martedì 7 febbraio 2017

Luciano Canfora, La schiavitù del capitale, il Mulino 2016


Per qualche decennio si è commesso l’errore di credere che con la caduta del Muro di Berlino si fossero chiusi i conti con Marx, come col Prozac quelli con Freud, e con Internet quelli col Piccolo mondo antico della marchesa Maironi. È stata la stagione in cui ci si era illusi di essere arrivati alla «fine della storia», stessa illusione di quando la Belle Époque ci fece credere che scienza e tecnica ci avrebbero fatto chiudere i conti con Dio o, per guardare ancora più addietro, di quando ci si illudeva che bastasse un Roi Soleil a guarire gli scrofolosi e un Colbert ad addomesticare il debito di stato per aspettarsi che il bourgeois si sarebbe comportato sempre da gentilhomme.
Sembrerebbe non esserci scampo: non ci basta immaginare una «età dell’oro» dove in realtà la vita media non superava i trentacinque anni, ogni volta vogliamo ricrearne una che ci faccia vivere più a lungo, possibilmente in eterno, e questo naturalmente vale anche per quanto ci dovrebbe fare da carburante, possibilmente per sette, nove, quindici miliardi di individui. Ovvio che si finisca per sgomitare, ovvio che qualcuno intravveda nello sgomitamento la vera essenza della vita. Repellente solo fino a un certo punto, dunque, Gordon Gekko, e si capisce l’entusiasmo che esalta l’assemblea dei piccoli azionisti, la cui sorte è comunque segnata: ci sarà sempre qualcuno più avido di te, qualcuno la cui avidità vincerà la tua.
Porsi il problema di quanto possa reggere un sistema mosso da queste illusioni – anche solo porsene il problema – impone la scomoda tunica di Cassandra, il ridicolo peplo di Spartaco o, peggio, il cappello a cono con le orecchie d’asino di chi sta in castigo dietro la lavagna.

No, questa non è una recensione, spiacente se col titolo del post vi ho tratto in inganno. In realtà, il libricino di Luciano Canfora – un centinaio di pagine densissime, bellissime – qui sta solo come oggetto di scena: lo leggo dietro la lavagna, dove sto in castigo per aver espresso su queste pagine qualche timida riserva sulla globalizzazione così come è stata fin qui concepita e realizzata da un capitalismo che non sa darsi limiti, né riesce a imporsi regole – per questo qualche giorno fa su Twitter mi hanno marchiato a fuoco come «hubbertiano, malthusiano e luddista», e in una pagina dei commenti qualcuno si è chiesto che fine avesse fatto il liberale – e mi consolo a ritrovarmici dentro, naturalmente in assai più bella copia.
Leggendolo, riesco a cavare consolazione pure per l’eventuale biasimo di opposta parte, perché è chiaro che pure alle serali tenute da un Diego Fusaro finirei dietro la lavagna: «Non sono più attuali – infatti leggo – le prospettive operative che Marx propugnò, tutte alla fine contraddette dalla realtà» (pag. 81). A dirlo io, mi becco un cazziatone: «Marx non ha niente a che vedere coi regimi cosiddetti comunisti». Stessa cosa che si potrebbe dire di Gordon Gekko e del liberalismo, ma solo in un regime cosiddetto comunista.

lunedì 6 febbraio 2017

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Sono mesi che la percentuale dei consensi attribuiti al M5S dai più accreditati istituti di rilievo demoscopico non si schioda dal 28-29%, ed è noto che i sondaggi sottostimano di qualche punto le opzioni di cui gli interpellati si vergognano, e come non vergognarsi di votare di M5S con tv e giornali che da mesi martellano in modo pressoché unanime a rappresentare il pericolo che incomberebbe sulle sorti patrie nella sciagurata ipotesi che lorda grillina ne pigliasse le redini?
Ribaltiamo la domanda: con un agguerrito fronte informativo che da mesi è quanto mai compatto nel dirne peste e corna, comè che il M5S non perde consensi? È questione che solo adesso pare porsi a chi ritiene che neanche la caduta di un meteorite grosso come il Cervino nel Medio Tirreno potrebbe far più danni di un Di Maio a Palazzo Chigi, di un Fico al Viminale, di un Di Battista alla Farnesina, e di tutti e tre a prendere ordini dalla Casaleggio Associati, perché fin qui è sempre stata salda la convinzione che i voti eventualmente persi dal M5S si sarebbero poi riversati altrove – poco importava dove, poteva andar bene pure che andassero a ingrossare lastensionismo – mentre ora è chiaro, e crea sconcerto, che nulla riesce a scalfire quello che sembra essersi consolidato in un vero e proprio zoccolo duro, e sì che sè tentato di tutto, al punto che un sospetto ora comincia a serpeggiare fra quanti si sono fin qui spesi perché al paese venga risparmiata lorrida iattura di un governo a Cinque Stelle: non sarà mica per aver commesso lerrore di ricorrere a tanti volgarissimi mezzucci dopo aver esaurito tutti gli argomenti più che decenti?
Direi che sia un sospetto ben fondato, non a caso nasce in chi ha sempre saputo fare distinzione tra un argomento e un mezzuccio, senza per questo essere stato in grado di rinunciare a usarli entrambi in polemica col M5S. È che la chiamata alle armi contro la minaccia grillina ha imposto la logica del «tutto fa brodo» anche a quanti sono stati reclutati dalla già esigua schiera degli intellettualmente onesti, e così ne abbiamo visto più d’uno rinunciare agli strumenti della retta argomentazione per cedere all’impiego dei più bassi espedienti persuasivi.
Verrebbe voglia di farne i nomi, di formulare qualche ipotesi sul come sia potuto accadere, ma ci guasteremmo qualche amicizia. Tutto sommato, poi, può bastare che in essi cominci a farsi strada la sensazione di aver sbagliato, anche se al momento il mancato raggiungimento del fine cui concorrevano fa ombra alla slealtà del mezzo usato.

