un termine come «comprovabilità», che all’assunto
altrimenti definito «vero» conferisce un valore di affidabilità
esclusivamente sulla possibilità di controllo, convalida e
condivisione che è nella facoltà di chiunque sia disposto a
rispettare le elementari leggi della logica, che trasposte sul piano
dell’argomentazione
sono le sole a poter dar ragione di ciò che è corretto, in quanto
poggia su premesse incontestabili, valido, perché rifugge da
tautologie o contraddizioni, e persuasivo, come efficace risultato
del processo che ne articola lo sviluppo in un’affermazione.
Sostanzialmente si tratterebbe di adottare il metodo scientifico per
tutto ciò che liquidiamo troppo sbrigativamente come «vero» o
«falso». Ve ne sarebbe anche per poter rinunciare a parlare di
«post-verità», che almeno a voler prendere per buona la
definizione che ne è comunemente data, sarebbe «una notizia
completamente falsa, ma che, spacciata per autentica, è in grado di
influenzare una parte dell’opinione
pubblica» (Wikipedia): c’è
già un termine che risponde a questa descrizione, ed è «fattoide».
Preferirlo a «post-verità» presenta almeno due vantaggi. Il primo
è che ci consente di evitare l’implicita
assunzione di categorie come «vero» e «falso» che pressoché costantemente esigono il ricorso a un’autorità
che è da presupporsi onnisciente. In secondo luogo, il «fattoide»
include anche quella minima deformazione del factum come
effettivamente comprovabile (sul quale, cioè, sia possibile il
controllo, dandogli convalida e perciò rendendolo condivisibile) che
comunque è in grado di alterarne il senso.
Stabilito
che una «post-verità» non è altro che un «fattoide», e che con
«fattoide» perde la pericolosità che assume nel reclutare
difensori di una «verità» che non deve mai essere messa in
discussione, c’è
da considerare perché si sia sentita la necessità di coniare –
chiedo scusa per il bisticcio – un nuovo neologismo per qualcosa
che è sempre esistito, almeno fin da quando si è spacciata per
autentica la notizia completamente falsa che l’uomo
sia un mix di fango e alito di Dio, con la conseguente influenza su
gran parte dell’opinione
pubblica. Forse è proprio il ricorso al prefisso «post-» a
potercene dare una ragione, pensando a quale funzione sia chiamato
per altri neologismi che pure lo sfruttano per dare al termine cui è
legato, quasi sempre con più efficace resa di significato, che
comunque sembra deliberatamente conservare un che di ambiguo se non
di vago, il senso di qualcosa che di quel termine indica il
superamento, la revisione, l’evoluzione
in altro che, se non ne è la negazione, ne è almeno la
riconsiderazione in chiave critica, se non addirittura polemica,
quasi sempre a decretarne la crisi («post-modernità»,
«post-democrazia», ecc.). Se questa interpretazione coglie nel
segno, diremmo che la «post-verità» viene sentita come una seria
minaccia per la «verità», con la quale concorre in persuasione.
Tanto più seria, questa minaccia, perché mostra di riuscire a
ottenere incredibili successi che resistono perfino alle
inoppugnabili smentite di quello che ha spacciato per «vero»
e poi è stato dimostrato «falso».
Come
è possibile che questo accada? La domanda assume con sempre più
frequenza toni preoccupati, muovendo a chiedersi cosa vi possa metter
freno. Giacché poi si dà per pacificamente assodato che la
«post-verità»
nasca nel web, e lì acquisti forza, fino a esorbitarne, per andare
ad adulterare la «verità»
perfino nei santuari in cui fino a poco tempo fa essa era custodita
con venerazione e difesa senza eccessiva fatica, la soluzione sembra
dover essere trovata nel ucciderla sul nascere, e lì dove prende
vita. Soluzione necessariamente violenta, questo è ovvio, ma come
non ritenerla sacrosanta, questa violenza, visto che è in difesa
della «verità»? Dando questo nome a ciò che si ritiene anteriore
e superiore all’interpretazione
del factum, la sua interpretazione consolidata può ben dirsi
trascendente. Altra cosa sarebbe chiamare «fattoide» il factum che
non regge al saggio di comprovabilità, e faticare quanto dovuto a
mostrarne l’infondatezza, e dunque l’inattendibilità:
significherebbe scendere nell’agone
fidando nella bontà dei propri argomenti, ad averne di corretti,
validi ed efficacemente persuasivi. La tentazione di usare la
violenza è comprensibile, quando non si è certi di averne o quando, pur certi che siano validi e corretti, si dispera possano essere anche persuasivi.
Ci sarebbe un’altra soluzione, ma imporrebbe un cambiamento di prospettiva: da «come può, il falso, sembrare vero?», la domanda dovrebbe esser posta in altro modo: «come può, l’agorà, farsi persuasa al falso più che al vero?». Superando le categorie di «vero» e «falso», la domanda non è difficile: giacché la persuasione non è che la resa alla forza di un argomento, vi sono condizioni nelle quali questa resa si può più facilmente ottenere grazie a una fallacia che a un retto argomento. Ma cosa caratterizza queste condizioni? L’alta vulnerabilità a strumenti retorici di forte impatto, ancorché invalidi e scorretti. E cosa determina tale vulnerabilità? Un perdurante stato di soggezione a «verità» che per affermarsi si sono servite proprio di tali strumenti. In conclusione, occorre riconoscere che la tendenza a credere in qualcosa che non ha i requisiti di «comprovabilità» non è altro che il prodotto di una lunga storia che si è data solco nella indiscutibilità di alcune «verità»: non si riesce a far troppa differenza tra «verità» e «post-verità» quando non si è avuta educazione a ragionare.
Ci sarebbe un’altra soluzione, ma imporrebbe un cambiamento di prospettiva: da «come può, il falso, sembrare vero?», la domanda dovrebbe esser posta in altro modo: «come può, l’agorà, farsi persuasa al falso più che al vero?». Superando le categorie di «vero» e «falso», la domanda non è difficile: giacché la persuasione non è che la resa alla forza di un argomento, vi sono condizioni nelle quali questa resa si può più facilmente ottenere grazie a una fallacia che a un retto argomento. Ma cosa caratterizza queste condizioni? L’alta vulnerabilità a strumenti retorici di forte impatto, ancorché invalidi e scorretti. E cosa determina tale vulnerabilità? Un perdurante stato di soggezione a «verità» che per affermarsi si sono servite proprio di tali strumenti. In conclusione, occorre riconoscere che la tendenza a credere in qualcosa che non ha i requisiti di «comprovabilità» non è altro che il prodotto di una lunga storia che si è data solco nella indiscutibilità di alcune «verità»: non si riesce a far troppa differenza tra «verità» e «post-verità» quando non si è avuta educazione a ragionare.
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