giovedì 2 febbraio 2017

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Citarsi è inelegante, ma si può far di peggio con l’autocitazione di un’autocitazione, di cui do un saggio riproponendo un post di sei anni fa: «Una volta ho scritto: “D’Alema non è mi particolarmente simpatico, ma lo diventa ogni volta che penso a Veltroni”. Coi loro succedanei direi il contrario: non sopporto Civati, ma Renzi me lo rende amabilissimo. Peggio di Renzi, nel Pd, nessuno. Renzi è la larva che il berlusconismo ha deposto in una delle tante piaghe del Pd».
Di solito rileggo quel che ho scritto solo quando un alert mi avvisa che qualcuno lha allegato a un link, e così è accaduto col post qui riproposto, che non rammentavo di aver scritto, ripreso qualche settimana fa da un tweet di @Birnbaumchen. Anche se non ne ho mai avuto riscontro in una pubblica confessione, suppongo capiti a ogni blogger di vecchio pelo – e a marzo Malvino compirà tredici anni – che un link a quel che si è scritto istilli tanta più inquietudine quanto più il post è datato, e questo indipendentemente dal motivo per cui è stato ripreso, perché il tempo passa, e noi cambiamo, al punto che può pungerci più dolorosamente il plauso a ciò oggi non scriveremmo più che lo sberleffo su ciò che abbiamo appena scritto.
Nel caso qui portato a esempio, deo gratias, mi è andata abbastanza bene – continuo a preferire D’Alema a Veltroni e ovviamente Civati a Renzi, sul quale il giudizio si è fatto ancora più severo – e tuttavia ho ricavato un certo imbarazzo dalla forzatura cui ho ceduto nel paragonare Civati a Veltroni per assicurare solidità strutturale al testo su un parallelismo incrociato, nel quale è manifesta la debolezza che uno dei due assi mostra rispetto all’altro. Mi pare evidente, infatti, che le analogie tra Civati e Veltroni si esauriscano tutte sul piano dei salienti tratti del carattere (qui nell’accezione teatrale piuttosto che in quella psicologica), mentre quelle tra D’Alema e Renzi vanno ben oltre, come acutamente rilevato da Bechis in una sua recente scheda. Di più, direi che in Renzi ci sia il peggio di D’Alema e il peggio di Veltroni, e in micidiale sincretismo.

[Questo post è stato inavvertitamente pubblicato ieri prima di essere concluso. Me ne scuso col lettore.]

mercoledì 1 febbraio 2017

L’elettore del Pd che sarebbe Mantellini

Ci sono «ostacoli insormontabili» alla costruzione di quel «partito riformista di sinistra» che il buon Mantellini potrebbe votare senza essere costretto a «turarsi il naso in nome del meno peggio», indovinate quali.
Un attimo, però. Chiariamo. Mantellini parla da «elettore del Pd» («L’elettore del Pd che sarei io»), quindi è evidente che per «partito riformista di sinistra» intenda qualcosa che sta oltre il Pd: un partito ancora da venire, insomma. E dunque: quali sono questi «ostacoli insormontabili» che Mantellini vede frapposti tra il Pd così com’è, quello cui comunque ci risulta abbia dato il voto, non sappiamo se turandosi il naso o meno, e il «partito riformista di sinistra» che voterebbe, certo di non doversi veder costretto a turarselo?
Aspettate, non vi precipitate subito a dare una risposta, ché poi a sapere quella esatta ci rimanete male e ve la prendete con me perché non ho saputo esporvi a dovere i termini della questione, che sembra semplice, ma in realtà non lo è affatto.
Procediamo senza fretta, cominciando col chiarire cosa debba intendersi con «riformista» e «di sinistra», ovviamente per Mantellini. E chiariamolo facendo degli esempi, perché si tratta di concetti diventati così vaghi che ultimamente dentro ci si trova di tutto, perfino l’idea che la crescita del paese tragga formidabile impulso dall’abolizione dell’art. 18 e che tocchi ai contribuenti pagare i debiti che De Benedetti non ha pagato al Monte dei Paschi di Siena.
«Riformista», per Mantellini, significa per esempio «prendere atto della necessità di riformare la scuola pensando agli studenti prima che agli insegnanti»; e poi «prendere atto dello strapotere politico di alcuni grossi apparati sindacali che hanno infiltrato ogni angolo della macchina decisionale del paese e provare a metterci rimedio, per esempio iniziando faticosamente a premiare il merito più che l’appartenenza»; ancora, significa «investire sui giovani che sono la vera classe povera italiana e contemporaneamente la nostra unica speranza»; e poi «sposare un’idea di innovazione che non riguardi la Salerno-Reggio Calabria o peggio i ponti di Messina ma le autostrade informatiche e in generale gli ambiti digitali»; ultimo esempio di cosa significhi «riformista», «tenere distanti i propri mediocri amichetti dalle poltrone delle partecipate o delle fondazioni bancarie».
Esempi «banalissimi», dice Mantellini, ma solo perché lui è la modestia fatta persona. Di fatto, si tratta di riforme sulle quali faccio fatica a immaginare possano esserci obiezioni, tantè che sono nel programma di ogni partito, compreso il Pd, che le promette a ogni tornata elettorale. In quanto ad attuarle quando sta al governo, beh, quello è un altro paio di maniche.
Si prenda a esempio – esempio banalissimo, qui provo ad essere modesto anch’io – il governo Renzi. Tanto per dire, la cosiddetta Buona Scuola: scontenta gli insegnanti, ma per caso avete visto fiumane di studenti in festa? E il cosiddetto Jobs Act: avete registrato tutto ’sto travolgente entusiasmo fra i giovani? Non parliamo, poi, della priorità che le autostrade informatiche hanno avuto rispetto al ponte sullo Stretto di Messina, d’altronde una cosa è fare il romantico coi polli della Leopolda e un’altra è farlo venir duro a quelli della Impregilo. Cali un velo pietoso, infine, sugli scoronconcoli e le ciamporgne che il braggadocio ha da subito provveduto a sistemare nei punti chiave di partito, parlamento, governo, sottogoverno, stato e parastato: peggio delle cavallette, peggio della peronospora.
A stretto rigor di logica c’è da supporre che Mantellini non debba aver trovato molto «riformista» il governo Renzi, ma più in là del supporlo non ci è consentito andare, perché negli ultimi tre anni non è che lo si sia sentito lamentarsi troppo. Dev’essere stato il governo Gentiloni ad avergli fatto scattare la molla, va’ a capire.
E «di sinistr? Come dovrebbe essere, per Mantellini, un partito «di sinistr? Cosa dovrebbe avere a cuore un partito «di sinistr? È presto detto: «i diritti civili dei singoli cittadini, le libertà individuali, la solidarietà verso gli altri».
Un «di sinistr che vi suona strano? Sarà perché tanta attenzione allindividuo non è mai stata fra le peculiarità della sinistra, sempre più attenta ai bisogni della collettività. Però direi che «solidarietà verso gli altri» dissolve ogni perplessità.
Come dite? Trovate che sia locuzione troppo vaga, tant’è che la si trova pure nel programma di Casapound e nel Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa? Consentitemi di dirvi che siete in errore: è che ultimamente la sinistra non gode di ottima reputazione, e a mostrare troppa confidenza col suo tradizionale idioletto si corre il rischio di essere additati in società come pericolosissimi socialdemocratici, il che a dei flagiziosi della risma dun Gilioli o un Civati, che si sparano in vena un Piketty a colazione e uno a cena, questo potrà non far né caldo né freddo, e infatti eccoli lì, un giorno sì e laltro pure, a esibirsi come viziosi del welfare più spinto, mentre Mantellini non è della stessa pasta, questo è tutto: «di sinistra» pure lui, ma meno incline a strepitarlo ai quattro venti con parole troppo forti come – chessò – redistribuzione. Mera questione di galateo.
Ecco, vi ho dato l’aiutino, ora potete rispondere: quali sono gli «ostacoli insormontabili» che impediscono al Pd diventare il «partito riformista di sinistra» che piacerebbe tanto a Mantellini?
C’è rimanere a bocca aperta: (1) la minoranza del Pd, altrimenti detta «sinistra interna», e (2) quanti «da Fassina a Vendola» stanno a sinistra del Pd, dall’esterno. Sinistre che probabilmente Mantellini ritiene abusive, perciò naturalmente antagoniste della sinistra vera. Ma poi ci sono pure (3) «Alfano, Berlusconi e tutto il berlusconismo di ritorno da Verdini a certi residui millimetrici di Scelta Civica», che onestamente si fa fatica a capire come possano essere di ostacolo alla costruzione di un partito «di sinistr: basterebbe scaricarli, dunque l’ostacolo non sono loro, ma chi se li è caricati e ancora non li scarica. Così per (4) la «quota di attuale classe dirigente del PD mantenuta in sella per interesse o per esigenze di forza maggiore il cui esempio più rilevante è Vincenzo De Luca»: chi la mantiene in sella?
Sembrerebbe che Mantellini abbia una tremenda difficoltà nel realizzare che l’ostacolo più grosso posto alla costruzione del «partito riformista di sinistra» che da elettore del Pd vorrebbe votare è Renzi. O sarà che l’ha capito, ma l’ostacolo sta nel riuscire a dirlo. E questi, al momento, paiono i veri «ostacoli insormontabili».

venerdì 27 gennaio 2017

giovedì 26 gennaio 2017

[...]


Potrebbe trattarsi di Corrado Alvaro, col quale Leo Longanesi – sua la pagina di diario qui sopra riportata, datata 1° aprile 1950 – intratteneva cordiali rapporti già da una dozzina danni (si erano conosciuti nel 1937, quando per Omnibus, di cui Longanesi era direttore, Alvaro aveva scritto una serie di articoli per il ventennale della Rivoluzione dOttobre). Così folgorante, tuttavia, è laffermazione che siamo moderni una sola volta, e solo per pochi anni, per poi scoprire che siamo i moderni di due, di cinque, di dieci, di venti anni addietro, da rendere oziosa la questione dellattribuzione: ci viene data la chiave di lettura del tragicomico che cogliamo nellanziana signora sulle cui labbra vizze il rossetto fa cuoricino, comera di moda negli anni Trenta; nel kitsch dellimmaginario sessuale di Silvio Berlusconi riusciamo a cogliere gli archetipi celebrati da Le Ore; nella decisione di aprire un blog – aprirlo nel 2017, a vent’anni da quando aprirne uno era fighissimamente trendy – scorgiamo in Matteo Renzi il quarantenne già irrimediabilmente démodé. 

martedì 24 gennaio 2017

«Serve un grande manifesto dell’ottimismo»

Viviamo nel migliore dei mondi possibili, ma sordidi figuri, mossi da oscuro e insanabile disagio esistenziale, ce ne guastano il pieno godimento alternando molesta lagnanza a rabbioso malcontento. Che fare? «Serve un grande manifesto dellottimismo», propone Claudio Cerasa (Il Foglio, 24.1.2017), rammentandoci che la vita è bella, e che la globalizzazione lha resa tale anche a centinaia di milioni di individui che solo fino a qualche anno fa morivano letteralmente di fame.
Come dargli torto? Dove ieri regnava la più nera miseria, oggi ci sono moltitudini che guadagnano trenta, quaranta, talvolta perfino cento dollari al mese, per dieci, dodici, talvolta pure quattordici ore di lavoro al giorno, che sarà pure sfruttamento, ma come negare che costituisca un notevole miglioramento delle loro condizioni di vita? Niente da fare, «mercanti delle paure, signori dellapocalisse, prìncipi del disfattismo» si ostinano a dire che tutto va a catafascio, rifiutandosi di «osservare il mondo, e dunque la globalizzazione, nella sua meravigliosa complessità».
Davvero un peccato, questo richiamo di Claudio Cerasa a considerare la complessità della globalizzazione, perché una generica esortazione allottimismo ci avrebbe consentito di non mettere da parte lironia con la quale si è fin qui potuto evitare di dargli dello stronzetto. E dunque andiamola a considerare, questa complessità.

Da cosa nasce questo improvviso, ancorché assai relativo, benessere che piove addosso a centinaia di milioni di individui che solo fino a qualche anno fa morivano letteralmente di fame? Dalla logica che impone al capitalismo di abbattere i costi della produzione per massimizzare il profitto, cosa che può essere ottenuta solo in due modi, peraltro non alternativi luno allaltro: sostituendo quanto più possibile al lavoro degli uomini quello delle macchine e procacciandosi manodopera al più basso costo possibile. (In realtà, fra i costi della produzione andrebbero considerati anche quelli relativi alla materia prima, alla distribuzione del prodotto finito e alle tasse, ma al momento teniamoli da parte.)
Dopo poco più di mezzo millennio lungo il quale questa logica ha trionfato, a che punto siamo? In altri termini, cosa possiamo attenderci dal fatto che il costo del lavoro tenderà inevitabilmente ad aumentare anche laddove ora è bassissimo, come d’altronde è sempre accaduto nel corso della storia con la sola eccezione dei casi in cui il lavoro era affidato a schiavi cui era negata ogni rivendicazione? Per meglio dire: quale sarà la situazione quando non sarà più possibile tenere alti i profitti avendo a disposizione sempre nuova manodopera da pagare meno di quella già precedentemente impiegata? E quanto tempo manca ancora perché questa situazione si realizzi continuando a ritenere senza alternative un capitalismo senza regole e senza freni?
Anche ammettendo che possa essere globalmente uniformato un regime di bassi compensi, il che ovviamente potrebbe ottenersi solo mediante l’uso della forza, verrebbe inevitabilmente meno la domanda dei beni prodotti, e con ciò si arriverebbe a un crollo della produzione. Ma anche ammettendo che il profitto possa mantenersi alto con la riduzione delle tasse, c’è da chiedersi come tale espediente possa risultare efficacemente stabile nel tempo dovendone comunque rimettere la perdita a carico della collettività. In quanto a cercare di ridurre il costo delle materie prime, è credibile possa risultare possibile a fronte della loro progressiva riduzione o della progressiva difficoltà a reperirle?
Pare evidente che, anche a voler perpetuare il sistema entro il quale la logica capitalistica ha fin qui potuto trovare brillanti soluzioni alle sue cicliche crisi, si debba mettere in conto una sua crisi di sistema, che potrà evitare il blocco delle forze produttive e il suo crollo solo grazie ad unaccumulazione del capitale su basi sempre più ristrette, il che comporterà un inevitabile innalzamento delle tensioni sociali.

Certo, non deve darsi per scontato che la logica del capitale porti a una sterminata moltitudine di schiavi sulla quale imperi una sola potentissima multinazionale che, dopo aver eliminato ogni concorrente, prenderà il controllo totale sulla vita del pianeta, né che questa rappresentazione un po fumettistica di un futuro che solo un ingenuo può pensare già scritto preveda giocoforza una rivolta violenta che porti al caos o, a piacere, a una dittatura del proletariato. E che diamine, Claudio Cerasa ci invita a considerare la complessità della globalizzazione, non possiamo cavarcela a questo modo.
E allora diciamo che quasi certamente non andrà così. Chi fin qui ha potuto trarre profitto da una globalizzazione senza regole potrà anche cedere alla tentazione di approntare soluzioni a breve termine, le solite, alternando concessioni a repressioni, ma poi si farà strada, e probabilmente siamo già a buon punto, la convinzione che un crollo del sistema può essere evitato solo cambiando tutto, perché tutto resti uguale. Occorreranno enormi risorse perché la transizione possa essere avvertita come tollerabile, o addirittura attraente, ma queste sono già disponibili, pronte ad essere spese per reclutare migliaia e migliaia di stronzetti che ci inviteranno a guardare il futuro con ottimismo. 

martedì 17 gennaio 2017

L’ottimismo è di sinistra (e pure marxista)

Nelledizione online di Left Wing, martedì 17 gennaio, compare un articolo a firma di Francesco Cundari che fin dal titolo, Lottimismo è di sinistra (e pure marxista), solleva molte perplessità.
Chio sappia, lunica volta che il termine «ottimismo» fa capolino in un testo «di sinistra» è per scoraggiare dal considerarlo una risorsa: si tratta del duro rimprovero che Gramsci muove a chi pensa che la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto autorizzi a credere che il capitalismo sia destinato a implodere di suo, senza bisogno di dargli neanche un colpetto (Quaderno XXVIII, III), quasi che, con quel «tendenziale» (Il Capitale, III, III), Marx intendesse dire: «Proletari di tutti i paesi, mettetevi comodi, tanto prima o poi tutto il sistema verrà giù da solo». Lettura che Gramsci dice sia da «oppiomani».
E dunque cosa porta Cundari a scrivere che lottimismo è «pure marxista»? Il riferimento sarà per caso a quell«ottimismo» che, nel chiudere la pagina, Gramsci dice possibile solo come espressione di «volontà» a fronte del necessario «pessimismo» imposto dalla «ragione»? Non siamo autorizzati a crederlo, daltronde Cundari non cita Gramsci, ma il Manifesto del partito comunista, che gli pare «intriso – appunto – di ottimismo». Sarà pur vero, ma è ottimismo che non fa mistero di avere come ultimo orizzonte «il violento abbattimento della borghesia»
Viene il sospetto che Cundari si sia lasciato prendere un po troppo la mano nel tentativo, peraltro temerario, di accreditare a Renzi qualcosa «di sinistra». Esplicito, infatti, è il riferimento a quellottimismo che Renzi avrebbe più volte dimostrato nel dare del «gufo» o del «rosicone» a chiunque sollevasse dubbi sulla sua azione di governo: a chi per ultimo glielha rimproverato (la Repubblica, 15.1.2017) Renzi ha risposto che «lottimismo fa parte della politica», e questo, per Cundari, sarebbe prova che in Renzi, ancorché modificato, cè del dna che è «di sinistra (e pure marxista)».
«Un leader di sinistra – scrive – deve trasmettere un messaggio di speranza, non di disperazione. Deve infondere fiducia, non seminare sfiducia»: direi ci sia abbastanza per definire «leader di sinistra» pure il Berlusconi che tentava di infonderci fiducia dicendoci che la crisi era uninvenzione dei suoi oppositori, perché i ristoranti erano sempre pieni e non si riusciva a trovare un posto sugli aerei.
In realtà, ce ne sarebbe abbastanza pure per consigliare a Cundari, persona che ci è simpatica (come direbbe Totò) «a prescindere»: Ciccio, lascia perdere, è impresa disperata. 

lunedì 16 gennaio 2017

[...]

Viene da princeps, che a sua volta viene da primus, quindi è naturale che il principio (ogni principio) inclini a dare uno spiccato tratto imperativo a quanto ci precetta, con ciò esigendo da noi quellobbedienza assoluta che non di rado implicherebbe il disattenderne un altro, dando così luogo a un conflitto che può trovare soluzione solo in un bilanciamento tra i due, che però di fatto li sacrifica entrambi, perché un principio (ogni principio) viene sempre a essere mortificato dal compromesso, e tuttavia (si pensi al conflitto tra principio di piacere e principio di realtà) è proprio grazie ad accomodamenti del genere che si riesce a 

Eviterei di scomodare i massimi sistemi, limitandomi a far presente al titolare del Ministero dello sviluppo economico che il richiamo al principio di riservatezza per opporsi a che siano resi noti i nomi degli insolventi che hanno portato al crac il Monte dei Paschi di Siena, al quale si è posto rimedio con una ventina di miliardi presi dalle tasche dei contribuenti (a quei quattro sfessati del M5S, che ne chiedono diciassette per il reddito di cittadinanza, si è soliti rispondere che è una proposta campata in aria, perché è impossibile trovare la copertura), confligge un pochetto col principio della trasparenza nell’impiego delle risorse pubbliche: perché chi si addossa l’onere di colmare una voragine non avrebbe diritto di sapere chi lha scavata? A scavarla sarebbe stato chi ha concesso i prestiti, non chi li ha avuti e non li ha restituiti, così argomenta il signor ministro, e senza dubbio questo è vero, ma giacché è altrettanto vero che il denaro non veniva prestato a tutti (a quanti poveri cristi sarà stato negato un mutuo per la prima casa o per risistemare la bottega?) che male c’è a cercare di farsi un’idea su quale tipo di clientela riuscisse invece a farselo prestare, e come, e perché? Se la colpa è di chi concedeva il prestito, non ha alcuna importanza sapere perché lo ha concesso a Caio, e a Tizio no? Pare evidente che sia stato prestato denaro, e tanto, a chi non avesse modo di poter offrire congrue garanzie di solvibilità: perché non deve esser dato sapere di quali strumenti potesse essere in possesso per renderle superflue al momento della richiesta? 

domenica 15 gennaio 2017

Medicina fai-da-te


Vi eravate illusi che ce lo fossimo tolto per sempre dai coglioni? Non prendetela come unoffesa, è una diagnosi (e scusate la brutalità, ma per dirlo non cè altro modo): non avete speranze, siete allo stadio terminale della fessaggine.
Condizione altrettanto grave, ancorché con prognosi meno severa, se vi eravate illusi che ce lo fossimo tolto dai coglioni almeno per qualche tempo: siete seriamente fessi, ma ricovero durgenza, adeguata terapia e un pizzico di fortuna vi danno ancora il lumicino di qualche speranza, salvo complicazioni. Qui, però, occorre far opportuna distinzione per gradi. Pensavate saltasse il prossimo congresso del partito o addirittura le prossime elezioni politiche? La terapia d’attacco sarà giocoforza assai pesante, quella di mantenimento estremamente lunga. Contavate non si rifacesse vivo almeno fino al primo dei due appuntamenti? Trattamento meno duro, ma comunque impegnativo. Avevate scommesso su marzo o aprile, con un rientro tipo «cervo a primavera»? Dopo alcuni mesi di degenza, potreste sperare di avere il consenso alle cure domiciliari.
Se invece pensavate che la mazzata del 4 dicembre gli fosse almeno servita da lezione, la cosa è assai meno grave, ma sia chiaro che sempre fessi siete, sicché sarebbe da sconsiderati rifiutare le dovute cure e il lungo ma indispensabile trattamento riabilitativo consistente in ripetuti cicli di «star sotto» al gioco dello «schiaffo del soldato».
Ultimo quadro clinico: sapevate esattamente, eventualmente già nel mentre glielo sentivate dire la prima volta, quanto valesse quel «se perdo il referendum, non è soltanto che vado a casa, ma smetto di far politica» (12.1.2016); dai coglioni non ha mai smesso di salirvi il presentimento che non avreste dovuto aspettare troppo per rivedercelo sopra, e questo eventualmente già nel mentre lo sentivate dire che, «quando uno perde, non fa finta di nulla, andandosene a letto e sperando che passi velocemente la nottata» (4.12.2016); allannuncio che si stesse preparando a farlo già per metà gennaio, poi, non vi siete illusi che quel «cambieremo strategia» (24.12.2016) potesse significare più di tanto; tuttavia avete pensato – e qui sta la fessaggine, seppur in forma assai attenuata rispetto a quella dei tre quadri clinici sopra descritti – che sulla scena si sarebbe visto un Matteo Renzi almeno un po diverso da quello già tristemente noto: stessa faccia di cazzo, naturalmente, e stesso narcisismo, stessa irresistibile compulsione a mentire e a manipolare, ma almeno sotto un velo di finta bonomia, di falsa modestia, di ipocrita umiltà.
Bene, con l’intervista concessa a Ezio Mauro (la Repubblica, 15.1.2017), che mostra un Matteo Renzi in tutto simile – ma proprio in tutto – a quello che era strasicuro di vincere il referendum del 4 dicembre, a ogni fesso è offerto un prezioso strumento di autodiagnosi con l’opportunità di dare alla propria fessaggine il corretto inquadramento clinico. Uno dei pochi casi in cui la medicina fai-da-te è caldamente consigliata. 

venerdì 13 gennaio 2017

mercoledì 11 gennaio 2017

Corrispondenze

Caro Luigi, ti scrivo privatamente per un semplice motivo di comodità nella gestione del testo; come ogni nostra precedente corrispondenza, non ho alcuna obiezione a che tu ne faccia l'uso pubblico che tu possa eventualmente preferire.
Lo faccio perché due dei tuoi ultimi post (Verità e post-verità, del 2 gennaio e Prevedibile qualche problemino, del 9) mi pare sollevino questioni che, ancorché assai significative di per sé, sarebbero ben poco cogenti all'occasione che le ha generate. Trovo infatti che il tema delle bufale, o fattoidi, sia del tutto altro rispetto alle solenni tematiche aletologiche da te evocate: non ne va, infatti, dello statuto della verità e della sua conoscibilità, con tutte le inevitabili implicazioni ontologiche; problema che, lo dico en passant, si pone inevitabilmente per ogni verità a priori, anche se ovviamente in termini diversi, sia essa conosciuta per fede o per deduzione.
Per meglio dire, è chiaro che le verità di fede implicano di necessità la verità di un quadro onto-teo-logico ben definito, con tutti gli inevitabili trattini, ma sappiamo anche che la verità puramente logica della corretta deduzione di un assioma non è affatto priva di ambiguità epistemologiche, gnoseologiche e, ancora una volta, ontologiche (qual è lo statuto esistenziale di una proposizione analitica? in che modo la sua irriducibilità a qualsiasi esperienza può comunque trovare accesso alla sfera empirica, tanto da essere compresa e persino evidente?). Ma tutto ciò mi pare, semplicemente, fuor di luogo, proprio perché stiamo parlando di una specie forse minore di verità, senz'altro di una specie che attiene specificamente ed esclusivamente ai dati di fatto, e che è accessibile attraverso metodi ben sperimentati di verifica e falsificazione. Proprio per questo, si tratta di una tipologia di proposizioni perfettamente coincidente con la serie completa del suo repertorio fattuale, dunque perfettamente identificabile attraverso semplici esempi, come questo o quest'altro. Insomma, le bufale sono semplicemente informazioni dimostrabilmente false (entro i semplici limiti delle verità di fatto e secondo i metodi consuetamente accettati come buone pratiche elementari dell'informazione affidabile e corretta), che vengono messe in circolazione attraverso i media, siano essi quelli tradizionali di tipo "verticale" o le (relativamente) nuove reti sociali di tipo "orizzontale". L'esempio classico mi pare quello dei Protocolli dei Savi di Sion, la cui falsità era stata ampiamente dimostrata fin dal 1921, ma che hanno continuato a esser presi e spacciati per veri, e continuano ancora oggi.
Anche la nozione di post-verità mi pare abbastanza pacifica, almeno per quanto riguarda il suo significato proprio: si tratta dell'uso continuativo di bufale per costruire una rappresentazione approssimativamente coerente della realtà, a cui fare riferimento per ottenere consensi e per trasferire al suo interno il dibattito politico, con il risultato di dichiarare irriducibilmente nemico, se non manipolatore a sua volta della verità, chi rifiuta questa rappresentazione. Anche in questo caso, mi pare che l'esempio dei Protocolli sia sufficientemente cogente.
Tutto questo per dire che la questione non riguarda la semantica ma la pragmatica, non lo statuto della verità ma le modalità con cui le informazioni entrano nel circuito del discorso pubblico e orientano la formazione della volontà politica. Trovo che questo sia anche il terreno su cui affrontare la questione, eminentemente politica anch'essa, dell'opportunità o meno di un'autorità che verifichi la validità delle informazioni; soprattutto, trovo che sia su questo terreno che vada cercata la risposta alla prima domanda che sollevi in Prevedibile qualche problemino (perché questa necessità non è avvertita anche per quelle che sono sempre circolate e tuttora circolano in tv e sulla stampa, né mai è stata avvertita in passato, quando il web non esisteva [...] ? [...] perché questa necessità è avvertita solo adesso che il web è diventato un canale informativo alternativo a tv e stampa?): lo statuto specifico delle bufale sul web andrebbe infatti cercato, a mio parere, nella loro specifica efficacia nella formazione di quel costrutto che abbiamo appena definito post-verità. In altre parole: sappiamo bene cosa potrebbe succedere al lasciar libero corso ai Protocolli sulla stampa, e ci siamo dotati di strumenti legislativi abbastanza efficaci per contrastare una simile eventualità, ma le caratteristiche della loro circolazione sul web richiedono forse che le eventuali misure di contrasto, per essere efficaci, debbano subire quanto meno una ricalibratura.
Intendiamoci, anch'io sono contrario a che se ne occupi una qualche autorità costituita e, si parva licet, ho provato a fornirne qualche ragione qui, ma ciò non credo possa togliere nulla alla centralità della questione delle informazioni, della loro qualità, dei loro canali di diffusione e delle loro modalità di fruizione, all'interno del discorso pubblico. Ritengo comunque che non si faccia un gran servizio. Ritengo, insomma, che si tratti di fact-checking e non di aletologia, e che non si faccia gran servizio a confondere deontologia e ontologia. Ma su questo sono convinto che saprai illuminarmi meglio.
Con immutata stima,

Nane Cantatore


Caro Nane, quando la discussione prende a oggetto un termine ambiguo, io non vedo miglior modo di evitare fraintendimenti che accordarsi sul significato che gli si intende dare. Ti dirò di più: coltivo l'illusione che basti trovare questo accordo, procedendo con l'analizzare la natura del nesso tra significante e significato, e questo è sempre possibile, per poter almeno chiarire a dovere le proprie posizioni, che non è affatto sufficiente a ricomporle, rivelandone la solidità argomentativa, per quanta ve n'è. Non m'è parso di consumarmi in solenni tematiche aletologiche: direi che col primo dei post citati mi sono intrattenuto a riflettere sul termine post-verità che, avendo necessariamente qualche relazione con quello di verità, credo meritasse un minimo di attenzione sul piano semantico; nel secondo, invece, ho riflettuto sul soggetto che da più parti viene evocato come superiore autorità cui affidare il compito di stabilire ciò che è vero e ciò che è falso. Ora, tu mi fai notare che il problema non è semantico, ma tutto politico, e che il falso in questione è dimostrabilmente tale entro i semplici limiti delle verità di fatto, mentre non mi è del tutto chiaro, e forse non lo è neppure a te, se sia davvero possibile una superiore autorità in grado di bonificare il web dalle bufale. Il problema è che io ritengo estremamente importante definire questi limiti, che non mi paiono poi così ben definiti, sicché l'esempio dei Protocolli dei Savi di Sion può tornar buono tutt'al più a dimostrare che questi limiti vadano definiti, non già che essi già lo siano. L'esistenza di Babbo Natale, per esempio, casca di qua o di là da questi limiti? Più in generale, direi sia meglio dare libertà di pascolo alle bufale, e libertà di caccia. Poi, sì, diamo al diritto penale la sua parte, caso per caso.  



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Caro Luigi, evidentemente ho attribuito a te lo stesso mio vizio di buttarla in filosofia, dal quale sono tanto affetto che se qualcuno mi dice, bontà sua, di volermi bene, mi chiedo subito se sia bene morale o metafisico, e in tal caso se da intendersi come perfezione della sostanza o pienezza degli attributi, e se questa perfezione vada intesa come vicinanza al bene supremo o non piuttosto come entelechia dell'ente rispetto a quanto esso ha di più proprio.
Ma, visto che stiamo ragionando su termini che si comprendano in modo adeguato e condiviso, propongo questa definizione di bufala, che mi pare stia del tutto all'interno delle verità di fatto e della loro verificabilità empirica: "bufala è la notizia (scil. informazione circa un nuovo stato di fatto o un cambiamento significativo di uno stato di fatto preesistente) dimostrabilmente (con strumenti e fonti ordinariamente accessibili) falsa, spacciata per vera attraverso canali di comunicazione fruibili da un pubblico eccedente la sfera dei contatti diretti del suo emittente". L'ultima puntualizzazione distingue la bufala dal pettegolezzo o dalla bugia, mentre quella sulla dimostrabilità con mezzi ordinari serve a circoscriverne la specie, separando i fatti dalle opinioni (se dico che la scoperta di una nuova specie di toporagno è una prova dell'onnipotenza divina dico una cazzata, ma non una bufala) e rendendo possibile l'attribuzione di responsabilità (se la bufala è falsificabile con mezzi ordinari, si può presumere il dolo da parte del suo autore).
Da questo punto di vista, l'esempio dei Protocolli è calzante, anche se sono d'accordo con te che si tratta di un caso-limite: si dimostra falso che vi sia stata una riunione dei Savi di Sion dal momento che si è dimostrata falsa la documentazione allegata, mentre che vi sia qualcuno che complotta, con maggiore o minor successo, resta un'opinione; a questa opinione, confutando la bufala, si toglie forza persuasiva, gettando discredito su chi, per sostenerla, è disposto a fabbricare prove false. Mi sembra che così si possa ottenere un buon esempio di quella che si intende come post-verità (temine orribile e fuorviante, concordo): l'uso sistematico di bufale per accreditare tesi prive di fondamento in stati di fatto effettivamente documentabili.
Ora, posto che una definizione, che penso ci troverebbe concordi, di democrazia sia quella di "metodo di governo orientato dai convincimenti, liberamente formati, della maggior parte dei cittadini". e che per la libera formazione di questi convincimenti la qualità delle informazioni sia una risorsa essenziale, credo ci si possa porre queste domande:
a. Le bufale rappresentano, in quanto tali, una possibile interferenza in questa libera formazione?
b. Esiste oggi una diffusione particolarmente significativa delle bufale, anche per effetto delle particolarità delle reti sociali, che ne favoriscono la diffusione e ne rendono particolarmente difficile la confutazione?
c. Esistono dei soggetti politici che traggono particolare vantaggio dalla circolazione delle bufale?
d. Esiste un interesse generale della collettività a limitare la circolazione delle bufale, e più in generale a far sì che la formazione dei convincimenti sia effettivamente libera?
e. Quali sono le forme di contrasto delle bufale che la collettività ha interesse a promuovere, anche tenendo conto dei costi per la libertà e della democrazia di eventuali forme di censura o di limitazione della circolazione di informazioni?
Penso che alle domande da a) a d) si possa rispondere affermativamente senza troppa difficoltà, anche se tutte meritano approfondimento e riflessione, per capire lo stato reale della società e delle sue dinamiche. Come spesso accade, i problemi sorgono quando si arriva come: sono dell'opinione, per una molteplicità di ragioni che vorrei esporre pianamente in un'altra occasione, che il progetto di una sorta di ufficio pubblico per il fact-checking sia sostanzialmente un'idiozia, ma credo anche che la caccia libera da te proposta, e da molti praticata, non sia sufficiente, per quanto lodevole. Insomma, il problema della democrazia è che gli ignoranti contribuiscono alla decisione, e che proprio loro siano, per una varietà di ragioni che sarebbe opportuno indagare, quelli più facilmente suggestionabili dalle bufale, e paradossalmente i meno permeabili alla loro confutazione. Ora, se è vero che l'imposizione dell'acculturazione ai bestioni è spesso stata foriera di disgrazie, credo sia altrettanto vero che subire il dominio di bestioni manipolati dalle bufale sia una condizione altrettanto disgraziata.
Ecco, mi piacerebbe aprire un dibattito serio su questi temi, che mi sembrano definiti con una certa chiarezza. Che ne pensi?
A presto,
Nane Cantatore



Caro Nane, il mio vizio è un altro: io la butto sempre in glottologia, filologia, linguistica, retorica e psicologia. Direi che mi interessa la parola, con tutto ciò che le sta sotto e dietro, ma anche sopra e davanti, e naturalmente a lato. Se mi prometti di non ridermi in faccia, ti confesso che già da qualche tempo la mia lettura preferita è quella dei dizionari, soprattutto quelli etimologici, quelli analogici, quelli dei sinonimi e dei contrari. Diciamo che, dopo aver speso tanto tempo sulla proposizione e sulla logica che la regge, sono passato ai moventi che stanno dietro la scelta dei termini che vanno a comporla. Così – faccio un esempio – leggo "evidentemente ho attribuito a te lo stesso mio vizio di buttarla in filosofia", e mi si pone la questione: "evidentemente" sta per "innegabilmente" o per "a quanto pare"? Ed è "evidenza" che si disvela per trasparenza, per luminosità o per limpidezza? Non c'è bisogno che mi soffermi troppo sulle differenze perché, invece di "ti ho ascritto" o "ti ho addossato", hai scelto "ti ho attribuito", e "attribuire" viene da "ad-tribuere", che rimanda a "tribus": tra appartenenti alla stessa tribù non c'è bisogno di troppe spiegazioni, ci si intende pure con un cenno. Scherzo, naturalmente, facevo autoironia sul vizio. Ma veniamo a noi. Non ho obiezioni da sollevare alla definizione che dai di "bufala", e nemmeno al fatto che, mettendo "post-verità" da parte, si eviti la discussione sul perché si sia voluto coniare proprio un neologismo del genere per qualcosa che è "solo" una "bufala". In realtà, a me premeva proprio questo problema, perché ammetterai che tra "fatto" e "verità" ce ne corre. Ma fa niente, saltiamo la "semantica" e cadiamo a pie' pari nella "politica". Rispondo sì alle domande al capo a., b., c. e d., ma su quella al capo e. rispondo no, e per una semplicissima ragione: una democrazia pedagogica – permettimi di condensare in questa espressione l'esigenza di censura che tu senti al fine di evitare "il dominio di bestioni manipolati dalle bufale" – è stretta parente della demagogia, come è evidente col togliere a "democrazia pedagogica", come quando si semplificano le equazioni, "peda-" e "-crazia". La "verità" – ma anche soltanto ciò che può spremersi dal più scientifico fact-checking – non si può imporre: deve vincere per consenso. Ti abbraccio.


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Mi pare di non "messo da parte" la nozione di post-verità, ma di averla corsivamente definita come "l'uso sistematico di bufale per accreditare tesi prive di fondamento in stati di fatto effettivamente documentabili": pur non amando più di te il termine, credo che il concetto vada salvato, in quanto puntualizza quel carattere sistematico che tende, come si è visto qualche volta nella storia, a farsi totalitario.
Non voglio ricadere nell'ennesima reductio ad Hitlerum, ma l'esempio delle innumeri bufale sistematicamente fattesi propaganda per creare consenso all'ascesa al potere di chi ne faceva uso, e per legittimarne le pratiche una volta realizzata quest'ascesa, questo esempio insomma indica ciò che segna il salto di qualità dai Protocolli a Goebbels; salto di qualità che si realizza in un continuum coerente, anche se non è certo necessario che si produca.
Eccoci così al punto saliente: l'esercizio impunito e continuativo delle bufale avvelena l'aria e intorbida le già poco chiare acque della società democratica, se non altro perché fornisce un vantaggio sleale a chi ne fa uso, e perché orienta la formazione della volontà popolare su questioni false o per lo meno impropriamente formate, con il risultato di sottrarre alla sfera pubblica ciò che maggiormente le dovrebbe appartenere, e cioè la deliberazione sulle questioni di maggior momento per la collettività.
Lo ribadisco: l'authority anti-bufale sarebbe, nel migliore dei casi, inutile, e conterrebbe comunque un germe autoritario e censorio altrettanto esiziale del male a cui dovrebbe porre rimedio. Senza contare che uno strumento di questo genere avrebbe un altro vizio di fondo: come espressione di un'autorità centralizzata e investita di un qualche potere, non avrebbe nessuna credibilità di fronte a notizie che traggono la loro forza proprio dall'essere condivise tra conoscenti (in modo "orizzontale", come si ama dire tra i saputelli del web) ed estranee alle fonti informative ufficiali e consolidate.
La mia domanda, insomma, è sul "come": esclusa, per i motivi appena detti e per molti altri ancora, la famosa autorità, mi pare che il volenteroso e meritorio esercizio di debunking svolto da numerosi siti specializzati e da tanti di noi non sia, nonostante tutto, all'altezza del compito. Dici di osteggiare l'idea di una "democrazia pedagogica", e ci mancherebbe altro; anche se il sistema scolastico, più o meno ogni istituzione culturale e, in fondo, le stesse leggi hanno comunque una centrale funzione pedagogica, se è vero, come penso, che siano le buone leggi a fare buoni i cittadini, e non viceversa.
Per meglio dire, penso che sia valido nella sostanza il celebre detto kantiano sull'Illuminismo come uscita dell'uomo da uno stato di minorità in cui è caduto per sua colpa, e che il riscatto da questa colpa sia faccenda non semplice, non comoda, non definitiva e forse non sempre priva di forzature e imposizioni. Con questo non voglio ovviamente sostenere che debbano essere le istituzioni a orientare il pensiero dei cittadini, ma che il dibattito pubblico, se non vuole trasformarsi in mero agone di contrapposte propagande e fanfaluche, debba comunque svolgersi secondo alcune regole argomentative. Come farlo, ripeto, è la questione.
Insomma, il bestione di scarso intelletto e robusta fantasia, capace di credere alle favole che egli stesso inventa, questo bestione vichiano è la minaccia sempre incombente di un regresso nello stato di minorità, e la colpa di questo regresso sta tutta nel suo voler esser bestia, nel sostituire la fede, l'illusione, la credenza e la mentalità gregaria alla libera e faticosa disamina delle informazioni e dei dati: come fare, quando gli istinti del bestione vengono assecondati con estrema efficacia?
Azzardo una possibile risposta: stabilire che chiunque pubblichi qualcosa su qualsiasi piattaforma, tradizionale o digitale, se ne assume la responsabilità. Ogni opinione sia lecita, ma le false notizie siano punite, secondo quando vale oggi per le fattispecie di diffamazione e di calunnia a mezzo stampa, e sia riconoscibile, sempre e comunque, chi le pubblica. Naturalmente, non sia ammessa alcuna forma di ignoranza o presunzione di buona fede: chi pubblica esercita un proprio diritto, e se ne assume ogni responsabilità. Corollario di questo dispositivo, che di fatto renderebbe ognuno giornalista, è che cesserebbe ogni obbligo di iscrizione all'ordine per autorizzare la pubblicazione, con il risultato ulteriore di dare un utile calcetto a una inutile corporazione. Forse potrebbe essere un buon punto di partenza.
Un abbraccio,

Nane



Non sono disposto a "salvare" il termine post-verità: anche quando la creazione e diffusione di "bufale" sono funzionali a un piano "totalitario", come nell'esempio che riprendi, credo sia pericoloso tirare in ballo un termine che, pur implicandone la negazione, anzi il superamento, chiami in gioco la verità, che puzza di assoluto. È tentazione forte, te lo concedo, ma implica lo stesso pericolo che scorgo nel definire il nazismo "Male assoluto" (dove peraltro non si capisce che senso abbia la maiuscola, stante quell'aggettivo), quello di trattare cosa tutta immanente come incarnazione di un trascendente, rendendola pervertitamente fascinosa. Il nazisti erano criminali, e i loro crimini era estremamente gravi – stop. Convengo, invece, con ciò che qui ribadisci riguardo ai pericoli d'inquinamento che le "bufale" comportano nella formazione dell'opinione pubblica, con quanto ne consegue per la democrazia, d'altronde avevo già risposto sì alle prime quattro delle cinque domande che ponevi nel tuo precedente intervento, e riaccolgo con piacere il tuo convenire sul fatto che "l'authority anti-bufale sarebbe, nel migliore dei casi, inutile, e conterrebbe comunque un germe autoritario e censorio altrettanto esiziale del male a cui dovrebbe porre rimedio". In quanto al da farsi, penso che gli strumenti non manchino, e non mi riferisco solo al "volenteroso e meritorio esercizio di debunking svolto da numerosi siti specializzati e da tanti di noi". Penso, ad esempio, all'art. 656 del nostro codice penale, che recita: "Chiunque pubblica o diffonde notizie false, esagerate o tendenziose, per le quali possa essere turbato l'ordine pubblico, è punito, se il fatto non costituisce più grave reato, con l'arresto fino a tre mesi o con l'ammenda fino a euro 309". Oltre che inasprendo le pene, potrebbe essere potenziato col contemplare, come bene pubblico da preservare, non solo l'ordine, ma anche la corretta formazione dell'opinione: a giudicare sarebbe la magistratura, ma con un'autorità che non le sarebbe attribuita dal potere esecutivo. Come compromesso ti va bene? Per quanto attiene al web – e qui ribadisco un'opinione più volte espressa su queste pagine – è venuto il momento di bilanciare la libertà con la responsabilità: inammissibile l'anonimato. 

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Continuo il carteggio, soltanto per dirimere l'ultimo equivoco, oltre che per il piacere che mi deriva dal nostro scambio di plaisanteries. Come notato con efficace sintesi dal commento di un anonimo, per me esiste una differenza sostanziale tra la singola bufala e la produzione sistematica di innumeri bufale: è per indicare questa seconda fattispecie che mi pare si faccia ricorso al lemma di post-verità, sulla cui inadeguatezza, ambiguità e generale improprietà concordo. Propongo di utilizzare, in sua vece, quello di bufalificio, che ha una bella assonanza con veneficio, o, se preferisci, di associazione bufalistica, che ha se non altro il merito di riprendere la differenza tra l'estorsione perpetrato da un balordo ai danni di un negoziante e l'organizzazione di un racket; ovvio che si tratta di scelte lessicali provvisorie, in attesa di soluzioni migliori, ma già preferibili a quella attuale.
Una sola cosa vorrei aggiungere, a difesa delle intenzioni che mi paiono sottostare al concetto di post-verità: nella sua assonanza a quello di post-moderno (e sono d'accordo che non basta un'assonanza a fare un buon etimo), indicano una parentela di fondo nell'idea, questa sì puramente postmoderna, di narrazione (recit) come costituzione della realtà, in opposizione ai grandi costrutti razionali, scientifici e sistematici, della modernità: se ognuno abita nella propria narrazione, se manca persino un criterio decisionale comune da trovarsi nella corretta prassi logica e argomentativa, allora non si dà più nemmeno una realtà comune (intesa come collezione di fatti significativi e consolidati), ma ciascuno diventa impermeabile a tutto ciò che non fa sistema con la propria narrazione di riferimento. Il risultato è che la sistematicità universale della modernità viene sostituita, non da una libera invenzione confrontabile con altre o da una libera determinazione dei propri bisogni che possono e devono convivere con quelli altrui, ma da una serie di sistematicità minori, chiuse e di carattere tribale.
Detto questo, si apre la questione di come agire non nei confronti della singola bufala, rispetto a cui la soluzione per via ordinaria che ci vede concordi sarebbe già efficace, ma riguardo la loro elevazione a propaganda sistematica. Qui, sia ben chiaro, non invoco autorità censorie, leggi speciali o altre mostruosità, ma mi limito a sottolineare la cogenza politica della questione, nell'attualità in cui abbiamo la fortuna di trovarci. Credo che, invece, sia opportuno affrontare la dimensione politica di un fenomeno che è politico, se non altro per portata sistemica: un po' come le mafie, che non possono essere affrontate efficacemente se le si combatte sul solo terreno del contrasto alla criminalità, ma vanno comprese e affrontate nella loro dimensione sociale e politica.

PS: d'accordo pienamente con quanto dici del nazismo. Del resto, se fosse un male assoluto e non semplicemente un caso limite, storicamente accaduto, di un'evenienza sempre possibile anche nella nostra società, riferirsi ad esso non avrebbe nemmeno alcun valore argomentativo.

Nane



Se vogliamo rinunciare all'uso di un termine come post-verità per il pericolo che comporta il suo richiamo a una verità assoluta (lieto di trovarti d'accordo su questa rinuncia), ma allo stesso tempo sentiamo bisogno di un termine che esprima la sistematicità dell'adulterazione dei fatti in fattoidi, credo che un termine come bufala sia debole in ogni suo possibile derivato. È che noi abbiamo un termine che esprime la natura moralmente sensibile della menzogna in ambito pubblico, e questo termine è fandonia, che peraltro si fa carico di esprimere a dovere due tratti essenziali della confezione di questo particolare genere di frottole: il fatto che si tratti di invenzioni (da invenio: trovate) e che il loro contenuto sia dimostrabile come infondato mediante l'uso dei più comuni strumenti di verifica. Potremmo parlare di fandonificio, per esempio. In quanto alle attinenze evocative della post-modernità che sono manifeste in un termine come post-verità, rendendo quest'ultimo appropriato a sussumere aspetti del primo, ti rammento che perfino l'ultimo Lyotard ebbe a sollevare dubbi sulla congruità semantica del neologismo da lui coniato. Per finire, sulla dimensione politica del problema che dovrebbe trovare un corrispettivo nella soluzione: trovo pertinente il parallelismo con le attività criminali mafiose – parallelismo che tuttavia regge solo fino a un certo punto – e appunto perciò, parafrasando Sciascia, dico: evitiamo di creare professionisti della verità. Anch'io vorrei lasciare un post-scriptum: non ho ritenuto appropriato tradurre Fälschungsmöglichkeit con falsificabilità, perché genera un sacco di guai quando lasciata nelle mani di chi non ha letto Popper. A me piacerebbe renderla con un altro termine: inficiabilità.